Come misurare il progresso

Elena Granaglia


“Ciò che misuriamo influenza ciò che facciamo; e se i nostri indicatori sono fallaci, le decisioni possono essere distorte”. Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi si sono confrontati su come misurare lo sviluppo economico e il progresso sociale. Benché il PIL sia inadeguato come indicatore di benessere, per trovare una valida alternativa bisogna fronteggiare la complessità.


“What we measure affects what we do; and if our measurements are flawed, decisions may be distorted”. Partendo da questa premessa, il Rapporto della Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress[1] insediata nel 2008 dal Presidente Sarkozy e presieduta da J. Stiglitz offre una sintesi circostanziata di una pluralità di limiti del PIL quale indicatore di benessere nonché delle principali alternative volte a fronteggiare tali limiti. Scopo di questa breve nota è quello di riprendere brevemente i principali contributi del Rapporto, accennando, nel paragrafo conclusivo, ad una questione cruciale che il Rapporto lascia aperta.

Un primo limite del PIL, sul quale mi concentro più diffusamente, riguarda l’incapacità di misurare, addirittura, il benessere materiale. Da un lato, e qui la critica è forse più scontata, il PIL è un indicatore aggregato insensibile alla distribuzione del reddito. Un incremento nel valore medio potrebbe, ad esempio, associarsi a perdite di reddito per alcuni soggetti. Il dato aggregato andrebbe, dunque, integrato da indicatori relativi alla distribuzione sia fra individui sia fra gruppi. Un contributo potrebbe derivare dal semplice confronto fra valori medi e mediani: maggiore è la distanza, maggiore è la disuguaglianza.

Dall’altro lato, e qui la critica mi pare più sottovalutata, il PIL rappresenta il valore della produzione lorda effettuata in un dato paese, ma tale produzione non si tramuta tutta in disponibilità di risorse per i cittadini. Parte è destinata al rinnovo delle macchine e di altri beni capitali. Parte è goduta da chi non risiede in quel paese. Ad esempio, più la produzione è svolta da multinazionali, più aumenta la parte di PIL goduta dai proprietari nei paesi madre, come testimoniato dai casi dell’Irlanda e di diversi paesi in via di sviluppo. Conta, altresì, il rapporto fra prezzi delle esportazioni e delle importazioni. Se i primi crescono più dei secondi, anche il reddito cresce più velocemente del PIL, come è recentemente avvenuto in Norvegia. Ancora, parte del valore della produzione è sottratta ai singoli dalla tassazione, seppure restituita, in parte, sotto forma di trasferimenti. In sintesi, ammonisce il Rapporto, se si vuole considerare il benessere materiale occorre considerare il reddito disponibile per le famiglie, non la produzione, come fa il PIL. Se si confronta l’andamento del PIL e del reddito disponibile nel periodo 1996-2006, con le eccezioni appunto della Norvegia e seppure in misura inferiore degli USA, il tasso di crescita del primo ha stabilmente superato quello del secondo, come documentato dalla Figura 1 più sotto riportata basata sui dati OCSE e tratta dal Rapporto.

Anche il reddito disponibile non sarebbe, però, la soluzione definitiva, ignorando, come il PIL, il valore dei beni prodotti in proprio dalle famiglie e del tempo libero. Utilizzando un noto esempio, se un datore di lavoro sposasse la propria badante e questa continuasse a svolgere gli stessi servizi prima effettuati, il PIL diminuirebbe. Nonostante le difficoltà di stima, la via dovrebbe essere quella del full income, ossia, dell’integrazione del reddito disponibile con il valore dei beni prodotti in proprio dalle famiglie e del tempo libero. Se si considera il reddito disponibile medio, il valore, per la Francia, si attesta a circa il 66% di quello degli USA. Secondo il Rapporto, salirebbe al 79% aggiungendo il valore dei servizi sanitari e di istruzione e all’87% aggiungendo quello di ciò che è prodotto in proprio dalle famiglie e del tempo libero.

Non si dimentichino, peraltro, le difficoltà del PIL di misurare il valore stesso della produzione. Ad esempio, come tenere conto delle variazioni nella qualità dei beni prodotti? Sottostimare eventuali miglioramenti significherebbe sovrastimare l’inflazione. Oppure, utilizzare il costo degli input produttivi quale proxy del valore dei servizi pubblici, come avviene tipicamente, comporta che il PIL possa diminuire quando si realizzino incrementi di produttività.

Figura 1. Reddito reale disponibile delle famiglie e PIL
Tassi di crescita annuali 1996-2006

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Un secondo limite del PIL concerne la sottovalutazione delle dimensioni di benessere relative alla più complessiva qualità della vita, a prescindere dal benessere materiale. Il Rapporto presenta una sintesi accurata dei punti di forza e di debolezza dei diversi approcci al riguardo utilizzabili, da quelli oggettivi, quali le prospettive delle capacità di Sen o delle allocazioni eque, a quelli soggettivi, siano essi basati sulla versione edonica interessata alle sensazioni di star bene o star male dei singoli oppure sulla versione cognitiva interessata al giudizio che gli individui danno della propria vita. Diversamente da quanto fa per il benessere materiale, per le dimensioni non materiali, il Rapporto non difende, però, proposte specifiche, tranne invitare ad usare una pluralità di indicatori aggregati e a riconoscere sia l’importanza di entrambi gli approcci oggettivo e soggettivo sia la condivisione, comunque esistente fra i diversi approcci, circa l’importanza della salute; dell’istruzione; delle attività personali (inclusa la qualità del lavoro); della partecipazione politica; delle relazioni sociali; della qualità dell’ambiente; della sicurezza, economica e fisica oltre, ovviamente, del benessere materiale. Il grosso del contributo si limita, però, alla messa a fuoco dei pro e dei contro delle diverse opzioni, demandando le scelte alla collettività.

Un ultimo limite del PIL concerne la sottovalutazione della sostenibilità del livello di benessere attuale per le generazioni future, la quale richiederebbe il mantenimento o, addirittura, l’incremento della quantità e della qualità delle risorse naturali e del capitale umano, sociale e fisico. Misurare il valore di tali quantità e qualità amplifica, in molte istanze, le difficoltà relative alla misurazione del full income, le tecniche di stima essendo ancora meno sviluppate di quanto lo siano per la valutazione dei beni prodotti in proprio dalle famiglie e del tempo libero. Di conseguenza, l’impegno, secondo il Rapporto, dovrebbe essere soprattutto alla costruzione di misure distinte di variazione delle quantità (stock) dei diversi capitali, rifuggendo dalla ricerca un indicatore monetario onnicomprensivo.

Il Rapporto offre, dunque, una lista ampia e dettagliata dei limiti del PIL e della pluralità di dimensioni alternative di benessere che dovrebbero essere considerate. La domanda è come scegliere fra di esse? A quali dare la priorità? Quali pesi attribuire? Come comportarsi in caso di conflitto? Nonostante la sottovalutazione, in alcune parti, della natura controversa delle raccomandazioni offerte (ad esempio, l’auspicato ricorso al full income potrebbe comportare, come argomenta Fleurbaey[2], la “schiavitù dei talenti”, se utilizzato come oggetto dell’uguaglianza distributiva), il Rapporto, afferma giustamente, in più istanze, l’inevitabilità del ricorso alle scelte collettive, data la natura etica delle questioni in gioco. Scelte collettive informate necessitano, però, di argomentazioni capaci di coniugare ragioni etiche, indicatori conseguenti ed evidenze empiriche sugli effetti delle diverse combinazioni di benessere prescelte. Detto in altri termini, fra offrire liste di corsi di azione possibili e il mero rimandare alle scelte collettive, c’è un grosso iato da colmare. Su questo piano, il Rapporto, lungi dall’offrire risposte, apre la strada per un gran lavoro tutto da compiere.

Nota. Elena Granaglia è professore ordinario di Scienza delle Finanze, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre.

Bibliografia

  1. Stiglitz IE, Sen A, Fitoussi JP. Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress. Paris, 14 settembre 2009 [PDF: 182 Kb]
  1. M. Fleurbaey. Beyond GDP: The Quest for a Measure of Social Welfare. Journal of Economic Literature 2009; 47(4): 1029-75.

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