La spesa sanitaria pubblica nella prospettiva del federalismo fiscale

Eugenio Anessi Pessina e Silvia Longhi

italia_puzzleCon l’approvazione della legge delega sul federalismo fiscale (L. 42/09) si è intensificato il dibattito circa l’impatto che la riforma federale potrà avere sull’organizzazione e il finanziamento dell’offerta di servizi sanitari nelle diverse regioni.

Al riguardo, è bene innanzi tutto ricordare che la Costituzione (art. 117) inserisce la “tutela della salute” tra le materie di legislazione concorrente, per le quali la potestà legislativa spetta alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Lo Stato mantiene comunque la legislazione esclusiva sulla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, quindi su quelli che in sanità sono noti come “Livelli Essenziali di Assistenza” (LEA). Il problema è dunque quello di conciliare l’autonomia e responsabilità regionale con la necessità di assicurare a tutte le regioni le risorse finanziarie necessarie a coprire i rispettivi fabbisogni essenziali di spesa. Già la Costituzione (art. 119), del resto, prevede l’istituzione di “un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”.
La perequazione interregionale nei livelli di spesa, peraltro, è un obiettivo già in larga parte raggiunto nei trent’anni di vita del Sistema Sanitario Nazionale. Indubbiamente, differenziali nella spesa pro-capite continuano a persistere (Tabella 1). Tali differenziali, però, sono di difficile valutazione perché, almeno in parte, derivano non da sprechi e inefficienze (per esempio, consumo inappropriato di prestazioni, elevati costi unitari), né dall’erogazione di livelli di assistenza superiori a quelli essenziali (che sarebbe inopportuno porre a carico dell’intera collettività nazionale), bensì da differenziali nei livelli di bisogno, legittimi ma impossibili da quantificare oggettivamente (la Tabella 1, a titolo esemplificativo, propone anche un dato di spesa pro capite ponderato in base ai pesi impliciti nella delibera CIPE di riparto alle regioni dei finanziamenti 2007).

Tabella 1. Spesa sanitaria pubblica complessiva (milioni di €), pro capite (€) e pro capite pesata (€), per regione – Anno 2007

Regioni

Complessiva

(milioni di €)

Pro capite

Pro capite pesata

Piemonte

7.755

1.784

1.726

Valle d’Aosta-Vallée d’Aoste

247

1.989

1.960

Lombardia

16.120

1.695

1.718

Bolzano-Bozen

1.068

2.202

2.226

Trento

941

1.864

1.895

Veneto

8.158

1.715

1.746

Friuli-Venezia Giulia

2.167

1.791

1.719

Liguria

3.067

1.906

1.697

Emilia-Romagna

7.616

1.811

1.760

Toscana

6.315

1.740

1.674

Umbria

1.493

1.715

1.653

Marche

2.535

1.654

1.614

Lazio

10.425

1.931

1.998

Abruzzo

2.271

1.737

1.736

Molise

615

1.918

1.865

Campania

9.577

1.654

1.709

Puglia

6.620

1.626

1.647

Basilicata

963

1.625

1.575

Calabria

3.164

1.581

1.564

Sicilia

8.224

1.639

1.683

Sardegna

2.660

1.605

1.611

Italia

102.002

1.731

1.731

Fonte dei dati: Rapporto Osservasalute 2008

Nel tempo, inoltre, tali differenziali si sono significativamente ridotti come evidenzia, specularmente, l’incidenza profondamente eterogenea della spesa sanitaria pubblica sui PIL regionali (Figura 1).

Figura 1. Spesa sanitaria pubblica corrente in rapporto al PIL (per 100) per regione – Anno 2005

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Fonte dei dati: Rapporto Osservasalute 2008

Almeno rispetto alla sanità, pertanto, la L. 42/09 si pone in una prospettiva di continuità più che di rottura. Per la sanità, infatti, la legge riconosce il diritto di ciascuna regione al finanziamento integrale dei LEA sul proprio territorio, a prescindere dalla propria capacità fiscale, purché senza inefficienze sul fronte del prelievo tributario e dell’erogazione dei servizi (“costi e fabbisogni standard”). Anche la “previsione di meccanismi sanzionatori per gli enti che non rispettano gli equilibri economico-finanziari o non assicurano i livelli essenziali delle prestazioni” è già in parte contenuta nella normativa vigente. Effettivamente, però, la legge ha il merito sia di rafforzare il binomio perequazione ex ante/responsabilità ex post – ex ante si riconosce alle regioni il finanziamento integrale dei LEA, seppur con le incertezze metodologiche discusse più avanti; ex post si prevedono sanzioni per le regioni che non riescono a contenere la spesa entro tale finanziamento – sia di porre finalmente al centro del dibattito il problema dell’eterogeneità dei costi (e dei risultati) dell’attività amministrativa pubblica sul territorio nazionale.

In questi mesi, il dibattito si sta articolando su più livelli. Sotto il profilo più strettamente concettuale, per esempio, ci si chiede cosa debba intendersi per costo standard, definito dal legislatore come quel “costo […] obiettivo che, valorizzando l’efficienza e l’efficacia, costituisce l’indicatore rispetto a cui comparare e valutare l’azione pubblica”. Come standard di riferimento, infatti, si potrebbe assumere il costo minimo effettivamente rilevato, oppure un costo medio o mediano, oppure il costo medio o mediano rilevato in un sottoinsieme di casi preventivamente selezionati in quanto caratterizzati da performance “migliori” (nel dibattito si citano spesso Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana), oppure ancora un costo riferito a teoriche condizioni di efficienza.
Inoltre, ci si chiede dove sia opportuno collocarsi tra le due ipotesi metodologiche estreme: da un lato, per ogni livello e tipologia di bisogni effettivi, determinare quantità e mix di prestazioni standard, da ottenersi attraverso quantità e mix standard di fattori produttivi, valorizzati a prezzi standard, dove “standard” non vuole peraltro necessariamente dire “uniforme in tutto il Paese” (si potrebbe per esempio voler tener conto della presenza di ineliminabili economie/diseconomie di scala nella produzione dei servizi, oppure dei differenziali nel livello dei prezzi tra diverse aree geografiche); dall’altro, definire le risorse finanziarie da destinare al SSN sulla base di una scelta politica macro-economica e successivamente ripartirle tra le regioni sulla base di una quota capitaria ponderata, magari in base a pesi meno politico-negoziali e più evidence based di quelli attuali.
Sotto il profilo politico, la legge costituisce invece l’occasione per rivedere gli attuali criteri di riparto tra le regioni, magari sanando presunte ingiustizie e distorsioni, o piuttosto per acquisire situazioni di vantaggio destinate a perdurare almeno fino alla prossima riforma: occasione ancora più rilevante nella prospettiva che venga meno, o comunque sia resa molto più costosa per gli amministratori e per le collettività regionali, la possibilità di ripiano da parte dello Stato. Di qui le numerose ipotesi e proposte di ripartizione dei fondi che vengono formulate da più parti (organi istituzionali, mondo accademico, partiti politici) e che trovano ampia diffusione nella stampa.

Accanto al tema dei criteri di finanziamento e di perequazione ex ante, tuttavia, il federalismo fiscale ne solleva un altro, che per ora sta ricevendo minore attenzione, ma che in prospettiva risulterà determinante: la capacità delle regioni di governare i propri SSR, riuscendo effettivamente a garantire ai propri cittadini i livelli essenziali di assistenza, senza generare disavanzi e quindi senza incorrere nei meccanismi sanzionatori che la legge prefigura. Malgrado i persistenti e innegabili vincoli normativi, infatti, molte variabili chiave restano sotto il controllo delle singole regioni ed aziende sanitarie; il loro efficace utilizzo dipende dunque, seppur non esclusivamente, dalle capacità gestionali e professionali interne a regioni ed aziende; tra regioni diverse e anche tra aziende della stessa regione permangono quindi forti differenziazioni di efficacia e di efficienza. In particolare, il divario tra le regioni più “forti” e quelle più “deboli”, in termini di competenze, professionalità, strumenti manageriali adottati ed effettivamente utilizzati, è indubbiamente elevato e si sta probabilmente ampliando.

Il solo riequilibrio finanziario, in altri termini, non basta. Servono, soprattutto a livello regionale, condizioni di volontà politica e di capacità tecnica. La legge delega fa leva soprattutto sulla volontà politica, prefigurando sistemi di premi e penalizzazioni, sebbene la possibilità di comminare sanzioni trovi un limite invalicabile nella garanzia dei livelli essenziali di assistenza. C’è poi la questione delle capacità tecniche. Al riguardo, un elemento qualificante del federalismo è la possibilità di sperimentare “in parallelo” e “su scala locale” soluzioni diverse, ma anche di confrontarle, valutarle e, se opportuno, estenderle ad altri contesti. Il SSN dovrà quindi rapidamente sviluppare sistemi di benchmarking interregionale, nonché politiche capaci di trasferire competenze e professionalità dai contesti più avanzati al resto del Paese, pena il rischio di un sostanziale cedimento nell’unitarietà effettiva del sistema nazionale di welfare.

Un commento

  1. belle parole! In campania sarebbe infatti indispensabile riappropriarsi delle capacità tecniche e professionali. A causa del clientelismo divagante soprattutto nelle perenni fasi preelettorali, stiamo assistendo ad un completo sovvertimento del panorama sanitario. Non esistono più nè le eccellenze professionali nè tecniche. un tempo c’erano in campania ed a napoli in particolare settori della sanità pubblica che facevano “Scuola”, di impatto nella sfera sanitaria nazionale ed internazionale. ora invece ci resta solo una cricca di ignoranti con curricula ridicoli, con assoluta mancanza di capacità gestionali e di comunicazione. Ignoranti e impresentabili nei vari consessi scientifici! Allora, vi chiedo, di cosa stiamo parlando?

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