HIV/Aids in Cina
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- 9 Maggio 2011
Daniele Brombal, Martina Bristot, Giorgio Cortassa
L’atteggiamento delle autorità cinesi rimane contraddittorio: da un lato i media governativi dedicano grande spazio a notizie e informazioni tese a combattere lo stigma, dall’altro i sieropositivi trovano difficoltà nel vedere garantiti i propri diritti.
Premessa
L’interno del karaoke è avvolto nella penombra. Sono le quattro del pomeriggio e le ragazze che lavorano come prostitute nel locale arrivano una a una nella stanza comune adibita a spogliatoio. La dott.ssa Wang[1] del Centro per il Controllo delle Malattie Infettive (CDC, Center for Disease Control) distrettuale ferma alcune ragazze: “Avete un paio di minuti? Siamo del CDC, vi vorremmo fare alcune domande sul vostro stato di salute e prelevare un campione di sangue, che ne dite?” Alcune ragazze si fermano, una buona metà se ne va via. La dott.ssa Wang sospira: “Come vedi facciamo quello che è possibile… sono pochi i luoghi di intrattenimento in cui ci viene dato il permesso di entrare e lavorare in sicurezza, e anche in questi posti molte ragazze si rifiutano di farsi prelevare il sangue. Nonostante le nostre rassicurazioni sull’anonimato dei risultati, hanno paura che nel caso in cui risultassero positive all’esame per HIV qualcuno potrebbe venirlo a sapere”[2].
Diffusione del virus 1985-2010
Il primo caso di HIV diagnosticato in Cina risale al giugno 1985 (cittadino statunitense in viaggio a Pechino). Negli anni immediatamente successivi, i dati ufficiali mostrano una lenta progressione del virus, limitata ad alcune decine di casi, in genere stranieri o emigranti cinesi di ritorno dall’estero (in totale 22 casi di HIV/Aids complessivi sino al 1988). I primi casi propriamente “cinesi” vengono registrati sul finire degli anni Ottanta in categorie ad alto rischio quali prostitute, lavoratori migranti e tossicodipendenti[3]. Nell’ottobre 1989, 146 eroinomani vengono trovati positivi all’HIV nella provincia dello Yunnan, ai confini con la Birmania[4]. Gli anni Novanta sono caratterizzati dal diffondersi dell’epidemia fra i “venditori di sangue” nelle aree rurali dove, sull’onda del processo di commercializzazione del sistema sanitario[5], le autorità locali avevano fornito quadro normativo e supporto logistico alla raccolta del plasma a pagamento attraverso centrali mobili. Scarsissime precauzioni (quali assenza di sterilità e mancanza di controlli sui venditori) e ignoranza (il sangue dei contadini era ritenuto “pulito”) provocarono la rapida diffusione del virus nella provincia di Henan, Hubei, Anhui e Hebei. A causa degli interessi coinvolti (spesso funzionari locali erano proprietari o soci di alcuni centri di raccolta del sangue e/o legati alle aziende produttrici di farmaci emoderivati) la vicenda, pur nota sin dalla metà degli anni Novanta, fu per lungo tempo avvolta nel massimo riserbo, con conseguenze devastanti[6].
Nella prefettura di Fuyuan (provincia dello Anhui) nel 1996, la prevalenza di HIV tra i contadini che avevano venduto il sangue era del 12,5%[7]. Nello Henan la situazione era ancora peggiore: nel 1997 nel villaggio di Houyang si contavano già 160 morti e oltre 100 malati di Aids su 4500 abitanti; esami condotti nello stesso villaggio su 54 contadini venditori di sangue, mostravano che 49 di loro avevano contratto l’HIV[8].
Secondo dati resi pubblici dalle autorità cinesi, nel novembre 2010 il numero totale di sieropositivi censiti era di 370.000, con oltre 130.000 malati di Aids (di cui 80.000 al momento sotto trattamento ARV)[9]. Secondo stime redatte dalle stesse autorità cinesi e condivise con le agenzie preposte delle Nazioni Unite (WHO, UNAIDS), il numero totale di sieropositivi in Cina si aggirerebbe intorno a 740.000, con circa 48.000 nuovi casi all’anno. Tra i veicoli di contagio più diffusi figurerebbero rapporti eterosessuali (42%), rapporti omosessuali (33%), uso endovenoso di droghe (24%), trasmissione madre-figlio (1%)[10]. Secondo una ricerca condotta dal CDC dello Hunan (provincia della Cina centro-meridionale, con 60 milioni di abitanti) nel 2010, le categorie a maggiore rischio sarebbero quelle degli omosessuali (3,12% HIV+) tossicodipendenti (2,28% HIV+) e prostitute (0,33% HIV+)[11].
Approccio governativo: da virus importato a rischio autoctono
L’abolizione del divieto d’ingresso in Cina per gli stranieri sieropositivi, entrata in vigore nell’aprile del 2010[12], ben rappresenta la parabola dello sviluppo delle politiche governative cinesi su HIV/Aids. Le restrizioni all’ingresso di stranieri sieropositivi rimanevano infatti il più forte retaggio legislativo di un’epoca (metà anni Ottanta) in cui il virus dell’HIV veniva identificato come qualcosa di esogeno rispetto alla Cina, importato dagli stranieri che in numero sempre maggiore varcavano i confini del paese.
In altri termini, il virus veniva considerato da ampi settori dell’élite al potere come il portato di una cultura e di abitudini, quelle occidentali, caratterizzate da promiscuità e dubbia moralità, secondo l’equazione: cultura straniera (occidentale) => costumi di vita stravaganti e promiscui => diffusione di malattie. Non sorprende, dunque, che le Norme sulla gestione e il monitoraggio dell’Aids[13], approvate dal Consiglio di Stato nel dicembre 1987, si concentrassero nel definire misure atte a controllare i flussi di cittadini in entrata nel paese, proibendo l’ingresso a sieropositivi e malati e prevedendo meccanismi di espulsione di quanti diagnosticati come sieropositivi durante la loro permanenza in Cina. Gradualmente, i casi di infezione “autoctoni” spingono le autorità cinesi a sviluppare una visione più complessa del fenomeno: sulla scorta delle informazioni relative alla diffusione del virus fra tossicodipendenti e prostitute, sul finire degli anni Ottanta le autorità investono considerevoli risorse nel potenziamento delle operazioni di pubblica sicurezza a contrasto di prostituzione e consumo di stupefacenti.
Con il venire alla luce, sul finire degli anni Novanta, del disastro legato alla vendita di plasma nelle campagne, l’attenzione di Pechino si sposta sulla regolamentazione delle procedure di raccolta del sangue. Nel settembre 1998 entrano in vigore le Modalità di gestione per le stazioni di raccolta del sangue [14], che stabiliscono linee guida per la supervisione da parte delle autorità sanitarie.
La frammentarietà dell’approccio delle istituzioni cinesi alla questione HIV/Aids, andato evolvendosi mano a mano che le scarse (e incomplete) notizie sulla diffusione del virus arrivavano a Pechino, viene sostituita da una maggiore coerenza all’inizio del nuovo millennio. A partire dal 2003, l’azione governativa viene strutturata attorno a cinque linee guida, generalmente riportate nelle fonti in lingua inglese con la dizione Four Frees and One Care, ovvero:
- erogazione gratuita del trattamento ARV per malati di Aids residenti in aree rurali e/o senza copertura assicurativa medica;
- erogazione gratuita di servizi di consultorio, comprensivi di test HIV;
- erogazione gratuita di farmaci per prevenire trasmissione virus HIV madre-bambino;
- educazione primaria gratuita per orfani a causa di Aids e bambini i cui genitori sono sieropositivi;
- assistenza economica straordinaria per le famiglie con componenti sieropositivi.
I provvedimenti legislativi riguardano anche la lotta alla discriminazione e lo stigma associato alla malattia. Nelle Regole sulla prevenzione e cura dell’Aids[15], che nel 2006 forniscono cornice legislativa all’azione del governo per la lotta all’Hiv/Aids, si fa esplicito riferimento al fatto che “i diritti in termini di matrimonio, impiego, ricorso alle cure mediche, accesso all’istruzione ecc. di sieropositivi, malati di Aids e rispettivi famigliari godono della protezione della legge cinese”.
Aree di criticità: definizione del rischio, prevenzione e stigma
Una prima, fondamentale area di criticità è riscontrabile nelle attività di raccolta di dati relativi alla diffusione dell’infezione, che continuano a essere ostacolate da fattori di natura sociale e istituzionale radicati nella realtà cinese. L’accesso delle autorità (in primis i CDC) alle categorie a rischio è fortemente ristretto. Per quanto riguarda la prostituzione, le attività di screening condotte dai CDC sono pesantemente limitate dal fatto che l’accesso di personale medico ai “luoghi di intrattenimento” risulta difficile, mentre molte ragazze ivi impiegate rifiutano (peraltro legittimamente) di sottoporsi al test. Secondo quanto riferito da un funzionario del CDC della provincia dello Hunan, “soltanto luoghi di intrattenimento di grandi dimensioni e ben strutturati, quali karaoke di lusso, ci permettono l’accesso.
Per quanto riguarda le zone al di fuori dei maggiori centri urbani, dove la prostituzione è comunque molto diffusa soprattutto lungo le vie di comunicazione, abbiamo informazioni scarsissime”[16]. Nel 2009, soltanto il 27% delle ragazze raggiunte dal personale del CDC dello Hunan ha dato il proprio consenso al prelievo del sangue per eseguire test su MST[17]. L’impossibilità di definire in maniera scientifica il campione di tali attività di indagine fa sorgere dei dubbi sulle stime relative alla diffusione del virus. Dubbi corroborati da studi quale quello realizzato nell’area mineraria di Gejiu (provincia dello Yunnan) dal locale CDC nel 2006 su un campione di 96 prostitute, di cui riportiamo in tabella i risultati [18]:
Malattie Sessualmente Trasmissibili (MST) tra 96 prostitute della prefettura di Gejiu – Yunnan (2006) | ||
Infezione
| N
| %
|
HIV
| 8
| 8,3
|
Sifilide
| 12
| 12,5
|
Herpes genitale
| 68
| 70,8
|
Gonorrea
| 35
| 36,8
|
Clamidia
| 44
| 46,3
|
Tricomoniasi vaginale
| 21
| 22,1
|
Tot. MST (almeno 1 MST)
| 87
| 90,6
|
Al di la’ del numero di sieropositive (8,3% del campione), il fatto che nella quasi totalità del campione (90,6%) siano state riscontrate MST è indicativo di quanto sia scarsa tra le prostitute l’attenzione all’igiene sessuale e/o di quanto siano carenti le precauzioni da queste messe in atto. L’uso del preservativo da parte delle prostitute (che secondo stime recenti sarebbero circa 20 milioni nel paese[19]) è, nella migliore delle ipotesi, saltuario. Su scala nazionale, i dati disponibili indicano un uso consistente (i.e., con clienti sconosciuti: quasi sempre le ragazze non usano il preservativo con clienti abituali!) del preservativo da parte del 13% – 54% delle prostitute [20]. Un altro problema, di natura prettamente istituzionale e politica è quello costituito dalle relazioni centro-periferia: nonostante le autorità locali siano tenute a fare rapporto di ogni caso confermato di HIV/Aids nell’area sotto la propria giurisdizione, una ricca anedottica suggerisce che i funzionari locali corrano il rischio di essere puniti qualora il numero di sieropositivi/malati risulti più alto della quota stabilita come accettabile dalle autorità superiori. In tale contesto, pare dunque esservi l’incentivo a non dichiarare eventuali casi di HIV/Aids “fuori quota” [21].
Le attività di educazione e prevenzione rimangono ostacolate da fattori di natura socio-culturale. Se la legislazione relativa all’HIV/Aids continua a crescere, e i leader si mostrano pubblicamente assieme a malati di Aids a beneficio delle campagne mediatiche contro lo stigma, d’altro canto nella pratica l’attitudine delle istituzioni e i risultati raggiunti dalle campagne governative restituiscono un’immagine contraddittoria. Se il 78% degli studenti universitari di Pechino è disposto ad avere rapporti sessuali occasionali [22], la conoscenza fra gli stessi dei metodi per prevenire il contagio da HIV è assai scarsa: secondo dati pubblicati nel 2007 e riferiti al 2003, soltanto il 20% degli studenti di medicina di Pechino pensava che utilizzare il preservativo potesse proteggere dal contrarre il virus per via sessuale [23].
Considerazioni simili, relative al gap esistente fra regolamentazione e propaganda da un lato, e situazione reale dall’altro possono essere fatte per quanto riguarda lo stigma associato ad HIV/Aids, ancora radicato nella società cinese. Meno di un quarto degli utenti intervenuti sul forum internet aperto dal quotidiano di Pechino XinjingBao in occasione della giornata mondiale sull’Aids 2009 si dichiarava sicuro che, nel caso in cui si fosse trovato a contatto con un sieropositivo sul luogo di lavoro o studio, non avrebbe tenuto un atteggiamento discriminatorio. La situazione non cambia qualora, anziché internauti, siano interpellati i lavoratori di un mercato del sud della Cina: qui, secondo dati pubblicati nel 2007, il 73% ritiene opportuno l’isolamento dei sieropositivi, mentre il 50% giudica giustificate eventuali misure punitive nei confronti degli stessi sieropositivi[24]. Il pregiudizio non risparmia neppure il personale sanitario: nel 2003, su un campione di 149 fra medici e altro personale sanitario della provincia del Guangxi, il 23% si dichiarava non disposto a curare sieropositivi, mentre il 33% sarebbe stato ben felice di considerare il trasferimento ad altra mansione pur di evitare il contatto con sieropositivi[25]. Sul finire del 2010 il tribunale di Anqing, nella provincia dello Anhui, ha rigettato il ricorso presentato da un giovane insegnante per contestare la decisione con cui il locale dipartimento per l’educazione gli aveva negato l’impiego, dopo aver scoperto che lo stesso insegnante era sieropositivo[26]. Secondo quanto riferito da autorità cinesi nel corso di un convegno organizzato a Pechino da ILO, UNAIDS e Marie Stopes International nel novembre scorso, l’89% dei sieropositivi avrebbe perso il lavoro a causa della propria condizione di salute e dello stigma a essa associato [27].
5. Considerazioni conclusive
Sono passati quasi vent’anni da quando Liu Quanxi, direttore dell’Ufficio Sanitario dello Henan, durante una riunione sull’organizzazione della raccolta del sangue, diceva ai propri collaboratori: “La Cina non ha HIV e il suo sangue è molto pulito, così i forestieri lo vorranno certamente comprare”[28], rendendosi responsabile di un errore che, di lì a poco, avrebbe causato la morte di un numero ancora imprecisato di persone. Nonostante passi avanti siano stati compiuti dalle autorità nell’adottare un approccio più trasparente, e nonostante vi siano in Cina molti funzionari che svolgono il proprio lavoro con coscienza e sollecitudine, permangono nel paese condizioni sociali, culturali e istituzionali tali da ostacolare una definizione precisa delle dimensioni del contagio da HIV, nonché le contromisure da mettere in campo per contrastarlo. E’ ancora presente in seno alla società cinese uno stigma pesante nei confronti dei sieropositivi, condiviso anche da parte del personale medico. L’atteggiamento delle autorità rimane contraddittorio, come del resto la legislazione: da un lato i media governativi, in specie in occasione di ricorrenze particolari come la giornata mondiale sull’HIV/Aids, dedicano grande spazio a notizie e informazioni tese a combattere lo stigma (soprattutto attraverso l’esempio dei leader: Hu Jintao che stringe la mano a un contadino sieropositivo), dall’altro i sieropositivi trovano difficoltà nel vedere garantiti i propri diritti. Una discriminazione così diffusa non costituisce soltanto un problema di natura morale. Essa ha un effetto diretto sulla salute di tutti i cinesi e, potenzialmente, di chi vive resto del mondo: piuttosto che confidare in un sistema in grado di offrire garanzie (di cure, di sostegno sociale, di lavoro), il singolo sarà tentato da un contesto simile a non sottoporsi a controlli periodici o, nel caso in cui sia sieropositivo, a cercare di nascondere alla società (medici, insegnanti, amici, famiglia, ecc.) la propria condizione, con effetti di lungo termine difficilmente prevedibili.
Daniele Brombal ha collaborato fra 2007 e 2010 con la Cooperazione Italiana allo Sviluppo in Cina, settore sanitario. E’ dottorando in Studi sull’Asia Orientale all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Martina Bristot, laureata in Studi sull’Asia Orientale, si dedica ad attività di ricerca su questioni relative alla prostituzione in Cina.
Giorgio Cortassa, medico d’emergenza, lavora per l’ONG Asia nella Regione Autonoma del Tibet.
- Per ragioni di riservatezza, il nome del funzionario è fittizio.
- Testimonianza raccolta da Martina Bristot. I karaoke, assieme a saloni da barbiere, sale da tè, bagni turchi sono tra le più comuni coperture per l’esercizio della prostituzione in Cina.
- Raffa M. Aids in Cina: il Grande Pericolo. Mondo Cinese (MC) 2003; 114.
- Ibidem.
- Cortassa GM, Lila L, Brombal D, Santonastaso M, Centola R. Riforma Sanitaria in Cina. Lo stato dell’arte. Saluteinternazionale.info, 27.09.2009
- RaffaM, “Aids in Cina…”, op. cit.; HASKI P. Il Sangue della Cina. Milano: Sperling & Kupfer Editori, 2006.
- SUN et al. Evolution of Information-driven HIV/AIDS Policies in China. International Journal of Epidemiology 2010;39
- HASKI P. Il Sangue…, op. cit., pp. 33.
- A Cumulative Total of Over 68,000 AIDS Deaths Reported in China. National Center for AIDS/STD Control and Prevention, China CDC.
- Unaids: dati disponibili
- Hunan sheng aizibing fangzhi zhanglüe fenxi « 湖南省艾滋病防治战略分析 » (traduzione) , CDC della provincia dello Hunan, 2010 (non pubblicato).
- Guowuyuan guanyu xiugai “Zhonghua renmin gongheguo waiguoren rujing chujing guanli lifa shishi xuze 《国务院关于修改〈中华人民共和国外国人入境出境管理法实施细则〉的决定》: traduzione
- Aizibing jiance guanli de ruogan guiding 艾滋病监测管理的若干规定: traduzione
- Xuezhan guanli banfa (zanting) 血站管理办法(暂行): traduzione
- Aizibing fangzhi tiaolie 艾滋病防治条例.
- Testimonianza raccolta da Martina Bristot nell’estate del 2010.
- Hunan sheng aizibing…, op. cit.
- XU et ali. HIV and STIs in Clients and Female Sex Workers in Mining Regions of Gejiu City, China. Sexually Transmitted Diseases 2008; 35(6): 560.
- ZHOU J. Chinese Prostitution. Consequences and Solutions in the Post-Mao Era. China. An International Journal 2006; 4(2): 238-62.
- HONG Y, LI X. Behavioral Studies of Female Sex Workers in China: A Literature Review and Recommendation for Future Research. Springer Science+Business Media 2007: 631.
- Sulle penalizzazioni nei confronti di funzionari ligi al proprio dovere, un’interessante lettura è: CHEN G, WU C. Può la barca affondare l’acqua? Vita dei contadini cinesi. Venezia: Marsilio Editori, 2007.
- FU B. Don’t Play with Topic of One-Night Stands among College Students. China Daily – Metro, 1 dicembre 2009, pp. M3.
- ZHENG T. The Cultural Politics of Condoms in the Time of AIDS in China. China Perspectives 2009; 1: 56.
- ZHOU YR. ‘If you Get AIDS… You Have to Endure it Alone’: Understanding the Social Constructions of HIV/AIDS in China. Social Science & Medicine 2007; 65:285.
- Ibidem.
- TALHA KB. Discrimination against People with HIV Persists in China. The Lancet 2011; 377.
- SHAN, Juan, J. CANG W. HIV-positive still Face Job Discrimination. China Daily, 2 dicembre 2009, (disponibile online)
- RAFFA, Michel, “Aids in Cina…”, op.cit.
Articolo molto interessante, conciso, schematico e molto apprezzati i riferimenti bibliografici. Complimenti.
Cordiali saluti,
Dott.ssa Tatiana Pellegrino