Sulla particolarità dello stigma legato alla malattia mentale

di Maurizio Ferrara

STIGMALo stigma è un termine complesso che include problemi di conoscenza (ignoranza o mis-informazione), di attitudine (pregiudizio) e di comportamento (discriminazione). Nel caso della malattia mentale lo stigma ha caratteristiche peculiari, analizzate in una recente ricerca pubblicata su Lancet.


Graham Thornicroft con altri colleghi dell’ INDIGO Study Group (International Study of Discrimination and Stigma Outcomes) riporta su Lancet i risultati di una indagine su stigma e schizofrenia che offre molte spunti utili per riflettere[1].

732 persone affette da schizofrenia, reclutate in 27 nazioni e affiliate all’INDIGO Research Nework, sono state intervistate direttamente ed è stata loro somministrata una scala validata che misura stigma e discriminazione. I risultati di questa indagine, che pure sembrano una conferma quantitativa dello stigma correlato alla malattia mentale, meritano una riflessione.
L’intervista offre una misura di esperienze subite di discriminazione in ragione della malattia psichica, ma anche di comportamenti di “autodiscriminazione” o “discriminazione anticipata”, ovvero la fuga da una situazione sociale per l’angoscia di un possibile rifiuto o di una qualche esperienza negativa.
Esperienze concrete di discriminazione negativa così come sono riferite dagli intervistati:

  1. in ambito lavorativo riferisce di essere stato svantaggiato in quanto malato di schizofrenia il 30% circa (nel trovare lavoro 209/724, nel mantenerlo 215/730);
  2. nei vari ambiti relazionali l’esperienza discriminatoria riportata dagli intervistati raggiunge i valori più alti: il 43% (315/728) riferisce di essere trattato differentemente in famiglia , il 47% (344/729) nelle relazioni amicali, il 27% (196/724) nelle relazioni intime , il 29% (211/727) nelle relazioni con i vicini di casa;
  3. da rilevare valori più bassi in altri ambiti: mettere su famiglia (20%), negli studi (19%), nei rapporti con le forze di polizia (17%), nel trovare casa (14%), nell’uso dei mezzi pubblici (10%), nello stipulare un qualsiasi tipo di assicurazione (5%) , nell’aprire un conto in banca (4%), nel votare alle elezioni (3%).

Dunque la discriminazione verso le persone affette da malattia mentale persiste ed è fenomeno radicato ed ubiquitario nonostante le politiche di contrasto allo stigma e di integrazione sociale degli svantaggiati promosse a tutti i livelli nazionali ed internazionali.
Ma:

  1. è un livello alto di discriminazione?
  2. è un tipo specifico di discriminazione?

Un confronto con la discriminazione di genere. Da un’indagine commissionata dall’assessorato pari opportunità della Regione Emilia Romagna, dove oltre il 60% della mano d’opera femminile è impiegata, il 51% degli intervistati ritiene che nel mondo del lavoro le donne siano soggette a discriminazione di genere: avere famiglia, essere straniere, non avere bella presenza sono fra i principali fattori implicati[2].

Un confronto con la discriminazione di un altro da noi per eccellenza: l’immigrato. Il rapporto EU-MIDIS, European union minorities and discrimination survey (Aprile2009) riporta i dati di un’indagine condotta con interviste dirette ad un campione di 25.000 immigrati e di 5000 europei reclutati in 27 stati membri della Unione Europea.
Se consideriamo discriminazioni subite nei 12 mesi precedenti l’intervista in aree significative (cercare e mantenere il lavoro, cercare casa , ottenere un mutuo, rapporti con personale sanitario, …), negli immigrati le percentuali riferite vanno dal 44 al 64%. Non solo: le discriminazioni subite riguardano un atto penalmente perseguibile (aggressioni, ad esempio) in percentuali che vanno dal 17 al 35 %[3].

Il confronto ci dice che la chiusura delle grandi istituzioni manicomiali, lo sviluppo progressivo di un servizio di salute mentale che cura il paziente psichiatrico nella comunità ha depotenziato lo stigma nei confronti del malato di mente.

Il peso delle discriminazioni dovute alla malattia mentale, sperimentate nelle aree sociali “pubbliche” (ricerca e mantenimento del lavoro, ad esempio) risulta assai inferiore rispetto alle discriminazioni determinate dal genere o dalla condizione di immigrato. Rimane alto, invece, nelle aree “relazionali” (partnership sessuale, relazioni amicali, relazioni familiari..), ambiti peraltro che si collocano in uno spazio intermedio fra caratteristiche proprie della patologia e conseguenze o reazioni che da essa derivano.

L’emersione dalla istituzione manicomiale, la visibilità del paziente con un disturbo psichico hanno avviato un promettente processo di riacquisizione di “cittadinanza economica”, e va sottolineato che gli interventi orientati alla riabilitazione ed alla integrazione in ambito lavorativo sono un cardine della psichiatria di comunità (dove funziona) ed esprimono una pluralità di metodi di intervento (inserimento lavorativo, lavoro in cooperative, percorsi di formazione e tutoraggio, collocamento mirato ecc. ) davvero ampio.
Manca ancora la “cittadinanza affettiva”, l’integrazione del paziente psichiatrico come “soggetto relazionale” ed è a partire da questo fatto che dobbiamo riflettere sulle specificità dello stigma nei confronti del malato di mente.

Le specificità dello stigma verso la malattia mentale.

Come ogni tipo di stigma deriva da atteggiamenti culturali dominanti che legano le persone etichettate a caratteristiche indesiderabili; lo spazio della cultura viene diviso in due parti da una classificazione che si basa sulla appartenenza (NOI/LORO) e che da un lato definisce la gerarchia (le persone etichettate sperimentano perdita di status e discriminazioni) e dall’altro rende la relazione impersonale perché la discriminazione basata sulla dicotomia inclusione/esclusione annulla il valore delle differenze umane dei singoli e stimola comportamenti che aumentano la distanza sociale[4].
Lo stigma verso la malattia mentale si fonda sugli stereotipi della pericolosità, dell’imprevedibilità, della desocializzazione attribuita in parte alla inabilità a conformarsi alle regole ed agli stimoli sociali ma anche ad una abulia, una “mancanza di volontà” di cui i pazienti sono almeno in parte considerati responsabili[5].
Ma la categoria dello stigma non è sufficiente a spiegare la distanza sociale che si verifica soprattutto nelle relazioni più intime e personali (famiglia, amici, vicini) che è determinata anche da ciò che succede di inconsapevole nella relazione interpersonale, effetto veicolato da comunicazioni sintomatiche, non immediatamente decifrabili; è l’esperienza di ciò che Scheff[6] chiama devianza residua di regole non scritte di relazione sociale (accorgersi improvvisamente che l’interlocutore non è “presente” è lontano, è allucinato; rendersi conto di essere immerso in una atmosfera distorta dall’attenzione sospettosa dell’interlocutore, ecc).
Dunque non tutto è discriminazione, né tutto è riducibile a categorie sociologiche descrittive delle interazioni sociali manifeste: va considerata la complessità dei vissuti, la non conoscibilità di gran parte delle dinamiche psichiche. Anche a partire da questo “mondo interno” va interpretata la difficoltà a sostenere il peso dell’angoscia e della sofferenza mentale che si avvertono nel rapporto con i pazienti che hanno un disturbo mentale grave.

Lo stigma interno
L’indagine INDIGO mette a fuoco un altro aspetto fondamentale del processo di stigmatizzazione cioè la criticità degli aspetti soggettivi legati alla bassa autostima (dei pazienti) , una sorta di stigma interno descritto nei termini di “auto-discriminazione” (o “discriminazione anticipata”). E’ il risultato di una circolarità perversa che opera sul piano delle aspettative reciproche (negative e/deluse) nelle relazioni interpersonali piuttosto che sul piano del pregiudizio. M. Spivak , uno dei teorici di riferimento nel campo della riabilitazione psichiatrica, descrive come spirale negativa questo percorso che conduce ad una progressiva desocializzazione e che caratterizza tutti i processi di stigmatizzazione[7]. Ad esempio dal rapporto EU-MIDIS risulta che molti dei migranti intervistati che hanno subito discriminazioni non denunciano i fatti né si rivolgono ad associazioni che possano difenderli; semplicemente rinunciano, nella convinzione , nel 63% dei casi, che niente di positivo per loro ne può derivare. Le analogie con il meccanismo della auto-discriminazione anticipatoria sono forti.

La lotta contro lo stigma
La lotta contro il pregiudizio deve affrontare due aspetti centrali:

  1. le barriere che costruiscono l’identità sulla base dell’appartenenza (NOI e LORO) e che condizionano un modo stereotipato di mettersi in relazione con l’altro, basato su assunti cognitivo-affettivi dicotomici amico/nemico (da ricordare che è questo l’assetto mentale alla base della paranoia clinica);
  2. le disuguaglianze di potere, concretamente operanti nei contesti relazionali e sociali, sperimentate dalle persone con un disturbo mentale.

Barriere. Modificare gli stereotipi culturali attraverso campagne informative (mirate in particolare ai giovani in età scolare, soggetti verosimilmente più recettivi), favorire l’integrazione sociale (hanno particolare importanza le politiche per l’inserimento nel mondo del lavoro dei disabili) e soprattutto favorire le occasioni di “contatto” costituiscono i cardini degli interventi che puntano a ridurre l’effetto barriera. Dunque, il fuoco di questi interventi è l’interazione fra escludente ed escluso; quindi, non solo con l’obbiettivo di ridurre le discriminazioni, ma anche con l’ambizione di operare una trasformazione nella mente di chi esclude restituendogli l’occasione di verificare la propria capacità di apprendere dall’esperienza, nel momento della relazione personale e dello scambio con l’altro disabile. Si tratta di puntare sulla capacità che ognuno ha di sviluppare una conoscenza personale della realtà ed acquisire la capacità critica necessaria per esercitare in maniera partecipe la propria cittadinanza.

Disuguaglianze di potere. Si tratta di disuguaglianze che certo richiedono una difesa dei diritti di coloro che hanno un disturbo mentale, ma anche di favorire modalità di empowerment fra gli stessi pazienti, sviluppando le capacità di riequilibrare il rapporto fra bisogni e diritti, cioè fra la dipendenza dovuta allo stato di malattia e l’esercizio del diritto di cittadinanza.
La discriminazione ha a che fare con il potere, con la norma sociale della cultura dominante, ma anche con il rapporto di dominanza che si instaura nella relazione interpersonale.
E i dati della ricerca INDIGO sui processi anticipatori di auto-discriminazione definiscono lo stigma interno come il secondo corno del problema: lo stigma interno, introiezione di quanto di negativo è rappresentato nello stereotipo sociale di malato di mente, induce nel paziente un’azione sociale aderente allo stereotipo stesso.
L’autostigma non è un percorso obbligatorio: il ‘farsi’ soggetto richiede la produzione di narrazioni in cui il soggetto riacquista di continuo il senso dell’azione”[8].

Negli ultimi venti anni si è sviluppato un movimento e una cultura degli utenti ed ex utenti psichiatrici che ha prodotto una metodologia della conoscenza dei fatti psichici (patologici e non) centrata sulla narrazione e sulla valorizzazione della esperienza soggettiva. Questa ha imposto anche alla medicina ufficiale una prospettiva di analisi qualitativa con cui ormai si devono confrontare i dati della ricerca oggettiva evidence based.
Il concetto di recovery occupa una posizione centrale in questa prospettiva. Significa percezione soggettiva di essere in ripresa, basata sulla acquisizione di consapevolezze articolate sulle disabilità causate dalla malattia, sulla utilità delle cure, sulla importanza di mantenere una relazione di affidamento con il curante, ma anche sulla valutazione che accanto alle cose che non si riesce a fare ci sono quelle in cui si funziona, sulla consapevolezza di avere desideri, di avere soddisfazioni, di avere opinioni da confrontare con quelle di altri, di avere una vita quotidiana e di avere pensieri sul futuro. E’ una prospettiva che mette in gioco la parzialità dei concetti medici di diagnosi e di guarigione come assenza di sintomi, ma che, a ben guardare, consente ai medici stessi di calare nella realtà il concetto astratto di patologia psichica (psicotica in particolare) multifattoriale, complessa, scompenso di una vulnerabilità in cui fattori biologici, psicologici, relazionali e sociali sono intrecciati e inscindibili. La cultura prodotta di chi ha avuto esperienza diretta di malattia ha allargato il campo di osservazione della clinica e della ricerca in psichiatria. Questo movimento culturale, inoltre, è legato anche ad un processo di empowerment sociale, perché i nuovi concetti acquistano autorevolezza, diffusione e catalizzano altre conoscenze e perché si intrecciano contemporaneamente fenomeni relativamente spontanei di auto-organizzazione con impulso all’associazionismo sul modello dell’auto-mutuo aiuto che nel corso degli anni è in accelerazione e si va consolidando.

Medico e paziente e stigma
Molte voci di medici si sono fatte sentire contro la legge recente che in Italia ha istituito il reato di immigrazione clandestina che risulta a tutti gli effetti discriminatoria. L’etica, la deontologia del medico, il valore universalistico dell’atto del curare sono un codice non facilmente valicabile. Le posizioni contro la legge anche se per il momento non hanno aggregato un vero e proprio movimento sono condivise da una maggioranza di sanitari.

Ma basta essere coerenti con un ideale etico contrario ad ogni forma di stigmatizzazioni per non essere discriminatori nella prassi quotidiana dell’esercizio della professione medica?
Il clinico come tutti è esposto ai danni del pregiudizio, pensiero rigido che rende ciechi, incapaci di vedere l’altro, nella sua individualità, con le sue caratteristiche complesse; in più la relazione medico-paziente è di per sé una relazione sbilanciata e nell’asimmetria si esercita una potestà che deriva sia dal sapere medico sia dall’assunzione della responsabilità del prendersi cura di chi ne ha bisogno. Con una approssimazione di stampo psicodinamico possiamo immaginare che ciascun medico (ciascun operatore sanitario) nel suo operare si collochi in un proprio equilibrio nella bilancia fra autorità paterna e accoglienza materna. Nell’ambito della malattia mentale vi sono varie modalità per compiere sottili pratiche discriminatorie: paternalismo o pedagogia, l’abbandono o il non esercitare la responsabilità di prendersi in carico chi non sa prendersi cura di sé e infine una forma più complessa di non risolutezza nel proprio agire medico che deriva da quanto di non consapevole (apatia, distruttività, resistenza forte al cambiamento) passa nella relazione con il paziente con un disturbo mentale.
Forse sono sufficienti due frammenti di protagonisti per entrare in questi meccanismi sottili della relazione medico paziente:

Un medico: “Vedevamo questa donna regolarmente, sapevamo che era depressa e si presentava con una sintomatologia intestinale. Quando abbiamo riguardato le note cliniche dopo che era morta per un cancro intestinale, abbiamo visto che avevamo predisposto una tomografia ed altre indagini, ma nessuno di noi l’ha spinta come avremmo potuto fare se non avessimo avuto a che fare con quella depressione”
“… possiamo avere la tendenza a diventare ciechi e così essere incapaci di realizzare che le persone depresse possono avere anche un tumore …”

Un paziente: “I professionisti della salute, proprio perchè professionisti, sentono che loro dovrebbero sapere. Ma è una gran cosa se essi hanno la voglia di dirti ‘Non ho le risposte, non lo so e vorrei conoscere con te, capire da te’. Ma questo non è sempre il caso”[9].

Nota
Maurizio Ferrara è professore associato di psichiatria. Università di Firenze.

Bibliografia

  1. Thornicroft G, Brohan E, Rose D, Sartorius N, Leese M, for the INDIGO Study Group. Global pattern of experienced and anticipated discrimination against people with schizophrenia:a cross sectional survey. Lancet 2009;373(9661):408-15. Epub 2009 Jan 21 ; DOI: 101016/S0140-6736 (08)61817-6.
  2. 8 marzo, le discriminazioni nel lavoro e nella famiglia. ERMES Regioni E.R. 6 marzo 2009.
  3. The European Union Agency for Fundamental Rights (FRA)
  4. Link BG, Phelan JC. Conceptualizing stigma. Ann Rev Sociol 2001;27:363-85.
  5. Martin JK, Pescosolido BA, Tuch SA. Of fear and loathing : The role of “disturbing behaviour” , labels, and causal attributions in shaping public attitudes toward people with mental illness. J Health Soc Behav 2000;41:208-223.
  6. Scheff TJ. Per infermità mentale. Una teoria sociale della follia.Milano: G.Feltrinelli, 1974.
  7. Spivak M. Introduzione alla riabilitazione sociale. Riv Sper Fren 1897; CXI(3): 522-574.
  8. Serrano M. Autostigma, empowerment e pratiche di promozione. Fogli d’informazione 2007; 3-4 (07-12): 43-63.
  9. Lester H, Tritter JQ, Sorohan H. Patients’ and health professionals’ views on primary care for people with serious mental illness: focus group study. BMJ 2005;330(7500):1122. Epub 2005 Apr 20. doi: 10.1136/bmj.38440.418426.8f

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