Cure per l’AIDS in Africa: un diritto ancora negato

di Enrico Tagliaferri

Cover_lowL’AIDS continua a rappresentare un flagello per molti paesi poveri, soprattutto in Africa subasahariana, dove l’accessibilità e gli standard delle cure sono molto diversi da quelli dei paesi sviluppati. La fragilità dei sistemi sanitari dei paesi poveri, la scarsa integrazione dei servizi e la mancanza di finanziamenti adeguati sono i principali ostacoli al controllo della malattia.

Alla fine del 2007, circa 33 milioni di persone nel mondo erano infette dall’HIV; in un anno si erano verificate 2,5 milioni di nuove infezioni e circa 2 milioni di malati erano morti di AIDS[1].

Nel 2003 le Nazioni Unite, con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), hanno proclamato il loro impegno ad assicurare il trattamento a tre milioni di persone entro il 2005 [2], poi nel 2006 hanno posto come obiettivo per il 2010 il raggiungimento dell’accesso universale a servizi di prevenzione, cura e supporto. Siamo ben lontani.

Circa tre milioni di pazienti erano in trattamento alla fine del 2007, quasi un milione in più rispetto all’anno precedente, ma appena il 31% di coloro che si stima ne avessero bisogno[3](Slide 1).

Slide 1. Popolazione HIV+ trattata con terapia antiretrovirale nei paesi a basso-medio livello di reddito. Anno 2007

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Fino a solo pochi anni fa, parte dei finanziatori dei programmi di cooperazione e del mondo scientifico sollevavano dubbi sull’opportunità di introdurre la terapia antiretrovirale (ART) nei paesi poveri, soprattutto in Africa. Le ragioni addotte comprendevano la fragilità dei sistemi sanitari africani, l’enormità del costo, la convenienza ad investire le magre risorse disponibili in interventi diversi e, anche, una presunta scarsa aderenza dei pazienti africani.

Numerosi studi hanno dimostrato che l’aderenza dei pazienti africani è pari a quella dei pazienti dei paesi ricchi, se il trattamento è accessibile e gratuito[4,5].

La ART è oggi considerata universalmente parte irrinunciabile dei servizi sanitari di base anche in Africa, coerentemente con lo spirito della Primary Health Care, l’approccio riproposto dall’OMS come il più adeguato per la salute globale[6].

Le maggiori case farmaceutiche hanno cercato inizialmente di contrastare lo sfruttamento del brevetto dei farmaci in deroga alle norme sui diritti di proprietà intellettuale, difesi dai trattati commerciali internazionali e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), per poi accettare, torto collo, anche grazie ad una mobilitazione di gran parte dell’opinione pubblica, la produzione dei generici.

Il trattamento di prima linea offerto nella maggior parte dei paesi poveri è la combinazione di nevirapina, lamivudina e stavudina, un regime ormai disponibile ad un costo relativamente contenuto, ma gravato da effetti collaterali importanti e relativamente frequenti, soprattutto nel caso della stavudina. Nei paesi ricchi invece vengono adottati, già nel primo trattamento, farmaci più recenti e meglio tollerati; alcuni di questi hanno anche il vantaggio di indurre più difficilmente resistenza nel virus anche nel caso in cui l’aderenza del paziente alla terapia non sia ottimale (forgiveness)[7].

La mortalità nei primi sei mesi dall’inizio del trattamento è maggiore nei paesi poveri e questo potrebbe essere la conseguenza di un inizio tardivo della terapia. In generale, nei paesi poveri, ci si basa sulla stadiazione clinica dell’OMS: si inizia il trattamento quando insorgono segni e sintomi di grave immunodepressione, quando la conta dei linfociti CD4 è di solito inferiore a 200/mmc, mentre nei paesi ricchi ci si basa sul monitoraggio dei CD4 e della viremia, iniziando il trattamento prima che insorgano pericolose patologie opportunistiche, generalmente quando i CD4 scendono sotto la soglia di 350/mmc. Un più precoce inizio della terapia permette un più rapido e più efficiente recupero del sistema immunitario e dati recenti[8] dimostrano che iniziare il trattamento al di sopra dei 500 CD4 porterebbe ad una ulteriore riduzione della mortalità. Sul piano dei costi un inizio tardivo della terapia può permettere un risparmio iniziale, ma aumenta il rischio di patologie opportunistiche, prima fra tutte la tubercolosi, con impegno del sistema sanitario in termini di strutture, risorse umane e materiali. In Brasile l’introduzione della ART ha portato ad una riduzione dei costi per ospedalizzazione e cura con un risparmio di circa un miliardo di dollari in soli 4 anni[9].

Il periodico controllo dei linfociti CD4 permette di identificare precocemente i casi di fallimento terapeutico, prima che si manifestino patologie pericolose. Nei paesi ricchi è ormai prassi consolidata saggiare la sensibilità del ceppo virale ai farmaci, prima di iniziare il trattamento, anche nel paziente naive, cioè che non ha mai assunto la ART, mentre il test non è generalmente disponibile in Africa. È vero che la resistenza dell’HIV nel paziente naive non è comune, specialmente in Africa dove l’introduzione della ART è recente, ma in alcuni casi può essere somministrata una terapia inefficace. Il test sarebbe assolutamente necessario per i casi di fallimento clinico o dove non vi sia un recupero dei linfociti CD4, anche perché quando si cambia regime si dovrebbero introdurre due, se non tre, farmaci a cui il virus è pienamente sensibile, per non andare rapidamente incontro ad un nuovo fallimento e “bruciare” i farmaci.

Al fine di evitare l’insorgenza della resistenza virale è necessario assumere regolarmente i farmaci che devono sempre essere disponibili a livello periferico. Il sistema di acquisizione, gestione e distribuzione dei farmaci in generale, soprattutto per malattie croniche come l’infezione da HIV, ma anche la tubercolosi o l’epilessia, ad esempio, è uno dei punti deboli di molti sistemi sanitari[10].
È possibile che il progressivo aumento del numero di pazienti in trattamento e l’allungamento della vita di questi pazienti determinino un carico di lavoro critico per i sistemi sanitari dei paesi poveri[11]; del resto la gestione clinica di questi pazienti è complessa e necessita di personale dedicato; consideriamo però, che nei paesi dove la ART è stata introdotta da tempo, sono stati potenziati i servizi ambulatoriali, ma nelle corsie i pazienti gravi o terminali sono sempre più rari. Aggiungiamo che il trattamento riduce la contagiosità e quindi l’incidenza di nuove infezioni.

Per essere accessibili a coloro che ne hanno più bisogno, i servizi sanitari devono essere gratuiti.

Lo dimostra anche un recente studio[12] condotto in Nigeria, dove i malati seguiti dal sistema sanitario nazionale dovevano coprire una parte del costo dei farmaci della ART. Il costo degli altri farmaci e degli accertamenti diagnostici era a totale carico dei pazienti. Gli autori dello studio hanno cercato di capire se le spese affrontate dai pazienti in trattamento rientrassero nella definizione di catastrophic health expenditures e chi traesse beneficio da tale sistema di sussidi. Una spesa sanitaria viene definita come catastrofica quando supera il 40% del totale del reddito familiare al netto delle spese per il cibo. Quando questo avviene, il costo dei servizi diventa un ostacolo all’accesso per molti pazienti che devono vendere i propri beni, i propri mezzi produttivi, indebitarsi o semplicemente rinunciare alle cure con le immaginabili conseguenze. In media la spesa per i farmaci ART rappresentava il 9,8% delle risorse della famiglia, per gli altri farmaci il 9,7% e per le analisi il 12,9%. La spesa relativa era maggiore per le donne, i pazienti che risiedevano in ambiente rurale e i più poveri.
Il messaggio è chiaro: i farmaci non sono tutto (bisogna aggiungere il costo delle visite mediche e di eventuali ricoveri, e le spese indirette, come i trasporti) e un’assistenza sanitaria completa e adeguata ha un costo insostenibile per i pazienti. In seguito il governo nigeriano ha deciso di coprire completamente il costo dei farmaci antiretrovirali, ma le analisi e gli altri farmaci sono ancora a carico dei pazienti.

Un altro studio[13] ha rilevato, poco sorprendentemente, che le difficoltà economiche dei pazienti erano correlate ad una minor aderenza al trattamento a pagamento.

Se in Italia il governo decidesse di chiedere ai pazienti con infezione da HIV di pagare per le analisi o per i farmaci ci sarebbe nel paese una reazione di generale indignazione. Giustamente.

La gestione dell’infezione da HIV in Africa deve basarsi su un approccio di sanità pubblica e concentrarsi sulle priorità, ma il divario tra la qualità dell’assistenza nei paesi ricchi e i paesi poveri è inaccettabile. Alcuni donatori e alcune ONG hanno scelto di offrire a pochi pazienti servizi gratuiti simili a quelli dei paesi ricchi, con apposite strutture, politiche e metodi propri, spesso svincolandosi dal contesto e dal sistema sanitario del paese.

Credo che si debba invece rafforzare il sistema sanitario già esistente, nel suo complesso, in termini di infrastrutture e personale locale, coinvolgendo le comunità. È auspicabile che i diversi finanziatori accettino di alimentare un fondo comune da gestire in accordo con le autorità locali. È incoraggiante che il Global Fund to fight AIDS, Tuberculosis and Malaria, un’iniziativa di partneratiato globale che raccoglie quote elevate di finanziamento da parte dei paesi più ricchi, abbia riconosciuto l’importanza del rafforzamento dei sistemi sanitari con approccio meno “verticale” e preveda la formulazione di strategie nazionali di controllo delle tre malattie[14].

L’infezione da HIV condiziona la vita dei pazienti nella sfera non solo fisica, ma anche psicologica, affettiva, procreativa, sociale e lavorativa. Il trattamento farmacologico deve quindi essere componente di un approccio che comprenda servizi preventivi, curativi e di supporto.

I servizi relativi all’infezione da HIV devono essere integrati nell’assistenza sanitaria di base. Ricordiamo, ad esempio, che molti pazienti in trattamento per tubercolosi non vengono testati per HIV e che molte donne in gravidanza, che accedono ai servizi prenatali, non vengono testate e quindi non possono eventualmente usufruire della prevenzione della trasmissione verticale.

Ancora oggi servizi adeguati, completi e gratuiti, inclusa la ART, sono ancora inaccessibili per molti affetti da HIV in Africa. I principali ostacoli, secondo l’OMS, alla diffusione del trattamento nei paesi poveri sono la fragilità dei sistemi sanitari di tali paesi, la scarsità di personale sanitario e la mancanza di finanziamenti adeguati e continui nel tempo. Cosa fare e come farlo è piuttosto chiaro, indicato dalle autorità scientifiche di riferimento, OMS in testa. Quello che manca è la volontà politica di farlo davvero e alla svelta.

I paesi ricchi si sono ripetutamente impegnati a versare lo 0,7% del PIL annualmente per programmi di cooperazione per lo sviluppo, ma pochi lo hanno fatto[15]. L’Italia continua a disattendere tale impegno nell’indifferenza più o meno generale.

Risorse

WHO. Towards universal access. Progress report. Geneva: WHO, 2008 [PDF: 6,68 Mb]

Bibliografia

  1. UNAIDS. Report on the global AIDS epidemic. 2008
  2. WHO. Treating 3 million by 2005. Making it happen. The WHO strategy. 2003
  3. WHO. Towards universal access. Progress report. Geneva: WHO, 2008. [PDF: 6,68 Mb]
  4. Laniece I. et al. Adherence to HAART and its principal determinants in a cohort of Senegalese adults. AIDS 2003 Jul;17 Suppl 3:S103-8.
  5. Habib O. et al. Predictors of Incomplete Adherence, Virologic Failure, and Antiviral Drug Resistance among HIV-Infected Adults Receiving Antiretroviral Therapy in Tanzania. CID 2007:45 (1 December)
  6. WHO. World Health Report. Geneva: WHO, 2008.
  7. US Department of Health and Human Services. Guidelines for the Use of Antiretroviral Agents in HIV-1-Infected Adults and Adolescents. 2008
  8. Kitahata MM, et al. Effect of Early versus Deferred Antiretroviral Therapy for HIV on Survival. N Engl J Med 360;18: 1815-26
  9. Ford N, et al. Rationing Antiretroviral Therapy in Africa — Treating Too Few, Too Late. N Engl J Med 360;18: 1808-10
  10. Harries AD, et al. Scaling up antiretroviral treatment in resource-poor settings. Lancet 2006; 367: 1870–2
  11. Van Damme W, et al. The real challenges for scaling up ART in sub-Saharan Africa. AIDS 2006; 20:653–6
  12. Onwujekwe O, et al. Examining catastrophic costs and benefit incidence of subsidized antiretroviral treatment (ART) programme in south-east Nigeria. Health Policy 2009; 90: 223–9
  13. Boyer S et al. Financial barriers to HIV treatment in Yaoundé, Cameroon: first results of a national cross-sectional survey Bull World Health Organ 2009; 87: 279–87
  14. Global Fund to fight AIDS. Tuberculosis and Malaria. Scaling up for Impact. Progress Report 2008.
  15. Libro bianco 2008. Sulle politiche pubbliche di cooperazione allo sviluppo in Italia.

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