Le cure primarie secondo Barbara Starfield
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- 16 Giugno 2011
Gavino Maciocco
È tempo che i medici di famiglia prendano l’iniziativa per muovere l’assistenza medica laddove ci sono i bisogni; per assistere i pazienti e le popolazioni e non le malattie. Tutto ciò non solo è biologicamente corretto, ma anche più efficace, più efficiente, sicuro e più equo.
“Why primary care is useful in health systems” (“Perché le cure primarie sono utili nei sistemi sanitari”). Questo il titolo della lettura magistrale che Barbara Starfield avrebbe dovuto tenere il giorno 13 giugno a Pisa, al convegno internazionale sulle politiche sanitarie regionali organizzato da Regione Toscana e Laboratorio MeS. Ma alla vigilia dell’evento, sabato 11 giugno, è giunta, come un fulmine, la tragica notizia della sua improvvisa scomparsa.
Barbara Starfield era professore di Health Policy and Management alla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Baltimora (USA). Il Preside della Scuola, Michael J. Klag, nel messaggio di condoglianze la ricorda come “un gigante nel campo delle cure primarie e della politica sanitaria”.
Il termine “gigante” è il termine più adatto per rappresentare la statura di ricercatore, di docente e di difensore di diritti umani di Barbara Starfield. Avevamo già in programma un post sulla sua visione di cure primarie, da pubblicare dopo il suo previsto intervento a Pisa. Lo pubblichiamo nella data prevista (e con il titolo previsto) – anche come tributo alla sua memoria – attingendo ai paper più significativi della sua sconfinata produzione scientifica.
Negli ultimi dieci anni due sono i principali temi su cui si è concentrata l’attività di ricerca e la riflessione politica di Barbara Starfield: il ruolo delle cure primarie nei sistemi sanitari e la gestione delle malattie croniche nell’ambito delle cure primarie.
Il ruolo e l’impatto delle cure primarie nei sistemi sanitari.
La questione è analizzata in tre fondamentali paper pubblicati tra il 2002 e il 2005 [1,2,3]. La domanda è: esiste qualche correlazione tra “forza” del sistema delle cure primarie e risultati in termini di salute, di equità e di efficienza?
La “forza” del sistema delle cure primarie è misurata in relazione a 10 differenti caratteristiche.
Le caratteristiche strutturali:
- il sistema di finanziamento (fiscalità generale, assicurazioni sociali, privato);
- distribuzione delle risorse (le risorse delle cure primarie, a partire dai medici, sono o meno distribuite in relazione ai bisogni);
- tipologia dei medici (prevalenza di medici di famiglia vs specialisti);
- accessibilità (la possibilità dei pazienti di usare i servizi nel momento del bisogno, senza barriere);
- longitudinalità (la capacità del sistema di fornire nel tempo una regolare fonte assistenziale).
Le caratteristiche funzionali:
- primo contatto (le cure primarie rappresentano la porta d’ingresso nel sistema sanitario);
- coordinamento ( le cure primarie garantiscono la continuità della cura tra differenti livelli d’assistenza);
- globalità (le cure primarie includono servizi preventivi, curativi e riabilitativi);
- longitudinalità (la presa in carico del paziente avviene per un tempo indefinito e non per singolo episodio di malattia);
- orientamento verso la persona, la famiglia e la comunità (l’assistenza è orientata alla persona e non alla malattia e avviene nel contesto dove la persona vive, prendendo in considerazione i determinanti sociali).
La “forza” delle cure primarie all’interno dei sistemi sanitari internazionali (in particolare dei paesi OCSE) viene messa in relazione con una serie di indicatori di salute e di spesa.
I paesi con più forti sistemi di cure primarie – secondo la classifica formulata dagli Autori – sono: Regno Unito, Danimarca, Spagna, Olanda, Italia, Finlandia, Norvegia, Australia, Canada e Svezia.
In estrema sintesi questi sono i risultati.
- Sistemi sanitari con all’interno “forti” sistemi di cure primarie sono associati a una migliore salute della popolazione; gli indicatori presi in considerazione sono: a) la mortalità per tutte le cause; b) la mortalità prematura per tutte le cause; c) la mortalità prematura causa-specifica per broncopneumopatie e malattie cardiovascolari.
- Le evidenze dimostrano inoltre che le cure primarie (a differenza di sistemi basati sull’assistenza specialistica) garantiscono una più equa distribuzione della salute nella popolazione.
- Più forti sono le cure primarie più bassi sono i costi, come dimostra la Figura 1, dove nell’ordinata è rappresentata la “forza” delle cure primarie e nell’ascissa la spesa sanitaria pro-capite.
Figura 1. Forza di cure primarie e spesa sanitaria

La gestione delle malattie croniche nell’ambito delle cure primarie.
Questo tema è trattato in due recenti paper: uno – “Chronic Illness and Primary Care”- contenuto in un rapporto canadese “Trasforming care for Canadians with chronic health conditions – Appendices” (vedi Risorse), l’altro, dell’aprile 2011, dedicato alle diseguaglianze nell’assistenza sanitaria[4]. Anche qui, in estrema sintesi, i punti principali della riflessione di Barbara Starfield.
- E’ vero che le malattie croniche rappresentano la grande massa del peso assistenziale dei sistemi sanitari, ma il dato più preoccupante non è la quantità delle singole patologie croniche, ma la “comorbilità” e la “multimorbilità” che sono diventate la regola, piuttosto che l’eccezione.
- L’importanza della multimorbilità è provata da studi che dimostrano la sua associazione con l’incremento dei ricoveri ospedalieri, per situazioni che potrebbero essere prevenute con cure primarie di buona qualità, e con l’aumento dei costi.
- Ciò che rende più costosa l’assistenza è legata in parte alla multimorbilità da malattie croniche e in parte alla maggiore condizione di vulnerabilità sociale, familiare e economica dei pazienti.
- Le persone hanno problemi di salute, ma le malattie rappresentano solo una parziale spiegazione dei loro problemi di salute. Noi dobbiamo conoscere di quali problemi di salute le persone soffrono, indipendentemente dall’etichetta della malattia che i professionisti gli hanno attaccato. Il miglioramento e se possibile la risoluzione dei problemi (e all’inverso il peggioramento di questi) sono vere e proprie misure di outcome, e i medici che sono in grado di riconoscerli e risolverli dovrebbero essere ricompensati per questo.
- Già William Osler, oltre un secolo fa, riconosceva che è più importante conoscere “quale tipo di paziente ha una malattia piuttosto che quale malattia ha un paziente”. Un approccio focalizzato sulla persona (person-focused), rispetto all’approccio dominante focalizzato sulla malattia (disease-focused) è il più adatto alla gestione delle malattie croniche perché è maggiormente in grado di affrontare il modo con cui più malattie interagiscono tra loro e riconoscere le condizioni di vulnerabilità sociale, familiare e economica dei pazienti che aggravano i loro problemi di salute.
- Abbiamo bisogno di linee guida adatte per l’assistenza focalizzata sulle persone piuttosto che sulla malattia. Solo i medici di famiglia possono comprendere ciò, perché essi non si occupano dei singoli organi, come fanno gli specialisti, e perché ogni giorno sperimentano questa realtà nel loro lavoro. Per questo i medici di famiglia devono difendere i sistemi sanitari basati sulle cure primarie, perché questa è l’unica speranza per ottenere una maggiore equità attraverso appropriati interventi medici. Essi hanno anche un’altra responsabilità, che è quella di richiamare l’attenzione sulla follia di fornire l’assistenza in modo verticale, malattia per malattia.
- E’ tempo che i medici di famiglia prendano l’iniziativa per muovere l’assistenza medica laddove ci sono i bisogni; per assistere i pazienti e le popolazioni e non le malattie. Tutto ciò non solo è biologicamente corretto, ma anche più efficace, più efficiente, sicuro e più equo.
Gavino Maciocco, Dipartimento di sanità Pubblica, Università di Firenze
Risorse
- Trasforming care for Canadians with chronic health conditions – Appendices. [PDF: 3,2 Mb]
- Remembering Prof. Barbara Starfield. WONCA statement [PDF: 90 Kb]
- Starfield B, Shi L. Policy relevant determinants of health: an international perspective. Health Policy 2002; 60: 201–218.
- Macinko J, Starfield B, Shi L. The Contribution of Primary Care Systems to Health Outcomes within Organization for Economic Cooperation and Development (OECD) Countries, 1970–1998. [PDF: 197 Kb] HSR: Health Services Research 2003; 38:3, 831-865.
- Starfield B, Shi L, Macinko J. Contribution of Primary Care to Health Systems and Health. [PDF: 150 Kb ]The Milbank Quarterly 2005; 83 (3): 457–502.
- Starfield B. The hidden inequity in health care. [PDF: 150Kb ] International Journal for Equity in Health 2011, 10:15.
sono molto d’accordo, in Italia si è sempre sottovalutato il contributo dei medici personali o di famiglia, basti considerare come il dipartimento di prevenzione in genere opera per conto proprio, e così quello di igiene mentale. Eppure sui propri iscritti i medici di famiglia ne sanno …Forse la dipartimentizzazione dei servizi ha creato nelle attività territoriali il modello ospedale. Sovente ignorando il contributo dei medici personali, una rete che pure abbiamo, che funziona, ma non viene considerata. Ad esempio per le malattie cardivascolari, ma anche per altre prevenzioni, basti riflettere sul fatto che tra i fattori non è cosiderato abbastanza lo stress, nemmeno quando si parla di disuguaglianze socio economiche…il medico personale o di famiglia ne sa, ma non si chiede,,,si preferisce PASSI d’ ARGENTO
modello preso da sistemi sanitari che non hanno la rete dei medici personali ,l con il sistema come il nostro. Si duplicano le risorse informative e poi?- Mi piacerebbe sapere se ho torto, o anche perchè ciò avviane.
Focalizzare l’attenzione sulla persona, piuttosto che sulla malattia è certamente un passaggio obbligato, ma è necessario trarre tutte le conseguenze da tale cambiamento di prospettiva.
Cercare le malattie è la strada per l’inferno dell’autoreferenzialità, strada lastricata da tante “buone intenzioni” e privilegia lo specialista. L’autoreferenzialiità sta nell’essere il professionista il traduttore di un bisogno di salute percepito, attuale o potenziale, in domanda; fornisce la risposta e stabilisce l’esito: se è positivo è suo merito, se negativo è, nella migliore delle ipotesi, il corso della natura o, nella peggiore, colpa della persona.
Per inciso, solo il metodo epidemiologico permette di stimare l’efficacia degli interventi essendo non disponibile con la singola persona la prova contro fattuale. Con l’implicazione che la salute è un bene di comunità e va valutato come salute di comunità con indicatori adeguati: il sistema lavora bene quando tali indicatori non si differenziano per stratificazione sociale.
Ma focalizzare l’attenzione sulla persona richiede l’assunzione di un modello sociale di salute quando si riconosce che quelle sociali possono essere le cause dietro le cause biologiche dello stato di salute. Il punto è che le cause sociali sono “dicibili” solo dalla persona e il professionista della salute deve applicare l’arte socratica della maieutica per favorire la “dicibilità”. L’implicazione di ciò è la rinuncia al paternalismo direttivo che è sotteso dall’assunzione di un modello biomedico della salute. Si deve rinunciare a sentirsi nello stato di taumaturgo (utile a questo proposito leggere Marc Bloch, per me il più grande storico del ventesimo secolo, membro della resistenza francese e assassinato dai nazisti, nei “Re taumaturghi”, dove la qualità di taumaturgo è l’espressione materiale del potere regale), cioè rinunciare al “potere” e il riferimento a M. Foucault è d’obbligo.
Ma aiutare la persona a dire di sé con l’arte della maieutica e comprendere la sua storia e i suoi vissuti richiede una visione olistica ed è il primo passo per un processo di empowerment. Cioè a un modello sociale di salute corrisponde (sottende) un modello relazionale basato sull’empowerment e sulla partecipazione.
I cambiamenti di paradigma: modello sociale di salute vs modello biomedico e modello di welfare della partecipazione e dell’empowerment vs modello di welfare paternalistico direttivo sono stati imposti non già da elaborazioni intellettuali ma dal conflitto sociale degli anni sessanta-settanta del ventesimo secolo e il movimento delle donne ne è stata l’espressione più radicale, riconoscendo nel dominio di genere la radice di tutti i poteri che trovano fondamento nel controllo dei corpi. Il movimento delle donne è stata la punta di diamante ma non vanno dimenticati i gruppi omogenei operai (Maccacaro) e i malati di mente (Basaglia). I due giganti citati riconobbero la centralità epistemologica del riconoscere il diritto di parola alle persone, anche di chi “dominato dalla follia”.
Per inciso, l’istituzione dei consultori familiari nel 1975 rappresentava la prima (e unica) forma di concretazione dei nuovi paradigmi: modello sociale di salute-equipe multidisciplinare, modello della partecipazione e dell’empowerment – privilegiamento della promozione della salute facendo emergere e valorizzando le competenze delle persone. Anche la legge di riforma sanitaria 833/78 da una parte indicava nel sindaco l’autorità sanitaria (al posto dell’ufficiale sanitario, nonostante i suoi enormi meriti storici, che hanno fatto la sanità pubblica del tempo esemplare) e dall’altra indicava nella promozione della salute la chiave di volta per il funzionamento virtuoso del sistema.
La promozione della salute, così come definita dalla Carta di Ottawa nel 1986, rappresentava il riconoscimento internazionale (con un decennio di ritardo) del cambiamento di prospettiva: la promozione della salute è l’insieme delle attività che hanno come obiettivo l’aumento della capacità di controllo da parte delle persone e delle comunità sul proprio stato di salute. Nient’altro che un processo di empowerment.
Ma quali sono le manifestazioni di un efficace processi di empowerment?
In primo luogo la riduzione dell’incidenza o della prevalenza degli eventi o condizioni che producono sofferenza nella comunità esposta all’intervento; quindi, una aumentata capacità di cercare salute (health seeking behavior) e infine una attitudine positiva ad aiutare altre persone nella capacità di autogoverno (peer education).
Ma i rischi per la salute non sono distribuiti in modo omogeneo nella comunità. Assumendo un modello sociale di salute, è facile comprendere che le persone che vivono in condizioni di disagio sono esposte a maggiori rischi e la condizione di disempowerment rende per loro maggiormente difficile cercare salute e sono anche difficili da raggiungere (hard to reach) . Da ciò due cardini delle strategie operative, essenziali nelle strategie della promozione della salute, della sanità pubblica.
Cardine epidemiologico: riconoscimento delle articolazioni della comunità rispetto al rischio;
Cardine operativo: offerta attiva (offerta: ci si rivolge alla persona con rispetto, gentilezza, empatia, compassione ed umiltà; attiva: se la persona non si fa coinvolgere dobbiamo chiederci dove stiamo sbagliando, quali barriere della comunicazione non abbiamo superato, quali strade alternative dobbiamo sperimentare, cogliendo con intelligenza emotiva e umiltà tutti i segnali che la persona e la comunità di appartenenza mandano implicitamente o esplicitamente).
Appare evidente che se non si coinvolgono tutte le persone, soprattutto quelle difficili da raggiungere, che sono anche più a rischio, non vedremo la riduzione significativa degli indicatori di sofferenza: anche se raggiungiamo l’ottanta percento della comunità ma il venti percento non raggiunto produce o vive la maggior parte degli eventi o delle condizioni di sofferenza.
Quando si agisce con le persone che si auto selezionano, soprattutto nella promozione della salute, come potremo escludere che gli eventuali risultati ed esiti positivi non dipendano dai fattori di autoselezione piuttosto che dal nostro agire professionale?
Nella promozione della salute, ma anche nelle cure primarie, il primo passo è l’applicazione dell’arte socratica della maieutica attraverso la quale si stimola la persona a ripensare, riflettere sui propri vissuti quotidiani e sulla memoria storica della comunità di appartenenza. Su questa base far emergere gli interrogativi sul che fare, prospettando le conoscenze scientifiche disponibili, vagliate criticamente soprattutto rispetto ai contesti in cui vengono acquisite, con i margini di errore associati (una conoscenza scientifica è tale se, e soltanto se, è conosciuta la probabilità che sia sbagliata), in modo tale da permettere alla persona di valutare le alternative riconoscendo alla persona, essendo lei sola titolata a farlo, di dare peso alle conseguenze delle diverse alternative, secondo la propria visione del mondo.
Privilegiare i servizi di cure primarie è quindi “conditio sine qua non” per una sanità pubblica universale e sostenibile, in grado cioè di ridurre gli sprechi che ammontano a oltre il trenta percento delle risorse impegnate nell’ambito stretto della salute, dovuti agli interventi inappropriati o inutili perché non efficaci. Nei servizi di cure primarie, soprattutto quelli specificamente deputati all’applicazione di strategie di promozione della salute (strategie definite a partire dagli obiettivi misurati con adeguati indicatori di esito e da una conoscenza delle articolazione della popolazione bersaglio e progettate operativamente rispondendo appropriatamente alla domanda complessa: chi quando come dove? Strategie che prevedono indagini per la stima dei fattori del non raggiungimento e indagini per la stima di incidenza o prevalenza di eventi o condizioni che si vogliono prevenire nella quota di comunità non raggiunta), in questi servizi è essenziale avere una visione olistica anche per essere in grado di applicare le due tattiche centrali nella sanità pubblica: il cavallo di Troia e la mossa del cavallo.
Il cavallo di Troia:
c’è una sezione di popolazione o una condizione che può essere più ricettiva? Per esempio, l’età evolutiva, esposta a un percepibile cambiamento e, soprattutto, esposta a processi formativi, quindi con una potenzialità di empowerment enormi è certamente un settore forte della popolazione su cui investire prioritariamente, a partire dai temi a questa età particolarmente cari, come la sessualità; le donne che, pilastri delle famiglie, si occupano, in questo contesto storicamente determinato, del benessere dei propri cari (e non li chiamano pazienti, utenti, consumatori o clienti, ma cari) e potenzialmente interessate a prospettive di miglioramento (che infamia ignobile quella di speculare sul desiderio di miglioramento proponendo dall’alto delle cattedre accademiche, anche con la mediazione degli opinion leader dei massmedia, e sotto la pressione ben oliata dei produttori di fumo, soluzioni senza basi scientifiche!); le donne che decidono di mettere al mondo una nuova vita (si nasce perché donna lo vuole) e si interrogano su come avere il maggior successo in questa impresa in cui tutto viene rimesso in discussione (qui l’infamia ignobile di speculazione raggiunge livelli parossistici, vedi la medicalizzazione della nascita; peraltro risposta violenta del sistema tradizionale dei poteri, che si concretano nei taumaturghi, all’assalto al cielo del movimento delle donne degli anni settanta che rivendicava l’autodeterminazione e l’autonomia e il diritto all’ultima parola, riproponendo nel modo più bieco il controllo dei corpi, strumentalizzando la fragilità che si presenta sempre ogni qualvolta si sperimenta una espressione di potenza e un approccio corretto sarebbe invece promuovere le competenze per governare meglio le fragilità e far esprimere al meglio la potenza, più che mai in questo caso, creativa).
Le donne e l’età evolutiva, settori forti della popolazione, veri e propri cavalli di Troia per entrare nelle comunità!
Ci possono essere argomenti di salute non facilmente gestibili per alcune persone o per alcune comunità per via dei vissuti quotidiani e della memoria storica (le varie espressioni dei tabù) allora è utile la mossa del cavallo: si parte da argomenti più facilmente trattabili sui quali si esplicita l’azione di empowerment, che ha come conseguenza una aumentata capacità di cercare salute e si acquisisce una maggiore possibilità di superare le barriere. Per esempio, le donne che fumano nel settanta percento dei casi smettono di fumare entrando in gravidanza, il restante trenta percento riduce del settanta percento il numero di sigarette fumate (meno del due percento non modifica l’abitudine al fumo). Piuttosto che colpevolizzare chi seguita a fumare è preferibile promuovere l’allattamento al seno (nel desiderio del novantacinque percento delle donne, che però si interrogano, grazie all’infamia ignobile di cui sopra, se avranno il latte, se saranno in grado, alla faccia dio Darwin). Promuovere competenze e consapevolezze facendo emergere che se la donna lo vuole non vi è alcun dubbio che può allattare al seno anche se deve superare il percorso ad ostacoli che il sistema dissemina soprattutto nella fase, più delicata, dell’inizializzazione. Ma se la donna vuole, anche grazie all’aiuto delle esperte dell’allattamento, può superare e far superare alla persona che è nata le difficoltà (particolarmente gravi per quest’ultima, in quanto prendere il latte dal seno della mamma è la prima espressione di competenza, impedendo od ostacolando la quale, si produce, come effetto del mobbing, mortificazione e depressione) . Se la donna acquisisce tale senso di forza riconoscendo le proprie possibilità non è detto che non ritorni sulla decisione di non smettere di fumare. Comunque è dimostrato che se si allatta al seno a lungo non si riprende a fumare.
Se con gli adolescenti si deve introdurre il tema delle malattie sessualmente trasmesse, conviene prima sviluppare la riflessione sulle relazioni affettive, a partire dal rispetto delle scelte e dell’autonomia delle persone in relazione; recuperata la cognizione del piacere delle relazioni affettive sarà molto più facile trattare il tema dei rischi.
Nel nostro Paese si è lottato ferocemente contro l’applicazione della legge 833/78 da parte di chi deteneva il potere taumaturgico alleandosi con i politici in uno scambio perverso di mantenimento del potere e di clientela politica. Il ruolo dei sindaci, cioè della comunità non è stato riconosciuto e si è proceduto con grande determinazione all’impoverimento dei consultori familiari, nonostante le indagini mostrassero un maggior gradimento da parte delle donne della loro attività e migliori esiti di salute.
L’ostracismo altrettanto feroce verso l’applicazione del Progetto Obiettivo Materno Infantile, varato nel 2000 è stata la ulteriore dimostrazione da parte del biopotere di non voler riconoscere i cambiamenti di paradigma che il conflitto sociale aveva imposto cosi come di non voler accettare la valutazione scientifica della qualità, privilegiando la cialtroneria autoreferenziale di considerare la qualità espressa in termini di maggior numero di prestazioni per unità di risorsa. Cialtroneria ignorante perche se la prestazione è inutile o non appropriata, quindi non efficace, nel rapporto dell’efficienza lo zero al numeratore da valore zero al rapporto, qualunque sia il valore del denominatore.
Ma il conflitto ritorna e con Marx diremo, ben scavato vecchia talpa!
Michele Grandolfo
Condivido lo scritto di Grandolfo, o meglio, intuisco di condividerlo perche’….non e”robetta’,diciamolo.Grazie Michele.
Quanto sono belle e appassionanti le parole: rispetto,gentilezza,empatia,compassione e umilta’! andrebbero scritte negli ambulatori(qui a Bangui: Cabinet de Consultation), nei corridoi degli ospedali, in ogni luogo dove il paziente (Michele mi tira le orecchie….meglio scrivere:la persona) si incontra con l’erogatore di salute(e qui mi tira anche dell’altro).
(Mi) chiedo se le sue osservazioni non possano essere vere anche nei Paesi Poveri(PP). Credo di si. Vorrei l’opinione di altri che vivono in Africa come me : la medicina che io vedo dominare e’ quella calata dall’alto, specialistica, privata,rivolta alla malattia,al farmaco(che puo’ mancare),al ricorso ad indagini costose e non sempre utili. Tutta la bella parte di PHC fatta di educazione sanitaria, di empowerment della madre, di attenzione alla (buona) nutrizione e’ sempre piu’ dimenticata. Oggi la malnutrizione grave dei bambini si ‘cura’ con una pasta di arachidi prodotta e confezionata in Francia, nessuno si domanda se questa non sia un’altra ‘pillola’, per una condizione che non e’ una malattia, ma ben altro.
Che dire dell’approccio per HIV-AIDS? verticale, specialistico,farmacologico alla nausea?
A ben vedere chi si occupa di visione olistica del paziente(persona) e’rimasto il guaritore tradizionale. Pur sempre anche costui fornisce un farmaco, un anti-qualcosa, un rimedio, fosse anche una scarificazione. Anche lui detiene il potere taumaturgico di curare, e lo valorizza non poco.
Grazie
Massimo da Bangui