La pandemia globale delle malattie non trasmissibili

Chiara Bodini, Ilaria Camplone.

Come preannunciato, nella giornata di ieri l’Assemblea ha affrontato l’attesa discussione sulle malattie non trasmissibili, probabilmente il tema più rilevante in agenda dopo la riforma dell’OMS.

Data la complessità dell’argomento, e le importanti implicazioni in termini di politiche nazionali e internazionali, secondo una procedura prevista dal regolamento la discussione è stata in prima istanza affidata a un gruppo di lavoro dedicato, che ha stilato negli ultimi cinque giorni una bozza di risoluzione. A differenza delle riunioni delle Commissioni, quelle dei gruppi di lavoro sono chiuse alle rappresentanze della società civile.

La risoluzione riguarda il ruolo dell’OMS nell’ambito di un’importante conferenza intergovernativa sulla prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili, convocata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per il prossimo settembre a New York, e prende le mosse da un altro importante evento svoltosi a Mosca lo scorso aprile, ovvero la Prima Conferenza Ministeriale Globale sugli Stili di Vita e il Controllo delle Malattie Non Trasmissibili (Esito della Conferenza è stata la “Dichiarazione di Mosca”).

Nonostante la risoluzione parlasse solo delle azioni da intraprendere in vista della Conferenza di New York, la discussione ha avuto un respiro molto più ampio, con interventi di 47 Paesi membri e 14 organizzazioni della società civile (tra cui organizzazioni internazionali, ONG, associazioni professionali e di pazienti, settore privato).

Quasi tutti gli interventi dei Paesi hanno sottolineato il grave e crescente impatto che le malattie non trasmissibili hanno sulla salute della popolazione, facendo riferimento in particolare a diabete, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche e tumori. Queste condizioni sono responsabili del 60% delle morti a livello globale, e si prevede che entro il 2030 tale cifra raggiunga il 75%; di queste, l’80% avviene in Paesi a basso o medio reddito.

E sono stati proprio i delegati di questi Paesi a sottolineare le condizioni particolarmente gravi in cui si trovano, dovendo affrontare il cosiddetto “doppio carico di malattia”. Tale situazione si verifica quando le malattie non trasmissibili non sostituiscono, nella “normale” transizione epidemiologica che accompagna la riduzione della povertà e l’incremento dell’aspettativa di vita, il carico di mortalità e morbidità legato alle malattie trasmissibili, ma piuttosto lo affiancano.

Per Paesi con budget sanitari estremamente limitati – e spesso afflitti da severe condizioni come malnutrizione, alti tassi di mortalità materna e infantile, alta prevalenza di HIV – il doppio carico di malattia rappresenta sempre più un peso insostenibile.

In un circolo vizioso estremamente difficile da affrontare, la povertà genera malattia e la malattia genera povertà a livello sia individuale che di popolazione. Inoltre, in molti Paesi i sistemi sanitari sono del tutto inadeguati – in quanto a struttura, distribuzione geografica, finanziamenti, dotazioni di risorse umane, strumenti diagnostici, accessibilità a farmaci – per fare fronte alle crescenti necessità della popolazione. Per l’ineguale distribuzione dei fattori di rischio, a sua volta legata ai più ampi determinanti economici e sociali, e dell’accessibilità delle cure, l’impatto delle malattie non trasmissibili è particolarmente grave anche sulle disuguaglianze in salute, sia all’interno che tra i Paesi.

Se il consenso sulla descrizione dello scenario – così come sul fatto che le malattie non trasmissibili sono in gran parte prevenibili – è stato unanime, nell’analisi delle cause le differenti posizioni tra Paesi sono emerse in maniera abbastanza chiara. Fino al primo livello della catena causale, ovvero quello dei fattori di rischio (fumo, alcol, sedentarietà, alimentazione), non c’è stata discussione. Alcuni Paesi si sono fermati qui, delineando di conseguenza come priorità di intervento misure dirette a migliorare gli stili di vita. Altri, invece, hanno posto l’accento sui determinanti ambientali, economici, sociali e politici che sono alla base degli stili di vita “a rischio”. Ovvero, sul fatto che da un lato non tutti hanno una vera possibilità di scelta, dall’altro esistono potenti interessi che sugli stili di vita insalubri guadagnano molto. Oltre all’industria del tabacco, i produttori di cibi e bevande e – non ultime – le case farmaceutiche. Conseguenza di questa visione è l’enfasi sulla necessità di regolamentazioni del settore privato negli ambiti che hanno impatto sulla salute.

Tra gli interventi della cosiddetta “società civile” c’è stato quello del rappresentante della Federazione Internazionale delle Associazioni dei Produttori Farmaceutici (IFPMA), che ha evidenziato (prevedibilmente) la componente comportamentale legata all’esposizione ai fattori di rischio e la necessità dunque di agire sulla cosiddetta “health literacy”. Pur riconoscendo l’importanza della prevenzione (in particolare, per le positive ripercussioni in termini di crescita economica!), ha poi affermato che l’industria farmaceutica ha ben “1500 nuove medicine in corso di sviluppo per le malattie non trasmissibili”. Ha infine raccomandando che strategie che coinvolgono più attori, incluso ovviamente il privato, vengano integrate nel settore sanitario e in altri settori rilevanti per la salute, e che i nuovi farmaci siano accessibili anche per i Paesi a basso e medio reddito. In favore di tali “multi-stakeholder actions” si è espressa anche l’Associazione Internazionale delle Organizzazioni di Pazienti (IAPO), network globale con estese connessioni – e relative connivenze – con l’industria del farmaco.

Interessante l’intervento della Cochrane Collaboration, che ha caldamente invitato l’OMS a utilizzare esclusivamente evidenze provenienti da revisioni sistematiche per le raccomandazioni e le linee guida, enfatizzando l’importanza di evitare qualunque possibile distorsione legata al coinvolgimento dell’industria. E sul tema del conflitto di interesse hanno insistito anche i rappresentanti delle ONG e delle associazioni di consumatori, raccomandando severe misure di controllo del marketing di prodotti alimentari soprattutto per l’infanzia ed esprimendosi contro il coinvolgimento del settore privato nella definizione delle politiche e delle strategie d’azione. E’ stata sottolineata l’importanza di affrontare i determinanti strutturali delle malattie non trasmissibili, così come l’opportunità di includere la salute mentale.

La risposta dell’OMS in merito non si è fatta attendere, ma si è limitata a rassicurazioni piuttosto generiche, in particolare sul tema del conflitto di interesse. Dopo l’affermazione del rappresentante del Segretariato sul fatto che “l’OMS segue linee guida per l’interazione con l’industria”, la Direttrice Generale è intervenuta di persona dicendo che è sua intenzione collaborare con tutti gli attori, compreso il settore privato, ma evitando i conflitti di interesse. Visto il crescente ruolo che il privato ha dimostrato di potere, sapere e voler giocare in seno all’OMS, la sola parola di Margaret Chan rischia di essere insufficiente.

 

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