La globalizzazione dei trial clinici
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- 21 Aprile 2011
Alice Fabbri, Chiara Bodini
Siamo di fronte a una nuova forma di colonialismo, che si manifesta imponendo di fatto la sperimentazione di farmaci in contesti nei quali le persone non hanno molti diritti né molte pretese.
La rapida crescita del mercato farmaceutico e la continua esigenza di innovazione stanno portando a una crescente richiesta di soggetti umani per la sperimentazione di nuove molecole, specialmente in Paesi a basso e medio reddito. Proviamo ad addentrarci in quella che può ormai essere definita “l’industria” dei trial clinici, per capire quali sono i meccanismi coinvolti nel trasferimento all’estero delle sperimentazioni, interrogandoci al tempo stesso sulla profonda complessità dei dilemmi etici emergenti nell’ambito della ricerca sui soggetti umani in questi contesti.
È innanzitutto opportuno domandarsi da dove origina la richiesta di numeri sempre maggiori di pazienti per le sperimentazioni di farmaci. In primo luogo, essa è legata al crescente numero di trial che vengono condotti. Anche se, a causa dell’assenza di un registro centralizzato, non si può che fare una stima di tale numero, è stato calcolato che, nei soli Stati Uniti e per l’anno 2002, esso si aggirasse intorno agli 80.000[1].
In secondo luogo, numeri sempre maggiori di pazienti devono essere inclusi nelle sperimentazioni su richiesta degli enti regolatori, al fine di testare la sicurezza dei prodotti oggetto di studio.
La seconda domanda da porsi riguarda le motivazioni per cui le industrie farmaceutiche cercano sempre più spesso di “esternalizzare” i propri progetti di ricerca. Una prima motivazione è riconducibile al tentativo di contenere i costi. Come riporta il Time in un articolo dell’agosto 2008, “vi sono attualmente circa 400 trial clinici in corso in India dove il valore di questo business è calcolato essere di 1-1,5 miliardi di dollari. Per le multinazionali del farmaco si tratta di una benedizione: il vasto pool di medici indiani qualificati e in grado di parlare inglese e il minor costo del lavoro rendono i trial clinici più economici del 50-60%”[2].
Oltre al taglio dei costi, Paesi come l’India offrono anche un risparmio di tempo. Secondo il sistema vigente, infatti, il brevetto per una nuova molecola viene rilasciato prima dell’inizio dei test clinici, che richiedono in media 7-8 anni per essere portati a termine. Questo lasso di tempo incide dunque significativamente sul periodo di reale sfruttamento del brevetto, pertanto è obiettivo dell’industria cercare di contenerlo il più possibile accelerando le sperimentazioni. Il reclutamento di pazienti risulta assai più semplice e veloce in Paesi a risorse limitate, dove la promessa di ottenere assistenza sanitaria regolare entrando in un trial clinico può rivelarsi particolarmente allettante per soggetti normalmente esclusi in ragione di barriere economiche, sociali, politiche e geografiche.
Vi è infine una terza interessante motivazione, sottolineata da Adriana Petryna, professoressa di antropologia all’Università della Pennsylvania e autrice del libro “When experiments travel”: nei Paesi occidentali, il pool disponibile di soggetti umani da inserire nei trial è in diminuzione. Le nostre popolazioni sono infatti sempre più esposte a moltissimi prodotti farmaceutici, e risultano pertanto poco adatte alle sperimentazioni a causa dell’elevato rischio di interazioni farmacologiche[1].
Gli aspetti descritti sono alcuni dei principali “motori” che rendono ragione dell’attuale sempre più spinta globalizzazione dei trial. Tuttavia, sarebbe errato considerare l’outsourcing come un fenomeno del tutto recente; fin dagli anni Settanta, infatti, le industrie farmaceutiche statunitensi hanno iniziato a internazionalizzare il reclutamento di soggetti umani per le proprie sperimentazioni come risposta alle limitazioni della possibilità di fare ricerche sui prigionieri. E’ stato stimato che, prima del 1970, ben il 90% dei farmaci brevettati sia stato inizialmente testato proprio sulla popolazione carceraria[1].
Attualmente, quello dell’outsourcing è un fenomeno in crescita anche sotto il profilo economico: tra gli attori principali troviamo le cosiddette “organizzazioni di ricerca a contratto” (Contract Research Organisations, CRO). Si tratta di società a scopo di lucro che si occupano di organizzare e condurre sperimentazioni per conto dell’industria. E’ stato stimato che, nel 2001, il numero di CRO fosse intorno a mille, con entrate dalle società farmaceutiche loro clienti pari a circa 7 milioni di dollari[3]. Le CRO offrono una vasta gamma di servizi relativi alla ricerca in campo clinico-farmaceutico e promettono soprattutto un veloce ed efficiente “reclutamento” di soggetti umani. Le grandi metropoli dell’Africa e dell’America Latina sono, in questo senso, un ottimo sito, perché in uno spazio relativamente limitato consentono di raggiungere una grande quantità di soggetti. Come indicato sopra, le popolazioni del Sud del mondo sono inoltre particolarmente “ambite” perché molto meno esposte a trattamenti farmacologici rispetto alle popolazioni dei Paesi occidentali (la scarsa disponibilità di farmaci, anche per patologie comuni, rende questi soggetti privi di un significativo background farmacologico, che potrebbe interferire con i risultati della ricerca). Per comprendere l’entità che il fenomeno dell’outsourcing ha raggiunto, basta citare che – ad oggi – circa un terzo delle sperimentazioni sui farmaci delle venti principali industrie farmaceutiche viene effettuato all’estero, in Paesi a reddito medio-basso[4].
Sono tuttavia numerose anche le voci critiche che si stanno sollevando, all’interno della comunità scientifica internazionale, in merito a questo fenomeno. Innanzitutto, in Paesi nei quali il diritto all’assistenza sanitaria e l’accesso ai farmaci sono estremamente limitati per vaste fasce di popolazione, quanto può essere ritenuta una “libera scelta” quella di partecipare a una sperimentazione? In questi Paesi, molte persone decidono di entrare in un trial clinico perché questa rappresenta l’unica strada aperta per ricevere attenzione sanitaria. Se a ciò si aggiunge che ci possono essere incentivi finanziari alla partecipazione, la situazione che si configura è al limite dello sfruttamento, o della coercizione.
Inoltre, come sottolinea Gaia Marsico nel suo libro “La sperimentazione umana”, numerose altre criticità di natura etica emergono in questi contesti. Innanzitutto, l’utilizzo in alcuni casi improprio del placebo nel gruppo di controllo, nonostante la Dichiarazione di Helsinki affermi che solo in assenza di un trattamento efficace si potrà ricorrere al confronto con placebo e richieda inoltre esplicitamente che i gruppi di controllo ricevano il miglior trattamento corrente e non quello localmente disponibile[5]. A questo proposito Marcia Angell, ex direttrice del New England Journal of Medicine, afferma che “il passaggio dal termine ‘migliore’ al termine ‘locale’ può apparire minimo, ma le implicazioni sono profonde. L’accettazione di questo relativismo etico potrebbe portare ad uno sfruttamento diffuso delle popolazioni vulnerabili del Terzo Mondo per programmi di ricerca che non potrebbero essere realizzati nei Paesi che sponsorizzano tali ricerche”[6].
Altre questioni di grande rilevanza sono: l’inclusione di persone non adeguatamente informate sui rischi connessi all’utilizzo del farmaco e la possibilità di avere accesso alle terapie una volta che lo studio è terminato. Infatti anche se la Dichiarazione di Helsinki afferma che, una volta terminata la sperimentazione, deve essere garantita ai partecipanti la possibilità di beneficiare dei risultati della ricerca, i pazienti spesso vengono utilizzati come cavie per testare prodotti che verranno poi commercializzati solo nei Paesi occidentali.
Quelle sollevate da Gaia Marsico e da Marcia Angell sono quindi questioni di fondamentale importanza, in quanto in passato è accaduto troppe volte che si scegliessero popolazioni povere per realizzare con disinvoltura sperimentazioni che non sarebbero state approvate nei paesi sponsor[5].
Numerosi sono i casi che dovrebbero farci riflettere: tra gli esempi più drammatici vi sono sicuramente quelli legati alla sperimentazione dei farmaci antiretrovirali(1), ma anche il caso della ricerca della Pfizer in Nigeria sull’antibiotico Trovan nell’epidemia di meningite del 1996(2).Questi casi sono stati resi possibili grazie a una catena di complicità, ma anche all’assenza di agenzie regolatorie attrezzate e formate per monitorare i trial a livello mondiale.
Secondo un’inchiesta condotta su 700 sperimentazioni dall’Associazione Medica Americana e pubblicata sul Journal of Medical Ethics nel 2004, “meno di 6 su 10 protocolli di ricerca in Paesi in Via di Sviluppo vengono revisionati da un comitato etico”[7]. Un articolo pubblicato su Trials nel 2008 afferma che in Cina solo uno studio su 10 ottiene una revisione da parte di un Comitato Etico[4]. Ancora, nel 1999 l’Office of Inspector General, un organismo che effettua periodiche revisioni della Food and Drug Administration (FDA), ha pubblicamente dichiarato che l’FDA non era in grado di garantire la protezione di soggetti coinvolti in ricerche all’estero.
Il problema dell’outsourcing emerge dunque come una questione che merita urgente attenzione da parte della comunità scientifica e della società civile internazionale in quanto, anche in presenza di linee guida, regolamentazioni e leggi internazionali e locali, non è ad oggi chiaro se e come queste siano (e possano essere) effettivamente implementate. Le voci più critiche, affatto prive di fondamento, parlano dell’outsourcing come di una nuova forma di colonialismo, che si manifesta di fatto imponendo la sperimentazione di farmaci in contesti nei quali le persone non hanno molti diritti né molte pretese. Come afferma Gaia Marsico, mai come ora la sperimentazione rappresenta un “osservatorio sulle possibilità e le contraddizioni della medicina”[5].
A livello più generale, non può non farci profondamente riflettere il fatto che, sempre di più, le speranze per i progressi della medicina – i cui benefici, è noto, sono iniquamente distribuiti a vantaggio di una parte della popolazione mondiale, ovvero quella in grado di acquistarli, direttamente o tramite i propri governi, sul mercato internazionale della salute – dipendono dalla disponibilità dei poveri del mondo a prestare i propri corpi alle sperimentazioni. Ironia della sorte, corpi preferiti proprio perché a lungo esclusi da quei benefici e progressi che ora contribuiscono a creare.
Alice Fabbri e Chiara Bodini, Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale, Università di Bologna
- Petryna A. Ethical variability: drug development and globalizing clinical trials. American Ethnologist, 2005; 32: 183-197.
- Singh M. Should clinical trials be outsourced? Time, 7 Agosto 2008.
- Angell M. Farma&Co. Industria farmaceutica: storie straordinarie di ordinaria corruzione. Il Saggiatore; Milano 2006.
- Sharma D. Outsourcing Big Pharma. Health affairs, 2010;29:3.
- Marsico G. La sperimentazione umana. Diritti violati/diritti condivisi. Franco Angeli, Milano 2010.
- Angell M. The ethics of clinical research in the thirld world. NEJM 1997; 337: 847-49.
- Hyder AA et al. Ethical review of health research: a perspective from developing country researchers. J Med Ethics 2004;30:68-72.
- Questa vicenda è accuratamente descritta nel seguente articolo: Lurie P, Wolfe SM. Unethical trials of interventions to reduce perinatal transmission of the human immunodeficiency virus in developing countries. NEJM 1997; 337: 853-6.
- Il Caso Trovan è ampiamente descritto in un articolo intitolato “I cacciatori di corpi: l’inquietante vicenda del Trovan” scritto da Giovanni Peronato e disponibile sul sito www.nograziepagoio.it
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