L’enciclica sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità
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- 14 Settembre 2009
di Giovanni Baglio ed Enrico Materia
La nuova enciclica papale prende in esame temi di notevole rilevanza per gli operatori dello sviluppo, sia per gli aspetti economici e politici (compresa la proposta di un nuovo assetto del sistema delle Nazioni Unite basato sui principi di sussidiarietà e solidarietà), sia per la riflessione etica ed epistemologica (il primato del bene sul giusto e sul vero, dei Francescani sui Domenicani).
Quid est veritas? Le parole di Pilato pesano come una maledizione sulla cultura occidentale, che del problema della verità ha fatto la sua più grande questione irrisolta.
Ai nostri giorni, segnati dall’incertezza, dal pluralismo culturale e dal ripensamento sul mondo, una domanda cruciale si affaccia: qual è la vita necessaria, quando la verità sembra non esserlo più?[1] Come se l’interesse per le verità astratte stia lasciando il campo alla ricerca di valori etici sotto forma di pratiche sociali di vita: i giovani oggi sono più interessati all’Africa che non alla Luna.
La recente pubblicazione dell’enciclica di Papa Benedetto XVI Caritas in Veritate ripropone la questione nei termini dell’indissolubilità della dimensione teorica della verità dall’esercizio della carità.
La carità, “amore ricevuto e donato”, supera la giustizia completandola nella logica del dono e del perdono e si adopera per il bene comune, legato al vivere sociale delle persone. Questi valori riguardano la comunità dei popoli e delle nazioni e conducono allo sviluppo umano integrale, in linea con l’intuizione montiniana contenuta nella Populorum progressio[2].
L’enciclica, sin dal titolo, propugna una visione multidimensionale dello sviluppo che non corrisponde alla sola crescita economica e non è indifferente all’equità nella distribuzione delle ricchezze. L’obiettivo, già espresso nella citata lettera di Paolo VI, è quello di far uscire i popoli dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall’analfabetismo: uno sviluppo tale da produrre una crescita “sostenibile” ed “estensibile a tutti”, realizzata nell’indipendenza e nella libertà. Questa prospettiva, in assenza di ricette universalmente valide, chiama i popoli a essere “artefici del proprio destino” (espressione corrispondente a democratic ownership) e a liberarsi da dipendenze esterne, inclusa quella degli stessi aiuti internazionali allo sviluppo [vedi post Materia: La dipendenza dall’aiuto allo sviluppo: un’exit strategy che viene dal Sud].
Forte è l’appello contro le sistemiche e crescenti diseguaglianze sia tra gruppi sociali di uno stesso Paese che tra Paesi ricchi e poveri, e per la redistribuzione del reddito. La richiesta di una globalizzazione dal volto umano prende in esame alcuni problemi posti dal commercio internazionale a svantaggio dei Paesi poveri, anche se non si fa cenno al fenomeno del dumping dei prodotti agricoli su questi mercati e al ruolo dell’industria bellica. Esplicito è invece il richiamo a “forme eccessive di protezione della conoscenza […] mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente in campo sanitario”.
La proposta è per una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini, come anche per una valutazione del processo storico della decolonizzazione. Il principio della gratuità e del dono, espressioni di carità e fraternità, deve trovare posto all’interno dei normali processi economici, non prevaricati dalla logica mercantile bensì finalizzati al perseguimento del bene comune.
L’urgenza di una riforma sia dell’architettura economico-finanziaria internazionale che della stessa ONU è ritenuta ineludibile per promuovere un nuovo ordinamento politico, giuridico ed economico orientato allo sviluppo solidale e per realizzare lo sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità: una governance globale poliarchica, basata cioè su una pluralità di centri di potere, e di tipo sussidiario, per consentire a ciascun gruppo sociale di esprimere il proprio potenziale utilizzando risorse proprie; un sistema di regole in grado di farsi carico e di gestire il governo dell’economia mondiale, realizzare il disarmo integrale, assicurare la sicurezza alimentare e la pace, proteggere l’ambiente e regolamentare i flussi migratori.
L’Enciclica propone dunque una rifondazione dell’economia in senso solidale, con il ritorno all’“economia civile” e al principio di reciprocità che ne è alla base – chiosa il prof. Stefano Zamagni che ha fatto parte del gruppo di lavoro redazionale. Con l’aggiunta di tre proposte concrete: affiancare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU un organismo che si occupi di acqua, cibo e sanità (che avrebbe potuto evitare la crisi alimentare del 2008 da speculazione sulle granaglie) e due agenzie transnazionali dedicate alle migrazioni e all’ambiente (“Finora abbiamo solo l’Organizzazione Mondiale del Commercio – dice Zamagni – il che vuol dire che le merci contano più dell’uomo”[3]); e affiancare all’ONU un consesso formato da società civile, ONG, fondazioni e Chiese, per governare i processi.
Al di là della sua portata sociale, l’enciclica riafferma il primato etico e salvifico della carità sulla verità, sin dalla sequenza dei termini nel titolo, nel solco dell’insegnamento di San Paolo (Prima Lettera ai Corinti 13, 1-3): “Quand’anche io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho la carità, io sono un bronzo che suona o un cembalo che squilla. Di più, avessi pure il dono della profezia, e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e avessi una fede tale da trasportar le montagne, se non ho la carità, io sono un niente. Anzi se distribuissi tutti i miei beni ai poveri, e dessi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità, tutto questo non mi giova a nulla”. In altri termini, l’amore caritativo verso il prossimo diventa il vero banco di prova di una piena adesione al dettato evangelico.
Sui nessi esistenti tra verità e carità è tornato recentemente Gianni Vattimo[4]. Prendendo atto della frammentazione delle verità, su un terreno di apertura laica, il filosofo cita un altro brano di San Paolo (“veritatem facientes in caritate”, in Efesini 4, 16) e propone la carità come presupposto per costruire un orizzonte di condivisione comunitaria improntata a un’etica della finitezza, che muove dal rispetto per l’altro e dal riconoscimento consapevole dei limiti comuni.
Insomma, viene prima l’amore della verità o la verità dell’amore? Racconta Zamagni un significativo retroscena nella scelta del titolo dell’Enciclica: Caritas in veritate o piuttosto Veritas in caritate? È stato lo stesso Pontefice a preferire la prima formulazione, scartando l’impostazione platonica per sottolineare il primato del bene sul vero.
In ogni caso, che la si consideri imperativo etico rispetto alla verità rivelata, come sottolinea l’enciclica, o presupposto necessario per la costruzione di valori condivisi, la carità assurge a dimensione esistenziale ed etico-sociale, terreno comune per la convivenza civile e per nuove prospettive in ambito politico ed economico.
Risorsa
Lettera Enciclica Caritas in Veritate del Sommo Pontefice Benedetto XVI ai Vescovi, ai Presbiteri e ai Diaconi, alle persone consacrate, ai fedeli laici, e a tutti gli uomini di buona volontà, sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità.
- Foucault M. Il coraggio della verità. Lettera internazionale 2009; 100: 2-5.
- Tornielli A. Paolo VI. L’audacia di un Papa. Milano: Mondadori, 2009.
- Intervista a Stefano Zamagni. “Altro che Marx, la sua è vera rivoluzione”. Famiglia Cristiana online n. 28, 12 -7-2009.
- Vattimo G. Addio alla verità. Roma: Meltemi, 2009.