Rom ed integrazione: il “modello spagnolo” è di esempio per l’Europa?
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- 13 Febbraio 2011
Fulvia Motta e Claudia Trevisani
È fondamentale ragionare sulle differenze tra le condizioni di vita e le caratteristiche dei diversi gruppi rom e come queste si incrociano con le differenti storie e politiche di welfare dei paesi che li accolgono.
All’inizio di dicembre, il New York Times ha pubblicato un articolo di Suzanne Daley e Raphael Minder [1] sul “modello spagnolo” di inclusione dei gitani, modello già da alcuni anni considerato a livello europeo come di successo e da imitare.
La pietra miliare di questo approccio si basa sulla natura universale e globale delle prestazioni sociali. In alcuni ambiti, come l’accesso ad un alloggio, il sistema ha beneficiato le famiglie rom, non per la loro condizione di gitani bensì perché cittadini con maggiori difficoltà.
L’altro pilastro del modello si basa sul mettere in atto misure parallele, specificatamente indirizzate alla comunità rom, per correggere gli svantaggi di partenza. Si sono sviluppate soluzioni adeguate alle esigenze dei rom in settori quali l’istruzione, l’alloggio, l’accesso al lavoro e la tutela della salute. Misure che perseguono un obiettivo di normalizzazione e non di segregazione.
Sintetizzando, i programmi si sono concentrati su questioni pratiche, quali l’accesso all’alloggio e ai posti di lavoro, adottando un approccio innovativo che ha puntato prima di tutto a migliorare il tenore di vita della popolazione gitana.
Secondo l’articolo, i risultati che oggi la Spagna può vantare, dopo trent’anni di programmi governativi, non sono di poco conto:
- il 92% dei gitani vive in appartamenti o case normali, e per circa la metà i Rom ne sono proprietari, a fronte del livello presente in molti paesi europei, in cui più di un terzo vive in appartamenti degradati se non addirittura in baracche[2]; appartiene alla stretta attualità, in Italia, la grave fragilità, anche in termini di rischio per la vita, che una sistemazione improvvisata e degradata comporta.
- Il 50% dei lavoratori rom già nel 2005 era regolarmente impiegato, a dispetto del “mito” che, quale “nomade”, un rom non può mantenere un impiego stabile.
- Praticamente tutti i bambini gitani sono iscritti alle scuole elementari , distribuiti nelle scuole di vicinato, e possono contare, negli istituti e nei servizi sociali, sulla presenza di mediatori che facilitano l’inserimento, mentre in alcuni paesi europei vengono addirittura collocati inclassi speciali per studenti con disabilità mentali .
L’impressione generale che si ricava dalla lettura dell’articolo è di una Spagna virtuosa che ha quasi completamente “risolto il problema” dei rom sul suo territorio e che potrebbe rappresentare un modello da perseguire. Gli autori, pur non nascondendo delle perplessità su come trasporre in altri paesi europei tale esperienza, poco approfondiscono questo aspetto.
La situazione in realtà è molto complessa. Vediamo insieme perché.
Una ragione centrale, anche se non l’unica, si trova nel fenomeno di dispersione che nei secoli ha interessato la popolazione rom: pur condividendo una radice comune, le migrazioni di questo gruppo umano hanno prodotto un mosaico di popoli 1 , uniti da origini comuni, cultura e in parte lingua, ma anche distinti per le loro differenti esperienze storiche e per l’impatto che ne è risultato sulla loro cultura[3].
Il secondo elemento su cui ragionare è che, malgrado la popolare associazione dei rom con il nomadismo, essi sono stati residenti stabili in molti dei paesi europei per centinaia di anni; sono piuttosto gli avvenimenti esterni, come ad esempio episodi di intolleranza o condizioni economiche sfavorevoli, così come le politiche locali di sgombero e allontanamento, che hanno impedito a molti gruppi rom di raggiungere la piena stanzialità.
Infine, l’ingresso nella UE nel gennaio del 2007 della Romania, Paese che ospita il gruppo più numeroso di rom in Europa e forse nel mondo, e la conseguente libertà di movimento delle persone, hanno determinato un’ulteriore fase di migrazione. Questi recenti avvenimenti politici non hanno portato ai rom una piena integrazione come cittadini europei, anzi, molti hanno sperimentato una forte stagnazione economica e il peggioramento delle proprie condizioni sociali, spingendo migliaia di essi a continui spostamenti intra-europei .
Da questa rapida carrellata si può dedurre come il “mondo” rom presente in ogni nazione europea sia molto eterogeneo : vi fanno parte cittadini residenti da secoli o da decenni, integrati nel tessuto sociale locale con maggiore o minore successo, spesso “invisibili” ad un occhio esterno in quanto non identificabili come rom; stranieri di vecchia o recente immigrazione, con grossi problemi a regolarizzare la loro permanenza in base alle legislazioni vigenti; persone che vivono in baraccopoli, ufficiali o spontanee, con servizi o senza; gruppi, piccoli e grandi, caratterizzati da alta mobilità sul territorio, che si accampano ovunque sia possibile (sotto i viadotti, nelle zone verdi abbandonate, lungo le rive dei fiumi, nei canneti, nelle grotte … a volte semplicemente sotto un albero) e vivono in uno stato di degrado estremo; famiglie che vivono in case mobili, muovendosi sul territorio per svolgere la loro attività lavorativa, o in “normali” abitazioni, in contesti di maggiore o minore integrazione con il territorio … Queste ed altre condizioni si possono combinare diversamente fra di loro, dando origine ad ulteriori differenze. Generalizzando, si può affermare che normalmente i rom in ogni nazione appartengono ai gruppi più svantaggiati e fragili, socialmente ed economicamente.
Tornando alla Spagna, la strategia di integrazione messa in atto si rivolge ai circa 700.000 gitani discendenti da coloro che arrivarono in Spagna nel 15°secolo, ovvero cittadini spagnoli da secoli che hanno profondamente contribuito alla definizione dell’identità spagnola, non da ultimo influenzandone la musica e la danza. Certo, fino a trent’anni fa si trovavano in condizioni peggiori di alcuni loro “omologhi” europei, quali per esempio i rom abruzzesi o i manouches francesi, da ultimo nel periodo della dittatura di Franco, quando erano oggetto di frequenti angherie da parte della Guardia Civil che li sgomberava a forza, costringendoli a vagare per il paese. Oggi, però, stanno recuperando la propria identità di cittadini a pieno titolo.
Ma può il resto d’Europa replicare il successo della Spagna?
Esistono vari ordini di problematiche da considerare:
- gran parte del buon lavoro della Spagna nell’integrazione dei rom trova le sue radici nella sua storia nazionale; al fine di garantire la stabilità in un paese diviso dai localismi, la Costituzione scritta dopo la morte di Franco ha voluto abbracciare le diversità, includendo tutte le etnie e le culture, proteggendo così i rom da un’esclusione di tipo istituzionale. Visto che i gitani nel 1980 erano la popolazione più povera, hanno beneficiato di maggiori risorse per la loro emancipazione. Inoltre, come già menzionato, nonostante secoli di emarginazione, i gitani sono parte integrante della cultura spagnola.
- Nei paesi dell’Europa occidentale dove si sono registrati i maggiori episodi di intolleranza istituzionalizzata degli ultimi tempi, quali la Francia e l’Italia, il problema principale viene identificato nei rom stranieri, comunitari e non, che hanno scarso accesso alle politiche sociali di sostegno alle categorie deboli, soprattutto per il loro status giuridico.
Prendiamo ad esempio le politiche sanitarie: in Spagna, trattandosi di persone con pieno diritto di accesso al servizio sanitario, ci si è potuti concentrare sulla partecipazione a tutti i livelli di intervento, dalla formazione del personale all’attenzione al diverso, alla promozione della mediazione culturale, etc. Al contrario, in Italia si lotta dal 2007 per l’accesso alle strutture sanitarie per i comunitari privi di tessera TEAM (Tessera Europea Assicurazione Malattia), come sono in pratica tutti i rom rumeni. D’altra parte è difficile trovare notizie, nei documenti ufficiali spagnoli, riguardo ai circa 20.000 rom rumeni di recente immigrazione, che in gran parte vivono ai margini della società. - Applicare questa strategia nei paesi dell’est Europa, quali la Romania e la Bulgaria, dove vivono comunità rom molto numerose e da dove si muove un esercito di emarginati, sembra ancora più improbabile. Sia perché i paesi di provenienza non appaiono capaci di amministrare politiche di sviluppo, ma soprattutto per il forte pregiudizio e rifiuto di cui i rom soffrono in quei paesi. Basti ricordare, come esempio significativo, la proposta presentata a metà dicembre dal governo rumeno a Bruxelles di cambiare unilateralmente il nome dei rom in ‘tigani’, adducendo la motivazione di “non creare confusione tra la minoranza etnica e la nazione romena”. Bisogna riconoscere che la questione dell’appropriatezza dei termini usati ha una base di realtà, come dimostrato per esempio dal bailamme mediatico e politico scatenato in Italia dalla cosiddetta ‘emergenza nomadi’, in cui i termini rom e romeni spesso identificano lo stesso gruppo. Ma nel caso specifico rumeno, già 15 anni fa, l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) aveva condannato la Romania per classificare la minoranza rom come ‘tigani’, termine che trova la sua radice etimologica nel greco e assume il significato di ‘intoccabile’ e, come se non bastasse, è direttamente legato ai secoli di schiavitù, violenze e privazioni subiti dai rom romeni.
- Chiave vincente del successo spagnolo è stata la decisione politica ed istituzionale che, a prescindere dal gruppo politico al potere, ha permesso di perseguire con costanza l’acquisizione per i gitani della piena cittadinanza . Nonostante sia unanimemente riconosciuto che l’impegno istituzionale è premessa necessaria per garantire una politica coerente e univoca ed un impegno nel lungo periodo, resta da vedere se esiste la volontà politica dei leader, nazionali e comunitari, di rischiare il proprio credito per difendere l’inclusione di una minoranza stigmatizzata e sistematicamente discriminata da gran parte dell’opinione pubblica.
- Non da ultimo va considerato il problema economico . Sempre l’articolo del NYT riporta che la Spagna prevede di spendere per la questione rom più di 130 milioni di dollari fra il 2007 ed il 2013, di cui 60 milioni provengono da fondi europei. Tralasciando il confronto fra i costi delle politiche di intolleranza, quali sgomberi ripetuti, espulsioni forzate, etc. messe in atto da alcuni paesi europei e quelli dei programmi di inclusione spagnoli, è importante segnalare che il 21 dicembre il Gruppo di Lavoro voluto dalla Commissione Europea per valutare come gli stati europei utilizzino i fondi della UE per ottenere l’integrazione economica e sociale della popolazione rom, ha presentato i primi risultati[4], segnalando che, anche se i fondi europei offrono un importante potenziale per rafforzare l’inclusione di questa minoranza, si registrano una serie di “colli di bottiglia” a livello nazionale, regionale e locale che ne limitano l’efficacia. Esistono carenze nello sviluppo di strategie locali e di misure specifiche, manca know-how e capacità amministrativa per assorbire i fondi comunitari, inoltre vi sono problemi relativi alla mancanza di appoggio da parte della società civile e di partecipazione delle comunità rom.
Sintetizzando: i soldi ci sono, ma sembra non ci sia la capacità di utilizzarli.
Se la lettura dell’articolo del NYT può lasciare un’impressione di ottimismo un pò semplicistico, non vorremmo che la lettura di questo post inducesse una sorta di eccessivo pessimismo: la situazione è complessa e per affrontarla servono strumenti altrettanto complessi e soprattutto non bisogna cadere in facili generalizzazioni. È fondamentale infatti ragionare sulle differenze tra le condizioni di vita e le caratteristiche dei diversi gruppi rom e come queste si incrociano con le differenti storie e politiche di welfare dei paesi che li accolgono, per individuare percorsi flessibili che tengano conto delle realtà specifiche.
Per noi che ci occupiamo di salute, il popolo rom presenta una doppia problematicità: soffre delle conseguenze sulla salute delle migrazioni, spesso caratterizzate da estrema povertà, ma anche delle conseguenze dell’emarginazione e della stigmatizzazione all’interno dei paesi di origine e di accoglienza. Sono, inoltre, persone che molto raramente sono messe in condizione di tutelare la propria salute con mezzi adeguati.
La sfida che ne deriva per la salute pubblica non è di poco conto.
Fulvia Motta. Responsabile Area Rom e Sinti, Caritas Roma. Società Italiana Medicina delle Migrazioni
Claudia Trevisani. Area Rom e Sinti, Caritas Roma
- Daley S, Minder R. In Spain, Gypsies Find Easier Path to Integration European countries are studying Spain’s model for Roma integration, which relies on housing and job assistance. The New York Times, 5 dicembre 2010
- European Union Agency for Fundamental Rights. FRA report. Housing conditions of Roma and Travellers in the European Union – Comparative report, 2009 [Il report è disponibile sul sito dell’Agenzia in formato PDF]
- Motta F, Monasta L, Geraci S, Marceca M. La salute di Rom e Sinti. In: Salute globale: In-FormAzione, 4°Rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale, Edizioni ETS, 2010 ( in print )
- European Roma Rights Centre (ERRC). Roma Integration: First Findings of Roma Task Force and Report on Social Inclusion. MEMO/10/701, 2010
1 In base a studi linguistici e all’identificazione dei gruppi sanguigni, è stato possibile stabilire che il popolo dei rom e sinti trae origine da un’unica etnia proveniente dall’India del nord. Fra il 250 e il 650 d.C., per motivi non ben conosciuti, i rom/sinti partirono alla volta della Persia; tra il XIV e il XV secolo si diffusero in tutta l’Europa. In mancanza di dati certi, le stime generalmente accettate indicano che fuori dal subcontinente indiano ci siano circa 15 milioni di Rom e Sinti; l’Unione europea (UE) ha diffuso nel 2008 la stima fra 9 e 11 milioni di Rom e Sinti che vivono sull’intero territorio europeo. La diffusione della popolazione rom in aree diverse del continente europeo ha comportato una diversificazione tra i gruppi che si fonda principalmente su una ripartizione costituita da Rom, Sinti, Kalé e Romanichals; ciascuno di questi gruppi contiene poi al proprio interno ulteriori suddivisioni[3].