In Palestina non uccidono soltanto le bombe
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- 8 Gennaio 2010
Angelo Stefanini
“Un modo di guardare alla storia della comunità umana è che essa è stata una continua lotta contro la venerazione delle ‘stronzate’ [‘crap’ in inglese]. La nostra storia intellettuale è una cronaca dell’angoscia e della sofferenza di uomini che hanno cercato di aiutare i propri contemporanei a vedere come una parte delle loro convinzioni più sentite non fossero che equivoci, supposizioni errate, superstizioni o addirittura vere e proprie menzogne. Abbiamo in mente un tipo d’educazione che cominci a formare esattamente questo tipo di persone: gli esperti nella ‘identificazione delle stronzate'”...[1]
Con questa provocatoria citazione inizia il libro in cui l’israeliano Jeff Halper, professore di antropologia, fondatore del Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case (ICAHD), esamina il conflitto israelo/palestinese da ‘critical insider’.[2] Un fondamentale principio educativo, spiega nell’Introduzione, è che le persone, ricevuta l’informazione e gli strumenti per assimilarla, possano cambiare comportamento in funzione della nuova conoscenza acquisita anche se questa può portarle a conclusioni contrarie a quanto fino ad allora accettato come “giusto”. “E’ questa fondamentale tensione tra la capacità di imparare e cambiare, da una parte, e, dall’altra, il fatto che ci definiamo in base a schemi socio-culturali da noi internalizzati e ferocemente difesi, che ci impedisce di trascendere il nostro etnocentrismo e di trovare modi per trattare con giustizia coloro che definiamo nostri ‘nemici’.” Secondo Halper, il compito di ogni intellettuale è quello di liberare le persone dalla ‘gabbia mentale’ rappresentata dall’insieme di comportamenti e opinioni con cui esse si auto-definiscono ‘normali’ e che impedisce loro di riappropriarsi della innata capacità a guardare ‘fuori’.
Ciò che particolarmente colpisce del conflitto israelo-palestinese è il suo carattere quasi di tabù rispetto ad altre controverse questioni internazionali, come Cuba, Tibet o, a suo tempo, il Sudafrica. E’ indubbio come, diversamente dalla risonanza che ebbe l’apartheid sudafricano, la questione palestinese non consenta lo scambio di argomentazioni equilibrate da entrambe le parti. Anch’essa, infatti, ha la propria ‘gabbia’ che va aperta con coraggio e onestà intellettuale. “Se vi si praticano dei buchi, la maggior parte delle persone farà ciò che viene loro naturale: sbirciare fuori” dice Halper. Per rendersi conto che sono stati aperti dei fori è però necessario un minimo di quel ‘pensiero critico’ che i guardiani di ogni società aborriscono e che cercano di sopprimere attraverso, ad esempio, il sistema scolastico e quello della informazione. Un atteggiamento critico può aiutarci ad aprire qualche foro e riconoscere gli elementi di irrazionalità, pregiudizio, paura, pressione psicologica e condizionamento sociale che ci circondano.
Per il mondo medico, questo approccio critico e’ l’eredità lasciata dallo scienziato ottocentesco Rudolf Virchow. La sua affermazione ‘la medicina è una scienza sociale e la politica nient’altro che medicina sui vasta scala’ ha portato ad evidenziare come il carico di malattia che grava sul genere umano sia in gran parte da attribuire alle condizioni socio-economiche in cui la gente vive, lavora, ama e muore, i cosiddetti determinanti sociali della salute.
Paradossalmente, tuttavia, più i professionisti della salute si concentrano sullo studio delle cause a monte o distali (le ‘cause delle cause’) delle malattie, più finiscono in territori (politica, economia, sociologia, antropologia, ecc.) che gli studi di medicina hanno sempre disdegnato. L’esclusione da questi ambiti significa tuttavia, per i medici, la perdita progressiva della loro rilevanza sul mondo circostante.
Un esempio di territori inesplorati è il rapporto tra violenza e salute. La violenza è al centro della narrativa del conflitto israelo-palestinese in cui essa si manifesta in forme molteplici, si ripercuote sulla popolazione e, entrando letteralmente nel corpo delle persone, ne influenza tragicamente la vita. Nel territorio palestinese occupato (TPO) è possibile osservare all’opera quotidianamente specifici determinanti sociali (come l’esclusione sociale, economica e politica, la mancanza di libertà fondamentali, la perdita di controllo sulla propria vita, la paura e lo stress quotidiani) e il loro impatto su salute, benessere e qualità della vita dei palestinesi (e sotto molti aspetti anche degli israeliani).
La serie “La Salute nel TPO”, pubblicata nel marzo scorso da The Lancet[3], affronta nei dettagli questo aspetto troppo trascurato da chi ancora insegue il miraggio di una scienza completamente distaccata dalla società. Utilizzando come cornice analitica il concetto di human security[4], vengono descritti i continui pericoli e le minacce alla sopravvivenza, allo sviluppo e al benessere in cui vive la popolazione palestinese: “Dal 2000 sono stati uccisi più di 6000 palestinesi, e la distruzione e il controllo israeliano delle infrastrutture ha limitato severamente l’approvvigionamento di combustibile e l’accesso ad acqua e servizi di igiene e sanità pubblica. Nelle prigioni avvengono torture e ai posti di controllo israeliani quotidiane umiliazioni. Il muro di separazione e i posti di blocco limitano l’accesso al lavoro, ai propri familiari, ai luoghi di culto e alle strutture sanitarie. I tassi di povertà sono rapidamente aumentati e quasi la metà dei palestinesi e’ dipendente dall’assistenza alimentare. La coesione sociale, che ha tenuto insieme la società palestinese, compreso il sistema sanitario, sta cedendo. Più di 9 miliardi di aiuti non hanno promosso lo sviluppo poichè i palestinesi mancano della sicurezza di base.”
Una tale situazione priva la popolazione degli strumenti essenziali per far fronte alle necessità di base per una vita decente, ossia della loro ‘sicurezza umana’, esercitando sulle persone violenze indirette[5], non colte dall’analisi superficiale che considera soltanto la violenza che ‘fa notizia’, ossia quella diretta, collettiva o individuale.
E’ stato il norvegese Johan Galtung[6] ad elaborare la distinzione tra violenza diretta o personale (“quella in cui è individuabile un attore che la commette”) e violenza indiretta o strutturale in cui “tale attore sfugge alla identificazione… In entrambi i casi, singoli individui sono uccisi o mutilati. Ma mentre nel primo queste conseguenze possono essere attribuite a persone concrete…, nel secondo ciò non è possibile… la violenza è insita nella struttura…”. La violenza diretta, quella delle bombe, è terribile, la sua brutalità suscita la nostra reazione e viene naturalmente riportata dai media con dovizia di particolari. La violenza strutturale invece è subdola e invisibile, insita com’è ovunque nelle strutture sociali e ridotta ad un fatto normale in quanto parte integrante di istituzioni consolidate e dell’ordinaria esperienza quotidiana. “Sembra naturale come l’aria che respiriamo”, dice Galtung. Poiché di lunga data, le iniquità strutturali sembrano normali, espressione di come le cose sono e sempre sono andate; ma non sono meno omicide: la violenza esercitata da un sistema economico globale profondamente ingiusto uccide 10 milioni di bambini all’anno[7], ben più delle morti dovute alla violenza diretta.
A causa delle loro strette interconnessioni, i due tipi di violenza vanno esaminati con la stessa attenzione, in modo da evidenziarne i rapporti di reciproca causalità. Uno degli aspetti problematici della violenza strutturale, infatti, e’ che spesso porta alla violenza diretta. Per ovvie ragioni chi è cronicamente oppresso finisce prima o poi per decidere di reagire con mezzi violenti. Esiste una correlazione diretta, per esempio, tra il grado di disuguaglianze socio-economiche all’interno di un paese e la frequenza degli omicidi. E’ anche vero il contrario: le società più egalitarie stanno meglio in tutti i sensi[8].
Il caso del TPO si presta bene ad usare la ‘lente della violenza strutturale’ per identificare i reali rapporti di forza esistenti e la direzione dei vari tipi di violenza. E’ questa lente che ci permette di guardare fuori dalla gabbia mentale che deforma la realtà e che ci fa identificare meccanismi di violenza finora sconosciuti. Un profondo equivoco presente nella comune narrazione del conflitto israelo-palestinese sta nell’assunto di una sua simmetria che considera le parti in causa come uguali in termini di potere e basate sullo stesso livello di rivendicazioni. Il problema, si sostiene, è dovuto all’incompatibilità tra le due parti, allo scontro di due civiltà che vedono il mondo in modo diverso. Questa visione distorta della realtà (‘stronzata’) dipende dalla scarsa considerazione data al ruolo svolto dalla violenza strutturale.
La comprensione di come operi la violenza strutturale nel TPO può avere profonde implicazioni nella ricerca di possibili soluzioni al conflitto. Considerare, ad esempio, la ‘pace’ soltanto come ‘cessazione della violenza diretta’ significa non intervenire sulla situazione di profonda violenza strutturale che viene quindi lasciata operare indisturbata (naturalmente a vantaggio della parte in causa più forte). Una riduzione della violenza strutturale, al contrario, potrebbe portare ad un allentamento rilevante delle tensioni tra le due parti e alla diminuzione della violenza delle bombe.
Tabella 1.Violenza diretta e strutturale nei TPO
VIOLENZA DIRETTA |
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VIOLENZA INDIRETTA O STRUTTURALE | Violenza Economica
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Violenza Politica
| |
Violenza Culturale
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Violenza Religiosa
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Violenza Ambientale
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- Postman N. and Weingarten C. Teaching as a Subversive Activity. London: Penguin, 1969.
- Halper J. An Israeli in Palestine. Resisting Dispossession, Redeeming Israel. London: Pluto Press, 2008. Traduzione italiana: Halper J. Ostacoli alla pace. Una ricontestualizzazione del conflitto israelo-palestinese. Forlì: Una Città, 2009.
- Series. Health in the Occupied Palestinian Territory. Launched in London, UK, March 4, 2009. The Lancet
- Batniji R, Rabaia Y, Nguyen–Gillham V, et al. Health as human security in the occupied Palestinian territory. The Lancet, Published Online March 5, 2009 DOI:10.1016/S0140-6736(09)60110-0
- Si veda la tabella 1 adattata da: Interfaith Council for Peace and Justice, pag. 4 [PDF: 3,16 Kb]
- Galtung, J. Violence, Peace and Peace Research. Journal of Peace Research 1969; 6(3): 167-91.
- Black RE, Morris SS, Bryce J. Where and why are 10 million children dying every year? The Lancet 2003; 361(9376): 2226–34.
- Wilkinson R, Pickett K. The Spirit Level: Why More Equal Societies Almost Always Do Better. Penguin Books, 2009.
Importantissimo articolo. Ne ho pubblicato una citazione, con un link che rimanda qui –
Non ho visitato i territori occupati, ma i campi profughi in Libano sì. La condizione di “invisibili” nel paese, nel migliore dei casi, le relazioni dentro i campi che risentono delle fazioni politiche che dividono il popolo palestinese, fanno sì che l’unica eredità che un padre lascia morendo alla famiglia è il suo cancro, che spesso poco tempo dopo appare nella moglie. Una gran parte di bambini ha difficoltà di apprendimento, anche perchè la scolarità è precaria, e gravi turbe psichiche.
http://mcc43.wordpress.com/2014/01/20/non-solo-bombe-effetti-della-violenza-strutturale-sui-palestinesi/