La dipendenza dall’aiuto allo sviluppo: un’exit strategy che viene dal Sud

di Enrico Materia

Amministratore coloniale in turnee

Molti paesi a basso reddito sono ancora intrappolati dalla dipendenza dall’aiuto allo sviluppo, considerato strumento al servizio dell’ideologia economica dell’Occidente. Una tagliente monografia illustra una via d’uscita, attraverso una strategia politica che mette “il cavallo dello sviluppo davanti al carro dell’aiuto” e gli interessi delle popolazioni locali al posto di quelli neocoloniali.

Julius Nyerere, padre fondatore della Tanzania, leader panafricano e socialista evangelico, definiva lo sviluppo come un lungo processo democratico, senza influenze imperiali, che ha inizio “dall’interno” con la popolazione che partecipa alle decisioni che la riguardano, finalizzato a migliorare le condizioni di vita della gente, a realizzare il potenziale per l’autodeterminazione e a evitare ogni forma di sfruttamento sociale.

Una tale idea di sviluppo, oggi sempre più spesso espressa in termini di “democratic ownership”, possesso democratico del proprio destino, è trasposta nel lavoro di Yash Tandon[1]Ending Aid Dependence in un’icastica formula:

Sviluppo = FS + FD – FI
dove F = Fattore, S = Sociale, D = Democratico e I = Imperiale.

Lo sviluppo, da questa prospettiva, non equivale alla mera crescita economica (con liberalizzazione dei mercati, investimenti stranieri, e “buona governance” definita secondo criteri occidentali) e all’accumulazione di ricchezze che, ripartite in modo oscenamente ineguale, vanno a impinguare i forzieri delle corporations occidentali e di una sparuta minoranza che lavora al loro servizio nei paesi più poveri. Lo sviluppo, piuttosto, è un processo di empowerment che richiede di liberare le potenzialità umane e le risorse di una nazione dalle strutture di dominio e di controllo, incluso l’uso del linguaggio.

Da questo punto di vista il discorso sull’aiuto allo sviluppo è interconnesso con quello sulle politiche economiche e sulle regole del commercio internazionale, stabilite dalla governance globale a guida “imperiale”: Banca Mondiale (BM), Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Con la globalizzazione neoliberista degli ultimi decenni, il c.d. “consenso di Washington” (tu chiamalo se vuoi: pensiero unico) ha prodotto l’esternalizzazione delle risorse dai paesi a basso reddito verso quelli occidentali aumentando a dismisura le diseguaglianze tra i paesi e all’interno degli stessi[2](in Risorse).

Paradigmatici sono, in Africa, i casi dello Zambia e dello Zimbabwe, dove la dipendenza dall’aiuto e i famigerati piani di aggiustamento strutturale della BM e del FMI hanno asfissiato in culla i tentativi nazionali di sviluppo endogeno e riformato nel profondo la microstruttura dell’economia, generando drammatiche crisi economiche e politiche. La predominanza del capitale speculativo su quello produttivo negli anni ’90 ha poi prodotto le crisi finanziarie in Messico, Estremo Oriente e Argentina, per non parlare dell’odierna crisi finanziaria ed economica globale. L’operato delle istituzioni finanziarie internazionali, oramai ampiamente screditate, dovrebbe essere oggetto di una commissione d’inchiesta in grado di definire e rendere pubblico l’abuso del mandato (“mission creep”)[3] ricevuto a Bretton Woods, perpetrato a discapito delle popolazioni più povere del pianeta imprigionate dalle catene della storia.

La monografia analizza criticamente i criteri utilizzati dall’OCSE/DAC per determinare l’eleggibilità dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS/ODA), a partire dal semplicistico e insostenibile assunto che equipara l’APS alla crescita economica e quest’ultima allo sviluppo. Propone piuttosto una nuova tassonomia dell’aiuto che utilizza cinque colori dell’arcobaleno per definirne le diverse categorie. Il ventaglio va dall’Aiuto Viola, basato sulla solidarietà, fino all’Aiuto Rosso finalizzato a promuovere una determinata ideologia tra i governanti e le popolazioni dei paesi beneficiari. Questa tipologia di aiuto è stata analizzata sin dai tempi del colonialismo da intellettuali e scrittori. Edward Said ne tratta nel libro Orientalism[4], mentre la poesia “Il fardello dell’uomo bianco” di Rudyard Kipling è divenuta metafora di confronto per economisti del calibro di William Easterly[5], Jeffrey Sachs[6] e Amartya Sen[7]. L’Aiuto Rosso ai nostri tempi ha tre aspetti interdipendenti che includono l’ideologia dello sviluppo basato sul consenso di Washington, dei diritti umani, e della buona governance (spinta fino alla guerra per “esportare la democrazia”): vincere le guerre (ad esempio in Iraq o in Afghanistan) non basta, il progetto imperiale deve arrivare ai cuori e alle menti della gente – basti pensare a questo proposito al ruolo svolto dai media e dalla propaganda.

Nello spettro dei colori dell’aiuto vi sono anche: l’Aiuto Arancione (di fatto transazioni commerciali), l’Aiuto Giallo (politico e militare), e l’Aiuto Verde/Blu (assistenza tecnica e finanziaria a scopo umanitario). A quest’ultima categoria afferiscono l’aiuto umanitario e per le emergenze slegato da ritorni d’interesse, la fornitura di beni pubblici globali, e la c.d. “finanza compensatoria”.

Un’implicazione di questa classificazione è che la società civile del Nord, come quella del Sud, può trovare affinità per l’Aiuto Viola e anche per il Verde/Blu, piuttosto che per le altre tipologie di aiuto.

Come può un governo di un paese africano soddisfare la promessa di dare democraticamente conto del suo operato alla popolazione, se il 25% (in qualche caso il 50%) del budget nazionale viene finanziato dai donatori sotto il ricatto di condizionalità ideologiche?

La monografia propone un’exit strategy per uscire dalla dipendenza dall’aiuto sotto forma di un’articolata strategia di politica economica: un “progetto nazionale” che rappresenta, come scrive l’autore, la continuazione della lotta per l’indipendenza e la liberazione dal dominio straniero. Tale prospettiva, contrapposta alla “strategia imperiale”, si collega storicamente alla resilienza del gruppo dei Paesi Non Allineati ai tempi della Guerra Fredda, rigetta le formule tecnocratiche one-fits-all, e contesta che il mercato possa essere l’arbitro di tutti i valori umani e un equo distributore della ricchezza. In positivo, la strategia sostiene il rafforzamento delle Nazioni Unite e la Dichiarazione del Millennio (“anche se gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG) affrontano solo i sintomi”) e richiede una politica alternativa per l’innovazione, la scienza e la tecnologia basata sulla condivisione dei saperi piuttosto che sulla tutela della proprietà intellettuale.
La strategia si basa in sintesi sui seguenti argomenti:

  1. uscire dalla dipendenza psicologica dell’aiuto;
  2. orientare programmi e budget verso i bisogni della popolazione più svantaggiata piuttosto che dei donatori;
  3. aumentare i redditi da lavoro e ridurre le diseguaglianze sociali;
  4. riappropriarsi delle risorse nazionali;
  5. dare priorità ai mercati domestici e alla cooperazione regionale;
  6. limitare gli aiuti esterni alle priorità nazionali democratiche.

Riguardo all’architettura dell’aiuto internazionale, il saggio dedica l’ultimo capitolo al ruolo delle principali istituzioni globali e, in particolare, al duopolio OECD-DAC e BM che controlla l’implementazione della Dichiarazione di Parigi sull’Efficacia dell’Aiuto (2005)[8] (in Risorse) e l’Agenda d’Azione di Accra (2008)[9] (in Risorse). Queste iniziative, finalizzate a migliorare l’efficacia dell’aiuto allo sviluppo, si basano su cinque principi chiave: ownership, allineamento alle politiche nazionali, armonizzazione tra donatori, gestione basata sui risultati, e mutua rendicontazione. Si svolgono però al di fuori del processo delle Nazioni Unite, non collocano l’aiuto nel più largo contesto dello sviluppo, ignorano le strette interconnessioni esistenti tra aiuto, sviluppo, commercio, debito e povertà, ed eludono la complessità delle relazioni Nord-Sud (che nel frattempo hanno condotto al fallimento dei negoziati OMC in corso a Doha) e le potenzialità della cooperazione Sud-Sud. Il passaggio dell’aiuto basato su progetti al supporto coordinato tra donatori al budget governativo porterebbe inoltre in seno il rischio di un potenziale futuro grande ricatto, e un’ownership decisa al Nord ha il sapore di una pantomima. Di più, Parigi e Accra rappresenterebbero l’ultima spiaggia per OECD e BM per mantenere rilevanza e legittimità, oramai erose dagli epocali cambiamenti geopolitici e dalla crisi economica in corso, ma soprattutto dal fallimento delle loro strategie di sviluppo per il Sud del mondo.

In conclusione, vi è bisogno di una profonda ristrutturazione dell’architettura delle istituzioni che si occupano di aiuto allo sviluppo.

La monografia, agile e appassionante, radicale e storicamente ragionata, offre una ricostruzione dalla parte del Sud che rintraccia nell’asimmetria di potere, politica ed economica un’attendibile chiave di lettura delle relazioni tra “the West and the Rest”.

Risorse

  1. Vicente Navarro. What we mean by social determinants of health. Global Health Promotion 2009; 16; 05. DOI: 10.1177/1757975908100746 [PDF: 336 Kb].
  2. OCSE. Better Aid. Aid Effectiveness: a progress report on implementing the Paris declaration [PDF: 2,4Mb].
  3. OCSE-DAC. The Accra High Level Forum (HLF3) and the Accra Agenda for Action [PDF: 508 Kb].

Bibliografia

  1. Tandon Y. Ending aid dependence. Cape Town, Dakar, Nairobi and Oxford: Fahamu – Network for Social Justice; Geneva: South Centre, 2008.

  2. Vicente Navarro. What we mean by social determinants of health. Global Health Promotion 2009; 16; 05. DOI: 10.1177/1757975908100746 [PDF: 336 Kb].

  3. Report of the US Congressional Meltzer Commission, February 2000; Wall Street Journal (Europe), 15 June 2000.

  4. Said E. Orientalism. New York: Pantheon Books, 1978; trad. it. Orientalismo. Torino: Bollati Boringhieri, 1991.

  5. Easterly W. The White Man’s Burden: Why the West’s efforts to aid the Rest have done so much ill and so little good. New York: Penguin, 2008.

  6. Sachs J. The end of poverty. Economic possibilities for our time. New York: Penguin, 2005.

  7. Sen A. Lo sviluppo è libertà. Milano: Mondatori, 2000.

  8. OCSE. Better Aid. Aid Effectiveness: a progress report on implementing the Paris declaration [PDF: 2,4Mb].

  9. OCSE-DAC. The Accra High Level Forum (HLF3) and the Accra Agenda for Action [PDF: 508 Kb].

3 commenti

  1. Grazie.
    Utilizzo la visione del testo per informazione essendomi stato segnalato dal gruppo dell’OISG.

  2. Vorrei usare le parole di uno scrittore africano, Uzodinma Iweala, per commentare questo articolo: “Non c’è un solo africano che come me non apprezzi gli aiuti provenienti dal resto del mondo. Ma ci chiediamo fino a che punto quest’aiuto sia genuino, o se non venga dato nello spirito dell’affermazione di una superiorità culturale.[…] l’Africa non vuol essere salvata. Ciò che l’Africa chiede al mondo è il riconoscimento della sua capacità di avviare una crescita senza precedenti, sulla base di un vero e leale partenariato con gli altri membri della comunità globale.”.

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