Perché le cure domiciliari

Paolo Da Col

Per curare di più a casa occorrono team multidisciplinari e servizi multiprofessionali integrati, continuativi, attivi tutti i giorni, nelle 24 ore per la parte sanitaria e  nelle 12 ore per quella socioassistenziale.


Sono tempi di analisi, scelte e decisioni. Le restrizioni finanziarie ci espongono al rischio di cadute dei servizi di cura alla persona. Ci si interroga sulla “buona sanità”, che rientra tra le aspirazione di tutti:  cittadini-utenti-pazienti, professionisti, amministratori, decisori politici. Sul tema continuano ad accumularsi idee e dibattiti, proposte e riflessioni, attraverso pubblicazioni, convegni, documenti, ricerche, riflessioni. Prolifica la letteratura sulle valutazioni e sull’evoluzione del sistema sanitario e sociosanitario, e più in generale le proposte di riassetto dei sistemi di welfare.

Attualmente la prima preoccupazione unanime è sulla sostenibilità economica; diffusa quella sull’efficienza-efficacia dei servizi.

Spicca tuttavia un tema “orfano”: l’attuale inadeguatezza-insufficienza delle cure domiciliari.  Molto si è scritto sulle cure a casa, ma molto meno è stato realizzato, sia per quella di tipo sanitario che socioassistenziale. In molti luoghi del Paese queste sono infatti assenti o irrilevanti. Dappertutto prevale l’assistenza informale su quella formale. Anche in realtà considerate “avanzate” (Regioni o Comuni), queste pratiche continuano ad essere dotate di insufficienti risorse e concrete attenzioni, permanendo così vere “Cenerentole” dei servizi, con drammatiche ripercussioni su persone e famiglie. Si assiste da anni ad una ormai palese ed insopportabile dissociazione tra assunti teorici, anche legislativi, e pratiche reali; tra intenzioni dichiarate ed azioni concrete.

In questa fase di continua evoluzione  e ricerca di ridefinizione dei servizi occorre riportare il tema delle cure a casa al centro dell’attenzione e, soprattutto, decisamente invertire la rotta nelle scelte, decisioni ed allocazioni di risorse.

Scopo di questa nota è tentare di offrire una sintesi tascabile dei motivi. Occorrono strumento comunicativi molto sintetici per diffondere  consapevolezza, consenso e condivisione. Le cure a casa devono poter risalire al primo posto tra le priorità di programmazione ed attuazione: nella pubblica opinione, tra i decisori politici e gli amministratori, tra tutti i professionisti che operano nelle diverse aree di cura alla persona, sanitaria, sociosanitaria e socioassistenziale; nel mondo dell’assistenza formale-istituzionale ed informale.

 

Si  riassumono di seguito venti principali motivazioni; seguono poi alcuni dati essenziali di supporto.

  1. Essere curati a casa, di più e meglio per qualità e quantità, rappresenta oggi un bisogno reale per moltissime persone.
  2. Rimanere il più a lungo possibile a casa è la più grande aspirazione di queste migliaia di cittadini con malattie di lunga-lunghissima durata.
  3. Essere curati a casa è un diritto della persona e dei suoi familiari.
  4. Curare a casa è dovere delle istituzioni pubbliche ed interesse della collettività.
  5. Curare a casa, di più, conviene all’amministrazione pubblica e ai contribuenti, perché a parità di bisogno e di risultato può essere spesso più efficace e meno costoso che in ospedale o in residenza.
  6. La casa delle buone cure a casa è il distretto. Il distretto deve essere per questo dotato di risorse e strumenti adeguati, con la responsabilità di organizzare percorsi di presa in carico unitaria coordinata e continuativa. Cure domiciliari integrate e distretto devono costituire per tutti un binomio inscindibile di pensiero ed azione (al pari di “pronto soccorso-ospedale”).
  7. Più cure a casa devono essere offerte e ottenute in tre attuali emergenze, colpevolmente ancora scoperte: le fasi ultime della vita; la demenza senile; l’infanzia a rischio di abbandono familiare.
  8. Per curare di più a casa occorrono team multidisciplinari e servizi multiprofessionali integrati più forti, continuativi, attivi tutti i giorni, nelle 24 ore per la parte sanitaria e  nelle 12 ore per quella socioassistenziale.
  9. Curare a casa, di più e meglio,  rappresenta un’eccellente alternativa ai ricoveri impropri in ospedale e contribuisce fortemente a renderlo più efficiente. Il buon funzionamento dell’ospedale sta a cuore a tutti, e per questo occorrono circuiti di cure domiciliari meglio strutturati e dotati.
  10. Essere curati a casa fa sentire meno sole le persone e più vicine le istituzioni.
  11. Servizi più forti a casa, anzichè più soldi o contributi, rendono più credibili le istituzioni pubbliche, che in questo modo  dimostrano al meglio di riconoscere lo straordinario lavoro di cura svolto oggi dalle famiglie.
  12. La buona sanità entra con discrezione nelle case e per sua natura questo è intervento sanitario ad alto valore umano; le auspicate qualità di umanizzazione e personalizzazione delle cure risultano più probabilmente espresse in quelle domiciliari rispetto ad altre di pari scopo (il bene della persona). Curare a casa comporta infatti un approccio olistico, capacità di ascolto, vicinanza, comprensione, flessibilità, tenacia, programmi personalizzati di continuità assistenziale.
  13. Rafforzare le cure integrate a casa si accompagna, in premessa ed in esito, a virtuosi cambiamenti culturali, nella gente e negli operatori, a nuovi modi di leggere la realtà,  al progresso delle scienze umane, non solo mediche, con impatto positivo per sani rimodellamenti della società.
  14. Essere curati a casa è provato scientificamente può assicurare, rispetto ad altri luoghi di cura, più pronta ripresa, migliore qualità di vita, anche e soprattutto nel lungo termine.
  15. Curare a casa i vecchi vuol dire voler bene davvero ai vecchi ed evitarne o ritardarne l’ingresso in casa di riposo (contemporaneamente impegniamoci tutti per evitare che divengano case di pre-eterno riposo).
  16. Curare di più a domicilio contrasta il consumismo sanitario e le ambizioni produttive dei “prestazionifici sanitari”; eleva il grado di responsabilizzazione di individui e famiglie, operatori ed imprese; pone il distretto al centro della rete dei servizi.
  17. Qualificare reti integrate di cura a casa crea nuovi posti di lavoro nobile; agevola l’impresa e la cooperazione sociale; apre nuovi spazi alla sana imprenditoria privata, a sue vantaggiose riconversioni; promuove l’innovazione e la ricerca (ad esempio nella teleinformazione e nella telemedicina); stimola il progresso delle professioni esistenti, nuove professionalità e forme di impiego; consente di coniugare assistenza e sviluppo socio-economico senza generare nuovi centri di poteri forti.
  18. Curare di più a casa evita insostenibili mega-investimenti/insediamenti per nuovi edifici di ricovero; fa circolare risorse ed energie positive per più confortevoli tipologie abitative; qualifica nelle città e nei territori nuovi habitat, patrimoni durevoli di più facile e amichevole utilizzazione per tutti (non solamente per i disabili).
  19. Curare di più e meglio a casa le persone arricchisce le comunità locali, ne accresce il capitale umano e sociale.
  20. Curare ed essere curati a casa è atto di democrazia: testimonia la presenza di buoni pensieri e buone azioni che proteggono la scelta della libertà e non solo la libertà di scelta.

Alcuni dati per orientarsi
A supporto delle affermazioni soprariportate, alcune fonti ampiamente indicative consentono di acquisire consapevolezza delle questioni cruciali [1-6].

Da queste, in estrema sintesi, si traggono alcune considerazioni la cui importanza è autoevidente. Descrivono i problemi maggiori ed il divario con le soluzioni/risposte oggi in atto:

  • L’andamento demografico[4]è implacabile: gli ultra65enni al censimento 2001 rappresentavano il 18,7% della popolazione totale (età media della popolazione totale 41,4; indice di vecchiaia 131,4); tra 10 anni (2021) saliranno al 23,9% (45,7 età media, indice di invecchiamento 188,9). In pratica a breve ci ritroveremo con un cittadino su quattro che richiederà i servizi propri di quell’età; si sottolinea che la metà di questi anziani avrà varcato la soglia dei 75 anni, collocandosi quindi in fasce di bisogno e dipendenza molto elevate.
  • La larga maggioranza degli italiani abita in case di proprietà; infatti solamente il 13% della popolazione paga un canone; tuttavia, il 10% non ha un riscaldamento adeguato e nel 19% delle abitazioni si riscontra importante umidità[4]. Resta il fatto che questo patrimonio abitativo, con i limiti  correggibili, dovrebbe incoraggiare la diffusione delle cure a casa e scoraggiare il proliferare di residenze.
  • Le famiglie, incluse le assistenti familiari, continuano a sopportare il carico prevalente di cura di persone anziane nonautosufficienti[2,4], con una copertura formale dei  bisogni prevalenti minima, nel range del 5-10%, considerando singolarmente voci quali l’aiuto domestico, l’organizzazione dell’assistenza, il sostegno psicologico, l’assistenza sanitaria, la mobilità ed i  trasporti, l’assistenza personale, il sostegno finanziario[4].
  • La stima dei potenziali care giver (popolazione 50-79 anni su > 80enni nonautosufficienti) mostra un trend drammaticamente decrescente: anno 2005=21,88; 2015=17,35; 2035= 12,02)[2] Un cittadino ultra65enne su sei  – dieci  al nord –  dispone oggi di una “badante” 2 (7% in media in tutto il Paese), valore che sale al 48% delle persone nonautosufficienti; in media queste assistenti lavorano in casa per 5 hr/die. La spesa privata per  questo “esercito” di assistenti familiari (stima: 774.000 “badanti” attive, 700.000 straniere)  ammonta a circa 10 miliardi di €/anno[2]. Un contratto di 54 ore/settimana vale circa 25.000 €/anno[2,5]. Questa ingente spesa privata equivale al 10% della spesa sanitaria pubblica ed è all’incirca equivalente a quanto stanziato dallo Stato per le indennità di accompagnamento[2,5]. Va notato che la crescita del fenomeno è stata imponente[5]: nel 1991 le “badanti” erano 180.000, nel 2009 760.000. Si osserva quindi una vera risposta di “mercato” certamente non proporzionale a quelle delle istituzioni.
  • La diffusione dei servizi domiciliari in Italia è molto ridotta rispetto all’Europa settentrionale (4,9% vs 13%), che impegnano un quarto delle risorse del long term care, l’1,08% della spesa sanitaria. Mediamente, questi servizi raggiungono il 5% della popolazione anziana (vs 9,5% in Germania, 7,9% in Francia, 7,1% in Regno Unito)[2].
  • La scarsa forza delle cure domiciliari è ubiquitaria[2,4]. Anche in Regioni “ricche” (es. Lombardia), l’assistenza domiciliare sanitaria (ADI delle ASL) copre appena il  4,7% del totale degli ultra65enni, salendo al 30% degli anziani non-autosufficienti[2,4]; l’assistenza domiciliare di parte sociale (SAD) non supera il 2% (1,7%) negli anziani in generale  e l’11,1% dei non-autosufficienti[3].
  • Negli ultimi 10 anni  si sono verificati fenomeni allarmanti [2,4]:
  1. l’utenza anziana in ADI  è salita da 1,9% (2001) a 3.3% (2008), ma in media sono calate le ore totali /anno di assistenza pro capite: da 26 (2002) a 22 (2006), con. disuguaglianze clamorose tra le regioni  (range 7-177ore)3].Appare clamorosa questa associazione inversa tra ampiezza della copertura e intensità dei servizi e permane apparentemente inconsistente il tempo di cura istituzionale.
  2. l’utenza in SAD è rimasta stabile: intorno a 1.6-1.8%, con una spesa media nel 2006 di 1.646 euro per utente , pur con ampio divario regionale (605 €/p.c. in Calabria; 4.500 in Valle d’Aosta)[2,3].
  3. la reale assistenza domiciliare integrata riguarda solamente 8,2 per mille anziani, ed è in diminuizione [3].
  • La percentuale di Pil nel nostro Paese dedicato ai servizi domiciliari è pari allo 0,29; all’assistenza continuativa (servizi domiciliari,residenziali e indennità di accompagnamento) all’ 1,18; al welfare  è destinato il 26% .La percentuale di spesa sanitaria destinata all’ADI è pari all’ 1,08, con range 0,3-3% nelle diverse regioni[3]. Il dato è confermato anche da una recente ricerca FIASO-Cergas Bocconi [6]. Dunque, con modesti investimenti sarebbe facile raddoppiare le risorse e le potenzialità operative dell’assistenza domiciliare.
  • Nella long term care da sempre in Italia erroneamente si privilegiano i trasferimenti  monetari  (42%) anzichè i servizi, a differenza di quanto avviene in Paesi come la  Germania (24%) o la  Norvegia (14% )[2]. Nel 2010 le indennità di accompagnamento (utenza da 5,5% della popolazione anziana del 2001 a 9,5% del 2008) raggiungeranno una spesa superiore a 12,5 miliardi di euro (7,5 nel 2002), di cui 11 miliardi stimati per anziani nonautosufficienti [3].   La percentuale di ultra65enni percettori dell’indennità oscilla dal 2,1% tra 65 e 69 anni a 23,8% oltre 80 anni[4]. Ci si chiede se quanto e come sia possibile riconvertire queste risorse verso servizi istituzionali.

In conclusione, urge potenziare quest’area di cura e ancor più dirimere le profonde disuguaglianze territoriali.

Paolo Da Col. Direttore Distretto n.1, Azienda per i Servizi Sanitari n.1 “Triestina” – Trieste

 

Bibliografia

  1. Marco Geddes – Rapporto sulla nonautosufficienza in Italia. Saluteinternazionale.info 18.11.2010
  2. Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Rapporto sulla non autosufficienza in Italia, 2010. [PDF: 7,0 Mb].
  3. RELAZIONE NETWORK NA. L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. 2° Rapporto promosso dall’IRCCS-INRCA per il Network nazionale per l’invecchiamento, 2010.  [PDF: 1,43 Mb].
  4. Rapporto Nazionale 2009 sulle “Condizioni ed il Pensiero degli Anziani: una società diversa. Sintesi [PDF: 1,3 Mb].
  5. Sergio Pasquinelli, Giselda Rumini.  Badanti: la nuova generazione. Caratteristiche e tendenze del lavoro privato di cura. Novembre 2008  [PDF: 659 Kb].
  6. Il Governo del territorio delle aziende sanitarie: risultati dal laboratorio di ricerca della FIASO. Fotografia dei servizi territoriali delle AUSL

2 commenti

  1. Spett.le Direttore Paolo Da Col

    posso rispondere al suo articolo con una domanda?
    Che cosa intende per Cura Domiciliare?
    Le prestazioni connesse alle attività di cura domiciliare variano in funzione della tipologia di profilo di cura, in particolare vi sono:
    cure domiciliari di tipo prestazionale occasionale;
    cure domiciliari Integrate di primo e secondo livello;
    cure domiciliari integrate di terzo livello;
    cure domiciliari palliative a malati Terminali;

    Sono una studentessa di terapia occupazionale e la mia figura professionale si occupa proprio, tra i vari obbiettivi riabilitativi, del reinserimento domiciliare del paziente.
    Si possono prospettare due tipologie differenti di rientro nella vita giornaliera, condizionate dalle necessità del paziente:
    un rientro, con o senza ausili, nel proprio domicilio
    od un rientro, con o senza ausili, al proprio domicilio MODIFICATO. Durante la degenza, in tempi congrui, vengono prospettati al pz. ed ai suoi familiari/rete sociale di supporto dei pacchetti di servizi a costi prefissati, miranti a disponibilizzare un appartamento
    congruo alle nuove esigenze ed una struttura sociale pronta ad accogliere l’utente per facilitarne il rientro domiciliare.

    Un periodico follow-up (effettuabile in regime mutualistico su richiesta del medico di base condizione: “visita specialistica”) permetterà l’adozione di ulteriori correttivi rispetto a necessità
    evidenziate al rientro domiciliare. In questa verifica sarà opportuno il coinvolgimento, attorno al
    paziente, di tutta l’équipe riabilitativa e della rete sociale,soprattutto la FAMIGLIA. Tutti difatti siamo, o dovremmo, essere
    divenuti consapevoli del fatto che la propria professionalità si può esplicare e concretizzare appieno
    solo nel vero lavoro di gruppo. La ricostruzione della qualità e della dignità di vita di una persona è un
    impegno che può essere affrontato solo con il contributo di molte competenze, tutte sempre rispettose
    le une delle altre pur nel riconoscimento di un’organizzazione chiara delle responsabilità.

    Il Terapista Occupazionale è quindi l’operatore sanitario che, in possesso del titolo abilitante all’esercizio della professione, conseguito nelle forme e con le procedure previste dalle norme legislative e regolamentari, opera nell’ambito della prevenzione, cura e riabilitazione dei soggetti affetti da malattia e disordini fisici, psichici sia con disabilità temporanee che permanenti, utilizzando attività espressive, manuali-rappresentative, ludiche, della vita quotidiana.
    Esse non sono mai proposte a caso, ma selezionate e graduate attentamente secondo i bisogni e desideri del paziente. Inoltre vengono tenute in considerazione componenti come l’età, la malattia, e il contesto sociale dell’individuo.
    La Terapia Occupazionale si realizza attraverso interventi specifici, autonomi e complementari, di natura tecnica, relazionale e educativa.
    Tramite l’osservazione e l’analisi della performance occupazionale della persona, il terapista occupazionale valuta ed elabora il programma riabilitativo del paziente per favorirne la partecipazione nella vita quotidiana, intervenendo anche sugli ambienti di vita, come il proprio domicilio, la scuola o il posto di lavoro. Prende in carico (in cura) la persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell’individuo.
    I Terapisti Occupazionali impegnati a promuovere l’abilità dell’uomo ad autogestirsi nel suo ambiente di vita e di lavoro, svolgono una funzione peculiare, in diretto rapporto con il paziente e la sua famiglia.
    Il recupero non si limita solo alle funzioni compromesse, ma vuole coinvolgere tutti gli aspetti di una persona: il corpo, la mente e la relazione.

    In Italia quindi questo tema non è del tutto lasciato orfano, solo che esiste, ahimè, molta disinformazione e professioni “nobili” come lei dice, rimangono spesso sconosciute a molti. Nonostante facenti parte dell’equipe medica.

    Distinti saluti,
    Lucia

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