Diritti di proprietà intellettuale e salute nei paesi poveri

Ilaria Camplone, Barbara Ariatti e Chiara Bodini

Un terzo della popolazione mondiale non dispone dei farmaci necessari a curarsi e nei paesi in via di sviluppo la proporzione raggiunge il 50%.


TRIPS, TRIPS-plus e accordi di libero commercio

Il dibattito sulle implicazioni in salute ed economia dell’accordo TRIPS (Trade Related aspects of Intellectual Property rights) è nato contestualmente alla sua sottoscrizione nel 1994 da parte dei Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) .

Nel TRIPS vengono stabiliti gli standard minimi internazionali di protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Viene cioè definito che cosa può essere considerato proprietà intellettuale, quali diritti sono ad essa collegati, quali sono le eccezioni permesse e qual è la durata minima dei brevetti. Tra gli ambiti più controversi regolamentati dall’accordo TRIPS vi è il settore farmaceutico, per i cui prodotti la durata minima di brevetto è pari a 20 anni.

Di fatto, l’accordo ha impegnato tutti i paesi membri del WTO ad adeguare la propria legislazione in materia brevettuale ai nuovi standard internazionali, e a farla applicare con rigore, o a creare legislazioni e sistemi sanzionatori ad hoc laddove non fossero esistenti. Pur contemplando clausole per deroghe ed eccezioni, gli obblighi verso il TRIPS sono applicati in modo uguale a tutti gli stati membri. Tuttavia, ai Paesi in via di sviluppo[1] (PVS) è stato concesso un tempo maggiore per attuare i cambiamenti necessari nelle proprie legislazioni, in due livelli di transizione: per molti PVS il periodo di transizione è scaduto nel 2005, mentre per i Paesi considerati “minimamente sviluppati” la scadenza è stata estesa fino al 2016, e potrebbe essere ulteriormente procrastinata.

Benché l’accordo TRIPS rappresenti già di per sé – per moltissimi Paesi – una notevole “stretta” in termini di protezione dei diritti di proprietà intellettuale, fin dai primi anni di applicazione sono state avviate negoziazioni internazionali per rendere ancora più rigido il sistema di protezione (per esempio, prolungando il periodo di copertura brevettuale). Queste ulteriori restrizioni, convenzionalmente indicate con il termine “ TRIPS-plus ”, vengono in genere ratificate nell’ambito di accordi multilaterali, regionali o bilaterali tra Paesi sviluppati e PVS (i cosiddetti Free Trade Agreements , o Accordi di Libero Commercio). Seguendo la logica globale del “one size fits all ”, una misura per tutti, questi accordi puntano a conformare sempre più le leggi internazionali e nazionali in materia di proprietà intellettuale a quelle dei Paesi economicamente avanzati.

A distanza di ormai quindici anni dalla sua ratifica, molte voci critiche si sono levate in merito all’ impatto dell’accordo TRIPS sullo sviluppo e l’equità nei PVS, e un certo numero di evidenze sono ormai disponibili per poter analizzare l’effetto delle politiche di protezione della proprietà intellettuale sulla salute della popolazione in tali paesi.

Il rapporto “Proprietà intellettuale e Paesi in via di sviluppo: una revisione della letteratura”[2].

Recentemente, un rapporto commissionato dall’ufficio brevetti britannico[3] alla RAND Corporation[4] ha presentato le evidenze teoriche ed empiriche sull’effetto delle citate norme di tutela della proprietà intellettuale nei PVS, analizzando cinque principali aree di interesse: investimenti esteri, commercio, innovazione, salute pubblica e risorse genetiche e conoscenza tradizionale.

Innanzitutto, il rapporto rileva come il quadro delle legislazioni in materia di proprietà intellettuale nei PVS non sia affatto omogeneo : molti tra i Paesi più poveri non hanno ancora implementato legislazioni stringenti, mentre su alcuni Paesi emergenti – per esempio India e Sudafrica – si sono concentrate le pressioni internazionali, prima attraverso i TRIPS e poi tramite accordi bilaterali, per imporre l’adozione di rigide norme a protezione dei brevetti. A questo proposito, viene però rilevato che, sebbene molti tra i Paesi più poveri non abbiano (ancora) una legislazione coerente con gli standard internazionali, gli effetti dell’accordo TRIPS e delle successive misure regionali e bilaterali si ripercuotono anche su tali Paesi, in quanto dipendenti dalle importazioni di merci prodotte dove la proprietà intellettuale è grandemente difesa.

Tra le principali aree di interesse che vengono analizzate nel rapporto, riportiamo le considerazioni relative all’ impatto delle misure di protezione della proprietà intellettuale nel campo della salute pubblica , relativamente ai due ambiti che sono stati i più chiamati in causa da parte di sostenitori e critici dell’accordo TRIPS: il suo effetto sull’ innovazione farmaceutica (in termini di quantità e allocazione degli investimenti in ricerca e sviluppo) e sull’ accesso alle cure nei PVS.

Per quanto riguarda l’innovazione , questa sembra essere, nel settore farmaceutico, molto più influenzata dalla protezione della proprietà intellettuale di quanto non avvenga in altri settori produttivi. Il rapporto presenta infatti una stima secondo cui l’assenza di protezione brevettuale comporterebbe una riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo pari al 64% nel comparto farmaceutico, e solo all’8% negli altri comparti. Le ragioni di tale peculiarità sarebbero l’alto “costo fisso”, ovvero le ingenti spese che il settore deve sostenere per la ricerca e gli impianti produttivi, nonché per le procedure di validazione e approvazione del farmaco, e – al contrario – il basso “costo marginale”, ovvero il costo di produzione di un’unità aggiuntiva di prodotto. In altre parole, i prodotti farmaceutici sono molto onerosi da sviluppare e immettere sul mercato, ma è relativamente facile e poco costoso imitarli. I brevetti, garantendo il monopolio per un dato farmaco, sono visti dunque come la necessaria compensazione per l’alto rischio finanziario che le aziende si assumono investendo in ricerca e sviluppo di nuovi prodotti.

Tuttavia, è da sottolineare quanto questo meccanismo funzioni solo ed esclusivamente se esiste un mercato in cui tale monopolio può essere sfruttato. L’innovazione è quindi sostenuta e incentivata dai brevetti solo in ambiti e contesti dove il mercato è sufficientemente grande da garantire un effettivo e remunerativo beneficio dal regime di monopolio. Questo ha come diretta conseguenza il noto fenomeno del “gap 10/90 ”, ovvero il fatto che solo il 10% degli investimenti in ricerca riguardano le patologie che colpiscono il 90% della popolazione mondiale. A fronte di questa situazione, i brevetti hanno mostrato di avere un effetto scarso – se non nullo – nell’orientare le priorità di ricerca e sviluppo verso le problematiche di salute prevalenti nei PVS . Nello specifico, uno studio ha analizzato come, dieci anni dopo la sottoscrizione dell’accordo TRIPS, ricerca e sviluppo sulle patologie tropicali non abbiano subito nessuna modifica sostanziale[5]. Anche i passi avanti recentemente compiuti per alcune malattie dimenticate sono da attribuire più alle pressioni dell’opinione pubblica internazionale e ad iniziative filantropiche che agli accordi sulla proprietà intellettuale.

Il rapporto prende anche in esame la produzione farmaceutica nei Paesi emergenti , rilevando quanto l’introduzione di leggi in protezione della proprietà intellettuale non abbia di fatto contribuito a rafforzare gli investimenti in ricerca e sviluppo utili all’epidemiologia locale. Piuttosto, ciò che si è verificato – parallelamente all’indubbia crescita delle industrie nazionali – è stato un decremento dell’innovazione, a fronte di un incremento delle rendite[6]. Questo perché, come avviene a livello internazionale, anche nei Paesi emergenti il settore privato non sceglie di produrre farmaci rispondenti alle esigenze del mercato interno, meno promettente e remunerativo, ma si orienta piuttosto verso farmaci collocabili sui più redditizi mercati dei Paesi ricchi.

Infine, sempre relativamente all’innovazione il rapporto sottolinea come la ricerca sia spesso “asfissiata” dall’enorme competitività che spesso limita lo scambio di conoscenza e accresce il costo delle collaborazioni tra i ricercatori, attribuendone la responsabilità principale proprio ai regimi di tutela della proprietà intellettuale.

Per quanto riguarda l’ accesso ai farmaci , gli accordi sulla proprietà intellettuale hanno avuto – secondo il rapporto – un impatto decisamente significativo in termini di riduzione dell’accesso e aumento delle disuguaglianze. Sebbene i fattori che contribuiscono all’accessibilità alle cure siano molteplici e non possano essere ricondotti esclusivamente al costo dei prodotti farmaceutici, questo rappresenta un aspetto cruciale e determinante della questione. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), infatti, un terzo della popolazione mondiale non dispone dei farmaci necessari a curarsi e nei PVS la proporzione raggiunge il 50%[7]. Data l’interdipendenza del mercato globale, come riportato sopra, il prezzo dei farmaci nei PVS è fortemente dipendente dalle norme di tutela brevettuale vigenti nei Paesi produttori, a prescindere che tali leggi esistano o siano applicate localmente.L’OMS afferma infatti che “il modello di protezione della proprietà intellettuale vigente, escludendo i competitori low-cost, è responsabile dell’aumento dei prezzi dei farmaci”[8].

Tra le strategie prese in esame dal rapporto come possibili “correttivi” del sistema vi è quella dei prezzi differenziati , che consentirebbe di non modificare la legislazione internazionale sulla proprietà intellettuale affiancando una politica che consenta alte remunerazioni dai mercati del Nord del mondo a fronte di prezzi agevolati per i Paesi con minori capacità economiche. Tuttavia, le analisi condotte mettono in luce quanto questo approccio sia finora stato fallimentare, per diverse ragioni tra cui la difficoltà di progettare e creare un sistema di arbitraggio internazionale che impedisca importazioni dai Paesi con regimi agevolati ai Paesi ricchi, le possibili ripercussioni politiche e di opinione pubblica che tale sistema differenziato creerebbe, e infine il dato empirico che i prezzi, anche nei Paesi poveri, tendono a definirsi non in funzione del reddito medio del Paese ma in funzione del reddito delle fasce più ricche di popolazione. Pertanto, in contesti in cui la debolezza e il sottofinanziamento dei sistemi sanitari pubblici rendono il privato spesso l’unico settore a cui rivolgersi per l’acquisto di farmaci, questi risulterebbero comunque accessibili solo a quelle fasce di popolazione già relativamente avvantaggiate rispetto alla media nazionale, lasciando quindi scoperta la maggioranza (povera) delle persone.

Anche il meccanismo delle cosiddette “ licenze obbligatorie ”, previsto nell’ambito dell’accordo TRIPS per tutelare gli interessi nazionali in caso di gravi calamità, non è da solo efficace nel garantire prezzi accessibili. Si tratta di clausole grazie alle quali, in casi eccezionali come emergenze o epidemie, i governi possono obbligare i possessori di un brevetto a concederne l’uso allo Stato o ad altri soggetti. Questo sistema non si è finora mostrato in grado di determinare una riduzione dei prezzi tale da aumentare l’accesso a farmaci indispensabili nei PVS, se non in presenza di un efficace e stabile mercato parallelo di prodotti generici. Il rapporto conclude affermando che, finora, solo la competizione di farmaci generici è stata in grado di ridurre i prezzi di alcuni prodotti farmaceutici a tal punto da renderli accessibili per lo meno a parte della popolazione nei PVS. Tale competizione è naturalmente minacciata dalle pressioni tese a garantire una protezione maggiore, in tutti i Paesi, per i diritti di proprietà intellettuale.

E’ possibile risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato?

Come indicato all’inizio del precedente paragrafo, il rapporto preso in esame analizza l’ impatto nei PVS della legislazione internazionale sulla proprietà intellettuale , in diversi ambiti (investimenti esteri, commercio, innovazione, salute pubblica e risorse genetiche e conoscenza tradizionale). Per molti di questi – quali per esempio investimenti esteri, commercio e innovazione – le evidenze riportate sono, oltre che scarse, spesso parziali, di difficile interpretazione e contrastanti. L’ambito in cui invece esse sembrano essere più numerose, ma soprattutto più concordi e univoche, è proprio quello relativo all’impatto sulla salute pubblica. Per quanto il rapporto, visto anche il committente e il taglio prettamente economico dell’analisi, si esprima in maniera molto tecnica e non si sbilanci su considerazioni “politiche”, tutte le evidenze riportate relativamente all’impatto della normativa brevettuale sulla salute nei PVS dimostrano che – a fronte di un’innegabile tutela e di vantaggi per gli interessi del privato, locale e internazionale – vi sono effetti negativi per la salute della popolazione, in termini sia assoluti che di disuguaglianze interne . A fronte di questo, e archiviate di fatto le clausole presenti nella legislazione vigente come possibili strumenti di “compensazione” (perché poco applicate/applicabili e perché non sufficientemente efficaci), le strategie indicate dagli autori per affrontare la questione non appaiono particolarmente confortanti o percorribili.

Una delle soluzioni più discusse come possibile “terza via”, in grado di bilanciare interessi del mercato e bene comune, è quella delle partnership pubblico-privato, alle quali il rapporto dedica particolare attenzione (lasciandosi andare, qui sì, a giudizi di merito positivi anche al di fuori delle evidenze). A questo proposito, la considerazione finale è però che l’effetto combinato e le interazioni reciproche delle normative internazionali di tutela della proprietà intellettuale e di tali emergenti sistemi di governance delle problematiche globali è poco conosciuto e di fatto ancora tutto da indagare.

In merito al possibile ruolo del settore pubblico , che nel rapporto non viene di fatto analizzato, vi è un’unica affermazione in cui si ammette che rafforzarne le capacità produttive potrebbe costituire uno scenario alternativo, in grado di contrastare gli effetti dannosi della protezione della proprietà intellettuale sulla salute della popolazione. Tuttavia, tale scenario viene rapidamente archiviato come poco percorribile, data l’attuale mancanza e/o scarsità di risorse umane ed economiche, nonché di capacità tecnologiche e produttive, che affligge il settore pubblico e la complessità e i costi caratteristici della ricerca e produzione farmaceutica.

Infine, vengono citate – ma non descritte – alcune possibili politiche collegate alla tutela della proprietà intellettuale (quali per esempio l’estensione della durata dei brevetti per i cosiddetti “farmaci orfani”[9]), rispetto alle quali si ammette tuttavia che vengano indicate sulla base di mere teorie o di evidenze empiriche indirette, e che sarebbe invece necessario dedicare un’attenzione molto maggiore allo studio della loro applicabilità concreta, delle possibili implicazioni e della reale efficacia.

In conclusione, l’impressione che si ha analizzando il rapporto con sguardo per molti versi “estraneo” all’approccio prettamente economico che lo sottende e lo informa, è che gli autori si dibattano per cercare giustificazioni e soluzioni all’interno di un quadro che si è mostrato chiaramente inadeguato per raggiungere alcuni degli obiettivi dichiarati. E proprio quegli obiettivi di “sviluppo” e “crescita” che erano stati impiegati come strumento politico di difesa di fronte a un’opinione pubblica internazionale scettica, e di moltissimi operatori della salute apertamente contrari a misure elaborate da, e “tagliate” su, quegli stessi interessi alla base delle attuali disuguaglianze globali.

Appare invece sempre più urgente e necessario adottare uno sguardo, verso cui indirizzare gli sforzi e gli investimenti in ricerca, capace di mettere in discussione tale sistema, con un approccio “laico” che, senza pregiudizi, analizzi in termini critici tutte le possibili strategie per affrontare le questioni di salute globale, comprese quelle site al di fuori del paradigma economico corrente basato sul mercato. Invece, a fronte delle citate evidenze sul fallimento dei sistemi ora in atto e del crescente divario tra queste e gli orientamenti delle pratiche e delle politiche, si ripropone e si ripercorre anche in ricerca un modello teorico che appare limitante nel poter considerare possibili alternative. In conclusione, vale la pena di richiamare a monito la saggezza di Albert Einstein, quando affermava che: “ Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato. ”.

Ilaria Camplone, Barbara Ariatti e Chiara Bodini, Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale, Università di Bologna

Bibliografia

  1. Le diciture “Paesi in via di sviluppo” e “Paesi sviluppati”, benché passibili di numerose critiche, verranno utilizzate qui e successivamente nel testo in quanto impiegate nel rapporto cui si fa riferimento (vedi paragrafo 2).
  2. Hassan E, Yaqub O, Diepeveen S. Intellectual Property and Developing Countries. A review of the literature. RAND Corporation, 2010. [PDF: 502 Kb]
  3. UK Intellectual Property Office: ente governativo ufficiale, responsabile di garantire il diritto di proprietà intellettuale in Gran Bretagna.
  4. La RAND Corporation è un ente di ricerca non profit che fornisce analisi e soluzioni nel settore pubblico e privato a livello internazionale.
  5. Lanjouw JO, MacLeod M. Statistical Trends in Pharmaceutical Research for Poor Countries. Brookings Working Paper, 2005.
  6. Qiu LD, Yu H. Does the Protection of Foreign Intellectual Property Rights Stimulate Innovation in the U.S.? Hong Kong University of Science and Technology, 2007.
  7. World Health Report. Geneva: WHO, 2002.
  8. WHO. Public Health, Innovation and Intellectual Property Rights. Commission on Intellectual Property Rights, Innovation and Public Health (CIPIH). Geneva: WHO, 2006.
  9. Si dicono “farmaci orfani” quei medicinali, efficaci nel trattamento di alcune malattie, che non vengono prodotti o immessi sul mercato a causa della domanda insufficiente a coprire i costi di produzione e fornitura.

Un commento

  1. Le politiche di “health reform” e di “structural adjustment” portate avanti dalla World Bank e dall’International Monetary Fund hanno incrementato i livelli di povertà e distrutto quel pò di servizi sanitari pubblici , a partire da quelli di base (fondamentali per la sanità pubblica) e quand’anche ci fossero disponibilità diagnostico terapeutiche a basso prezzo queste non viaggerebbero sulle ali delle farfalle per raggiungere chi ne ha bisogno, che reso ancora più povero non avrebbe comunque la possibilità di acquistare alcunchè anche di costo ridotto di un fattore dieci. Non va dimenticato che un trattamento terapeutico o un presidio diagnostico o una profilassi se inefficaci o inutili o inappropriati non dovrebbero essere promossi anche se di costo ridotto o nullo.
    Senza servizi primari, sopratutto quelli dedicati alla salute delle donne e dell’età evolutiva, gratuiti e adeguatamente diffusi che lavorino sulla base dell’offerta attiva delle attività di promozione della salute, non credo si possa affrontare il tema della salute nei paesi ipocritamente definiti in via di sviluppo (direi piuttosto in via di sottosviluppo). Si potrebbe dire: peggio per loro! se non fosse che il livello di salute in quei paesi influenza in modo diretto o indiretto quello dei paesi cosidetti sviluppati. A tale proposito basterebbe citare i vantaggi per i paesi sviluppati in seguito alla eradicazione del vaiolo raggiunta proprio perchè ci si è occupati con una strategia di sanità pubblica appropriata dei paesi e delle comunità a livello più basso della scala sociale ed economica.
    Nella ricerca e sviluppo di nuovi presidi profilattici e terapeutici i cui costi si sostiene impongano una politica brevettuale adeguata non si tiene conto della ricerca pubblica, finanziata dalla fiscalità generale, le cui conoscenze sono a fondamento degli sviluppi applicativi.
    Peraltro oggi non si può più far finta di non sapere che la ricerca industriale dei presidi sanitari è fortemente distorta da interessi di mercato fino al punto di inventare malattie. Non sono certo i bisogni derivanti dagli stati di salute delle popolazioni umane che muovono le linee di sviluppo della ricerca industriale, la cui qualità è fortemente discutibile come i molteplici scandali che hanno coinvolto tutte le grandi multinazionali del farmaco (la cosidetta big pharma) stanno a testimoniare. E non va dimenticato che più della metà dei “costi” riguarda l’attività promozionale (che in definitiva si può a buon diritto considerare alla stessa stregua della corruzione, particolarmente infame se si pensa alla speculazione sulla sofferenza delle persone).
    Ritengo che la ricerca fondamentale ed applicata in campo sanitario dovrebbe essere “centralizzata” in molteplici centri internazionali finanziati dai governi, in numero sufficiente da stabilire una sana competizione, con rapporti ricchi con i centri di ricerca nazionali.
    Non solo i farmaci orfani impongono tale prospettiva.
    Infine, se la ricerca applicata porta a risultati interessanti sulla base di prove scientifiche (e non di imbrogli) non bisogna trascurare che solo la verifica scientifica postmarketing che deve vedere coinvolti attivamente i clinici (adeguatamente sostenuti da esperti epidemiologi) che si trovano ad operare in contesti di gran lunga più complessi di quelli che caratterizzano normalmente le ricerche premarketing, solo tale ricerca porterà a conoscenze consolidate. Con il corollario che se si vuole acquisire conoscenze fondate scientificamente (anche nel rimettere in discussione in tutto o in parte i risultati dell ricerca premarketing) è necessario che siano “esposti” tutti, nessuno escluso, dei potenziali beneficiari, cioè che ci sia sanita pubblica iniversale e gratuita in grado di coinvolgere tutti, andandoseli, se necessario, a cercare, ovunque si trovino nel mondo.
    E a proposito della sostenibilità dei sistemi pubblici, è opportuno ricordare che le risorse sprecate per interventi inappropriati o inutili o ineffici sono almeno un terzo del totale.
    Michele Grandolfo

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