La salute in carcere: problema globale e italiano

Enrico Tagliaferri

Le pessime condizioni di vita dei detenuti, nel mondo e in Italia, rappresentano un’emergenza in termini di diritti umani e di sanità pubblica.


Secondo il sito Worldmapper.org  nel 2006 i detenuti nel mondo erano tra i 9 e i 10 milioni, corrispondenti a circa lo 0,15% della popolazione mondiale, un detenuto ogni 670 abitanti, ma metà di questi si trovavano in appena tre Stati: Stati Uniti (24%), Cina (17%) e Federazione Russa (9%), (vedi Figura 1)[1]. Esistono ampie variazioni tra un continente e l’altro e all’interno degli stessi, se si pensa ad esempio che il tasso di carcerazione è di circa 50 ogni 100.000 abitanti in Africa Sub Sahariana ma 362 nei paesi del sud del continente, 107 in Sud America ma 297 nei Caraibi, 54 nel Sub Continente Indiano ma 426 nelle ex Repubbliche Sovietiche dell’Asia Centrale, 69 nell’Europa del sud ma 213 in Europa Centrale e Orientale[2].

 

Figura 1. Presenza di detenuti in proporzione agli abitanti

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Fonte: Worldmapper.org 

Per capire quello che succede nelle carceri di buona parte del mondo si può leggere il recente rapporto sulla situazione delle galere in Uganda stilato dall’organizzazione non governativa Human Rights Watch[3]. Più di due terzi dei detenuti è in attesa di giudizio. Il numero di detenuti è pari in media a più del doppio della capacità delle strutture; i detenuti dormono stipati per terra in celle calde e sporche e in alcuni casi non c’è neanche posto sufficiente perché tutti possano sdraiarsi. Il vitto è scarso, quasi sempre lo stesso e privo di molti principi nutritivi essenziali, l’acqua sporca, i servizi igienici insufficienti. I malati vivono e lavorano insieme agli altri e i servizi sanitari sono assenti o inadeguati seppure, ad esempio, la prevalenza dell’HIV sia doppia rispetto alla media nazionale. Nelle aree rurali i detenuti sono sottoposti ad un pesante regime di lavori forzati nei campi, i cui profitti finiscono spesso nelle tasche delle autorità carcerarie. Le punizioni corporali e gli abusi fisici sono all’ordine del giorno.

Concentrandoci sull’aspetto sanitario, in generale i prigionieri sono esposti ad un maggior rischio di acquisire patologie di vario tipo, tra cui quelle a trasmissione oro-fecale, le ectoparassitosi e le malattie delle vie respiratorie a causa delle pessime condizioni igieniche e del sovraffollamento.

Molti studi hanno rilevato tra i reclusi in carcere una prevalenza di infezione da HIV maggiore che tra gli altri membri della stessa comunità, a parità di altre caratteristiche[4]. Un rischio maggiore è stato dimostrato anche per altre malattie tra cui epatite B, epatite C e tubercolosi[5]. Ciò è probabilmente dovuto sia a fattori di rischio preesistenti all’ingresso in carcere sia alle condizioni di vita della prigione. Negli Stati Uniti, alla fine del 2005, circa 7 milioni di persone si trovavano in carcere o libere sulla parola, persone che presentavano già all’ingresso una maggior prevalenza di numerose patologie, tra cui le malattie a trasmissione sessuale e la tubercolosi, e che vedevano aumentare ulteriormente il rischio di infezione durante la permanenza in carcere[6]. Una prevalenza maggiore di infezione da HIV, rispetto alla popolazione generale, è stata riscontrata non solo tra i prigionieri, ma anche nel personale di sorveglianza, il che conferma quanto siano determinanti le condizioni di vita del carcere, rispetto a fattori di rischio preesistenti[7].

Tra i fattori che possono favorire la diffusione dell’HIV in prigione rientrano il sovraffollamento, un clima generale di violenza, l’allontanamento dalla famiglia e dalla propria comunità, il livello di educazione generalmente basso dei prigionieri, la mancanza di informazioni sulla trasmissione dell’infezione e la scarsa disponibilità di servizi sanitari adeguati. In uno studio, anche se i prigionieri mostravano sufficiente conoscenza sull’argomento, finivano poi per avere comportamenti ad alto rischio, probabilmente a causa delle condizioni di vita all’interno del carcere[8].

 

L’omosessualità tra i prigionieri è un argomento delicato e poco esiste in letteratura sul ruolo che questa potrebbe avere nella diffusione dell’HIV in carcere; comunque, quel che è stato pubblicato sull’argomento fa pensare che si tratti di un fenomeno di rilievo e sottostimato[9]. L’omosessualità è ancora un crimine per la legge di molti paesi africani; questo rappresenta una violazione dei diritti umani, espone ingiustamente le vittime di tale discriminazione a rischi sanitari evitabili e rende l’omosessualità un fenomeno sommerso, poco conosciuto e poco accessibile a interventi sanitari. Il Sudafrica è tra i pochi paesi, a quanto risulta, a fornire profilattici ai prigionieri[10].

L’uso di droga per via endovenosa sembra al momento un fenomeno irrilevante nelle prigioni africane[11]. Al contrario, è un problema dalle dimensioni preoccupanti in altre aree geografiche: in Europa dal 10 al 42% dei detenuti riferisce un’assunzione abituale di stupefacenti in carcere, dall’1 al 15% per via endovenosa[12]. In proposito hanno dato buoni risultati programmi basati sulla terapia sostitutiva con metadone e buprenorfina e sulla disponibilità di siringhe sterili[13]. Nel 2009 erano 65 i paesi nel mondo che avevano adottato programmi basati sulla terapia sostitutiva, 37 di questi anche nelle carceri[14].

 

Drammatico è anche il problema della salute mentale: dei 2.000.000 circa di detenuti, in Europa, nel 2009, circa 400.000 soffrivano di disturbi psichiatrici[15].

 

Tassi di suicidio più elevati tra i detenuti che nella popolazione generale sono stati dimostrati in molti paesi[16,17] e le ragioni secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono la concentrazione in carcere di soggetti a rischio come le persone affette da disturbi mentali, abuso di sostanze, isolamento sociale e storia di precedenti tentativi di suicidio, l’impatto psicologico dell’arresto e della detenzione, le crisi di astinenza, la consapevolezza di una lunga condanna, lo stress quotidiano delle difficili condizioni di vita in carcere, la mancanza di procedure per identificare e gestire i casi a rischio, sovraccarico di lavoro e mancato addestramento del personale, limitato accesso ai servizi psichiatrici[18]. È stata dimostrata una maggior tendenza al suicidio anche tra le persone recentemente rilasciate: difficile dire se questo sia riferibile agli effetti prolungati dell’esperienza detentiva, al trauma del reinserimento oppure ad un rischio preesistente ed indipendente dalla carcerazione[19]. Alcuni paesi hanno messo in atto programmi di prevenzione dei suicidi in carcere, essenzialmente basati sulla precoce identificazione dei soggetti a rischio, la loro osservazione e l’adozione di misure sanitarie, sociali e ambientali, con risultati significativi[20,21,22,23].

Esiste un ovvio problema di accesso ai servizi sanitari, tanto più grave in caso di malattie croniche che necessitano di cure continue e regolari controlli, come nel caso dell’infezione da HIV. Uno studio recente condotto negli USA ha rilevato che anche il fatto di essere stato in carcere in passato era associato ad un minor accesso ai servizi sanitari, probabilmente in relazione all’appartenenza alle comunità afroamericana o ispanica, e più in generale allo status sociale[24].

 

La situazione italiana

La situazione in Italia è scandalosa. I detenuti in Italia non sono mai stati così tanti come adesso: 67.000 in strutture pensate per contenerne circa 45.000[25]. Gli stranieri sono circa 25.000, provenienti principalmente da Nord Africa, Romania e Albania[26].

Secondo un’indagine condotta nel 2007 in 14 delle 205 carceri italiane, il 38% dei detenuti risulta affetto da infezione da epatite C[27]. Nel 2006 risultavano infetti da HIV 1.522 detenuti, pari al 2,5%[28], ma stime più recenti arrivano a 4-5.000 detenuti HIV positive, la maggior parte non nota ai servizi sanitari[29]. Da un quarto ad un terzo circa dei detenuti italiani avrebbe problemi di tossicodipendenza secondo diverse stime.

I suicidi tra i detenuti sono stati 42 dal 1 gennaio all’8 agosto 2011, 1093 dal 1990 al 2010[30]. Per fare un confronto con quello che succede fuori dal carcere, ogni anno si verificano in Italia un suicidio ogni 20.000 abitanti, nelle carceri un suicidio ogni 924 detenuti, uno ogni 283 detenuti in regime 41-bis, un tentato suicidio ogni 70 detenuti, un atto di autolesionismo ogni 10 detenuti, uno sciopero della fame ogni 11 detenuti, un rifiuto delle terapie mediche ogni 20 detenuti[31]. Il tasso di suicidi tra i detenuti in Italia è leggermente superiore a quello medio europeo e di gran lunga superiore a quello degli Stai Uniti[32]. È stata dimostrata una relazione tra regime detentivo e tendenza al suicidio: un terzo dei suicidi si verifica in cella d’isolamento e più in generale il suicidio è più frequente tra i detenuti sottoposti a restrizioni delle relazioni sociali e delle attività lavorative e ricreative; è stato anche dimostrato che il tasso di suicidio è più frequente nelle carceri più affollate[33]. Più di 6.600 detenuti nel 2010 hanno effettuato lo sciopero della fame nelle carceri italiane per protesta verso le condizioni di detenzione[34].

Non sono rari neanche i suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria, il cui organico non è mai stato ridotto come oggi e che sono spesso anche loro vittime di un sistema carcerario malato[35].

Per ridurre il sovraffollamento delle carceri il primo passo è mettere in atto politiche sociali per ridurre il numero dei reati. È anche necessario accelerare i tempi della giustizia se si pensa che nel 2006 sono stati stimati nel mondo circa 2,8 milioni di detenuti in attesa di una condanna definitiva, di cui il 30% ancora in attesa di un primo giudizio; in alcuni paesi la percentuale di detenuti ancora in attesa di giudizio era altissima: 84% ad Haiti, 77% ad Andorra, 75% in Bolivia[36]. Un’altra strada percorribile è quella delle misure alternative, probabilmente sottoutilizzata. Costruire nuove carceri ci pare l’ultima delle opzioni.

Dal punto di vista più strettamente sanitario, il fatto di avere tanti individui a lungo concentrati in uno stesso luogo offre agli operatori di sanità pubblica l’opportunità di programmare più facilmente interventi mirati, ad esempio per la diagnosi di HIV e tubercolosi. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità dovrebbero essere messi in atto programmi specifici per il trattamento di HIV, epatite C e tubercolosi, programmi specifici rivolti ai tossicodipendenti e politiche di riduzione del danno, dovrebbero essere redatte linee guida sulle misure igieniche nelle carceri, dovrebbe essere garantita un’assistenza completa dall’ingresso in carcere fino al rilascio e anche dopo, in collaborazione con i servizi sociali e sanitari operanti fuori dal carcere, dovrebbe essere disponibile un’assistenza psicologica per i malati, dovrebbero essere effettuati programmi di formazione per tutto il personale delle carceri sulla prevenzione, il trattamento e il controllo delle malattie infettive[37].

Eppure interventi rivolti ai detenuti trovano raramente spazio nei programmi di cooperazione, forse perché si pensa non garantiscano un ritorno d’immagine. In Italia non si riesce ad uscire da una logica emergenziale, ricorrendo periodicamente a provvedimenti d’urgenza straordinari tipo indulto, senza un ragionamento per il futuro.

Il carcere non è un mondo totalmente isolato dall’esterno: i visitatori e il personale di sorveglianza entrano ed escono, molti prigionieri sono detenuti in attesa di giudizio e alcuni altri sono condannati a brevi periodi di detenzione. Ciò che avviene tra le mura del carcere quindi, può anche avere ripercussioni sulla società nel suo insieme. Riferendoci al modello dei determinanti sociali di salute, la permanenza in carcere ha un effetto disastroso sulla salute delle persone che la società si trova prima o poi a dover gestire.

 

Le condizioni di vita nelle carceri del mondo, Italia compresa, rappresentano un’emergenza in termini di diritti e di sanità pubblica. Per rispondere a questa emergenza è necessario uno sforzo della politica, dei servizi sociali e sanitari, dell’opinione pubblica.

Enrico Tagliaferri. Infettivologo, Azienda Ospedaliera Pisana

Bibliografia


  1. Prisoners. Worldmapper.org. [Ultimo accesso 28.082011]
  2. Research, Development and Statistics Directorate. World Prison Population List. Fourth Edition.
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  28. Ministero della Giustizia. Dati aggiornati al 30.06.2006.
  29. Sergio Babudieri. HIV e HCV: la salute nelle carceri italiane. Saluteincarcere.it 
  30. Centro Studi di Ristretti Orizzonti. 15 agosto 2011
  31. Centro Studi di Ristretti Orizzonti. 15 agosto 2011
  32. Centro Studi di Ristretti Orizzonti. 15 agosto 2011
  33. Centro Studi di Ristretti Orizzonti. 15 agosto 2011
  34. Ministero della Giustizia, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Eventi critici negli istituti penitenziari. 2010
  35. Carceri, gironi infernali Sovraffollati, sporchi e senza soldi. Unita.it. 13.08.2010
  36. Prisoners Awaiting Trial. Worldmapper.org Ultimo accesso 29.08.2010.
  37. WHO. Prison health – HIV, drugs and tuberculosis. Fact sheet Copenhagen and Madrid, 29.10.2009.

3 commenti

  1. concordo sulla valutazione che la situazione nelle carceri italiane sia scandalosa. E’ necessario che vengano attivati ovunque programmi che consentano di far scontare la pena in modo alternativo al carcere. E’ importante che questi programmi siano fatti conoscere.

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