Il sale della vita
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- 1 Dicembre 2011
“La riduzione di sodio è importante – afferma la ditta di zuppe Campbell – ma dobbiamo occuparci anche di altre cose come il gusto e gli aspetti culinari”.
Il paradigma del sale sta cambiando. Da elemento essenziale e sicuro per conservare il cibo, al centro del commercio mondiale già in epoche antiche, è oggi un additivo alimentare abbondante e senza restrizione, quasi onnipresente. Di conseguenza viene spesso consumato inavvertitamente, nascosto in cibi lavorati e confezionati e assunto in eccesso. L’eccessivo introito di sale fa parte, insieme al consumo di tabacco e alcol e all’inattività fisica, dei principali fattori di rischio delle Non-Communicable Diseases (NCD) in continuo aumento nei paesi a medio e basso reddito.
Come priorità di intervento per combattere le NCD la riduzione del sale è seconda solo al controllo del tabacco[1].
Si stima che una riduzione del 15% del quantitativo di sale assunto giornalmente possa evitare 8,5 milioni di morti in 10 anni in tutto il mondo L’obiettivo della World Health Organization è di ridurre l’assunzione a meno di 5 g (2000 mg di sodio) al giorno entro il 2025[2].
Nell’Odissea, Ulisse peregrinerà, secondo la profezia di Tiresia, fino a quando non incontrerà gente che non conosce il mare, che non condisce il cibo con il sale e non sa usare il remo (Odissea, XXIII libro). Per un popolo come i greci, il mare e salare il cibo hanno lo stesso carattere di universalità. Quest’aspetto viene conservato anche per sottrazione: la riduzione dell’assunzione di sale è efficace nell’abbassare la pressione ematica sia negli uomini che nelle donne, in tutti i gruppi etnici, in tutte le fasce di età e da qualsiasi livello di pressione partano.
La pressione alta è la maggiore causa di morte e disabilità nel mondo, a cui si deve circa il 50% delle morti per malattia coronarica e più del 60% degli ictus[3].
Una modifica del comportamento o delle scelte a livello individuale non è un’opzione realistica ed efficace quando il sale viene aggiunto prima ancora che l’alimento venga venduto. L’aggiunta di sale è un trend globale che fa parte delle modifiche dell’economia mondiale del cibo.
La relazione fra assunzione di sale con la dieta e pressione sanguigna fa sì che anche una piccola diminuzione della sua distribuzione renda possibile una riduzione del livello di pressione ematica.
Una riduzione di 4,6 g nella dieta giornaliera (equivalente a 1840 mg di riduzione di sodio) riduce la pressione ematica di circa 5,0/2,7 mm Hg in persone ipertese e di 2,0/1,0 mm Hg nei normotesi. Diversi trial randomizzati hanno mostrato un consistente effetto dose risposta[4].
Nonostante tutte queste evidenze a giugno il colosso Americano delle zuppe, la Campbell, ha annunciato l’innalzamento dei livelli di sodio, dai 480 mg fino ai 650 mg. Al precedente limite si era arrivati grazie a una politica di riduzione di contenuto del sale, ma le politiche di mercato hanno reso necessario il cambiamento “La riduzione di sodio è importante – ha commentato il nuovo amministratore delegato Denise Morrison – ma dobbiamo occuparci anche di altre cose come il gusto e gli aspetti culinari”[5].
D’altronde il sale è la fonte più comune per dare sapore nei cibi processati e soprattutto la più economica.
Il contrasto di interessi tra salute pubblica e industria del cibo era già ben espresso in un editoriale del 1996 del BMJ che denunciava il rifiuto da parte dei produttori degli alimenti di cooperare e riformulare i loro prodotti e il tentativo di manipolare i risultati degli studi che mostravano il chiaro legame tra assunzione di sale e ipertensione[6].
La campagna è stata anche combattuta, come spesso accade in questi casi, sulle testate giornalistiche: nell’agosto del 1994 dalle pagine del Daily Telegraph e del Sunday Telegraph una review sui disturbi cardiovascolari che mostra lo stretto legame con l’eccessiva assunzione di sale viene screditata ancora prima di essere pubblicata e bollata come opera di un gruppo di attivisti del cibo sinistrorsi. A questo seguì nel maggio del 1995 il rifiuto da parte dei rappresentanti dell’industria a partecipare alla discussione con una task forse governativa su come ridurre il contenuto di sale negli alimenti. Una battaglia simile era già stata portata avanti dalla Sugar Association negli Stati Uniti e dal Sugar Bureau nel Regno Unito per contrastare il legame con obesità e carie dei denti.
Il Regno Unito sembra però essere riuscito nel suo intento. Nel 2004 il governo britannico attraverso la Food Standards Agency, ha messo a punto un programma che comprendeva campagne di informazione per la popolazione e coinvolgimento dell’industria alimentare, che poteva scegliere di diminuire volontariamente il contenuto di sale o, in caso di rifiuto, subire un intervento ministeriale. Come risultato l’assunzione di sale nella popolazione è passato da 9,5 g del 2001 a 8,6 g del 2008.
Buoni risultati, anche se non confrontabili con chi, come la Finlandia, ha iniziato la sua battaglia presto. La campagna, cominciata negli anni settanta, è riuscita a ridurre l’introito giornaliero di sale di un terzo (arrivando a 6 g al giorno), la pressione ematica di 10 mm Hg e ad abbassare del 75-80% la mortalità per stroke e malattia coronarica con un incremento da 5 a 6 anni nell’aspettativa di vita.
Gli esempi che arrivano da tutto il mondo (Tabella 1 – PDF: 100 Kb) mostrano come la società civile, i governi, l’accademia e le organizzazione della salute siano tutte coinvolte.
La base per una politica comune per regolare l’assunzione di sale dovrebbe essere composta da 4 aspetti fondamentali:
- Stabilire una comunicazione e valutare le campagne di informazione per il pubblico
- Riformulare il contenuto in sale negli alimenti esistenti e coinvolgere l’industria nello stabilire standard per i nuovi alimenti prodotti.
- Monitorare l’assunzione di sale nella popolazione, i progressi ottenuti dalla riformulazione e l’efficacia della comunicazione.
- Regolazione e coinvolgimento dell’industria, prestando attenzione al non creare svantaggi per le aziende maggiormente coinvolte[4].
Negare o rimandare il problema, avvertono gli esperti, avrà un costo sia in termine di spese sanitaria che di malattia evitabile.
Domitilla Di Thiene. Specializzanda in Igiene e Medicina preventiva, Sapienza Università di Roma – Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica
Bobliografia
- Beaglehole R, Bonita R, Horton R, Adams C, Alleyne G, Asaria P, et al. Priority actions for the non-communicable disease crisis. Lancet 2011;377:1438-47.
- Legowski B, Legetic B. How three countries in the Americas are fortifying dietary salt reduction: a north and south perspective. Health Policy 2011;102:26-33.
- Lopez AD, Mathers CD, Ezzati M, Jamison DT, Murray CJ. Global and regional burden of disease and risk factors, 2001: systematic analysis of population health data. Lancet 2006;367:1747-57.
- Cappuccio FP, Capewell S, Lincoln P, McPherson K.Policy options to reduce population salt intake. BMJ 2011;343:d4995. doi: 10.1136/bmj.d4995
- Geller M. Campbell adds salt to spur soup sales. Reuters, 07.12. 2011
- Godlee F. The food industry fights for salt. BMJ 1996;18;312:1239-40.
Sarebbe interessante sapere quanto si risparmierebbe anche in termini di minor consumo di antipertensivi.
In ogni caso l’articolo (complimenti!) ribadisce la necessità di una ricerca ed una informazione scientifica indipensente.
Ma c’è un punto da cui si può, si deve partire. Dall’origine del gusto: dall’allattamento al seno prolungato (da promuovere, sostenere, difendere non fosse altro perchè è nel desiderio, dalle mie ripetute indagini di popolazione, del 95% delle donne e, guardandoli pieni di felicità quando prendono il latte materno, presumo anche dei bambini)per proseguire restituendo la competenza all’avvicinamento agli altri cibi (altrimenti detto impropriamente svezzamento perchè l’allattamento al seno non è un vizio) alla mamma, eventualmente aiutata a recuperare ed esprimere la sua competenza, e al bambino che è competente perchè sperimenta la procedura del “trial and error”.
Evitando con cura l’alimentazione industriale. Il risparmio di risorse evitando i latti artificiali e le pappe industriali (gli adulti provino ad alimentarsi per settimane, mesi con tali intrugli e poi vediamo cosa dicono) può essere più appropriatamente investito verso una alimentazione biologica di qualità secondo il modello della dieta mediterranea (che è utile ricordare è un prodotto della scienza delle donne, alimentazione valida per tutti in tutte le fasi della vita).
Se le risorse dirottate verso l’alimentazione artificiale ed industriale vanno a finire in rendite improduttive e in processi produttivi a bassa densità di manodopera, le stesse risorse investite nell’alimentazione di qualità, per il latte materno sostenendo la mamma nel poter allattare a lungo assentandosi dal lavoro, per l’alimentazione di proseguimento favorendo la produzione biologica di qualità, processo questo ad alta densità di manodopera qualificata.
Senza trascurare il patrimonio di salute che si accumula con l’allattamento al seno prolungato e le malattie evitate e l’obesità, il tutto con ingenti risparmi di risorse per le cure riparatorie.
Allora si può avere l’origine e l’educazione al gusto e il sale verrebbe usato, come deve essere, con molta saggezza.
michele grandolfo