Assalto all’universalismo
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- 30 Gennaio 2012
Nerina Dirindin e Gavino Maciocco
Quello che sta accadendo in Gran Bretagna può insegnare qualcosa al resto dell’Europa? E all’Italia? Dove Il quadro è estremamente preoccupante. La crisi economico-finanziaria sta imponendo al nostro welfare revisioni e ridimensionamenti che rischiano di andare oltre il pur necessario contenimento delle inefficienze e il doveroso contributo al risanamento della finanza pubblica.
È possibile che la Gran Bretagna, la culla del welfare state, sia teatro di un assalto senza precedenti all’universalismo?
Per rispondere a questa domanda – si legge in un recente articolo del BMJ [1] – è necessario tornare indietro agli anni 40, quando in Gran Bretagna fa istituito un robusto sistema di welfare universalistico, quello che partorì il Servizio Sanitario Nazionale. Il suo ideatore, Sir William Beveridge, era un parlamentare liberale, ma il progetto fu attuato dal Partito Laburista e continuato dal Partito Conservatore. Le ragioni di un così ampio consenso sono numerose ma la più importante è quella di aver fornito alla gente comune la sicurezza nel caso che il mondo intorno gli dovesse crollare.
C’erano buone ragioni per ricercare la sicurezza. Il popolo britannico era uscito da una guerra che aveva mostrato che chiunque, indipendentemente da quanto fosse in alto nella scala sociale, poteva in un istante trovarsi a terra. La morte e la distruzione della guerra non erano le uniche minacce; una malattia seria poteva mandare in rovina una famiglia. La guerra insegnò alla popolazione la virtù del razionamento del cibo e del combustibile, cosicché in un momento di grave carenza tutti potessero avere accesso ai beni essenziali. Tutto ciò preparò l’opinione pubblica a sostenere con convinzione un sistema di welfare che, finanziato attraverso la fiscalità generale, garantiva a tutti la sicurezza sociale.
La situazione post-bellica negli Stati Uniti fu molto differente per diversi motivi. Mentre in Europa il sistema industriale fu devastato dalla guerra, le imprese americane si rafforzarono proprio grazie alle spese militari e quindi la popolazione americana non sperimentò le condizioni di ristrettezza che in Inghilterra avevano favorito il forte senso di coesione sociale. Tuttavia la differenza cruciale fu nel ruolo della questione razziale nella società americana. In America il ricco (bianco) non può mai cadere in fondo alla scala sociale perché quella posizione è già occupata. Occupata dai neri che soffrono di una ampia e diffusa condizione di discriminazione. Gli Europei sanno che possono andare a letto ricchi e svegliarsi poveri, ma i ricchi americani, bianchi, sanno che non potranno mai svegliarsi neri.
Le conseguenze di ciò sono evidenti a tutti i livelli nella società americana. Nelle indagini di popolazione il supporto per il welfare tra gli americani bianchi è fortemente influenzato dalla razza della popolazione povera che vive intorno a loro: più generosi se i loro vicini poveri sono bianchi. Le divisioni razziali continuano a minare la propensione a sostenere il welfare. Negli Stati con più alta proporzione di afro-americani i contributi al welfare sono molto meno abbondanti.
La resistenza degli americani a finanziare il welfare è dovuta al fatto che questo non è visto come uno strumento per assicurare la propria famiglia contro un evento catastrofico, ma piuttosto come il pagamento di una tassa a favore di persone di cui non si condivide l’identità. In questo modo i poveri si trovano divisi in due gruppi: da una parte i “meritevoli (di assistenza)” (“deserving”) e dall’altra i “non meritevoli” (“undeserving”).
Una seconda differenza è che gli americani tendono, molto più degli europei, ad attribuire la condizione di povertà alla pigrizia piuttosto che alla sfortuna. Se i ricchi vogliono aiutare i poveri possono usare la filantropia che è incoraggiata dal sistema fiscale e facilitata da una forte cultura religiosa e da un’altrettanto forte avversione per lo Stato. Tuttavia, il contributo volontario significa che i donatori possono selezionare i beneficiari della loro generosità, piuttosto che lasciare la scelta al sistema democratico. Negli USA più di un terzo della spesa sociale viene dai contributi volontari, mentre in Europa questi rappresentano meno di un decimo.
Un terzo fattore di differenza è la debolezza in USA dei sindacati e dei movimenti di sinistra. In Europa i sistemi di welfare si sono sviluppati in presenza di sindacati forti e di partiti progressisti al governo.
Capire da dove viene il denaro per finanziare il sistema di welfare è solo la metà del quadro delle differenze tra USA e Europa. L’altro aspetto riguarda ciò che lo Stato restituisce in cambio delle tasse: molto meno in USA rispetto all’Europa. In ogni campo gli Stati Uniti sono meno generosi: dall’istruzione all’assistenza sanitaria, ai sussidi di disoccupazione. E i ricchi beneficiano molto poco e sempre meno, dopo che lo Stato, ad esempio, ha ridotto gli investimenti nelle università pubbliche. Il vantaggio del sistema americano, se sei ricco, è che paghi molte meno in tasse. Non solo: il sistema basse tasse/basso welfare è così distorto che un miliardario paga in proporzione molto meno in tasse rispetto ai lavoratori con basso reddito, così avviene che i poveri sussidiano i ricchi. All’inverso, in Scandinavia le tasse sono alte ma – di ritorno – i ricchi ricevono, gratis o a costo minimo – un pacchetto di benefici di alta qualità: dall’assistenza sanitaria alla cura dei bambini, dall’assistenza sociale all’educazione universitaria. C’è un chiaro trade-off : tu paghi le tasse ma ottieni molto in cambio (oltre a vivere in una società più armoniosa e sicura).
Così per coloro che vogliono distruggere il modello europeo di welfare, la strutturale debolezza del welfare americano offre un modello attraente. Primo: creare un ben identificabile gruppo di poveri “non meritevoli”. Secondo: creare un sistema in cui i ricchi ricevono pochi benefici in cambio dei tributi che pagano. Terzo: diminuire l’influenza dei sindacati, rappresentandoli come difensori di interessi ristretti e egoistici, dimenticando che storicamente alti tassi di adesione ai sindacati hanno prodotto benefici per l’intera popolazione. Infine, come fece Reagan quando tagliò il welfare negli anni 80, agire in modo da attirare meno attenzione possibile, mettendo in atto politiche le cui implicazioni sono poco chiare e i cui effetti si vedranno solo nel futuro.
Tutte queste strategie possono essere osservate nella Gran Bretagna di oggi.
La stampa inglese, gran parte in mano di editori ricchissimi, è in prima linea nel sostenere il primo approccio. Ogni giorno riempiono pagine e pagine di casi di persone che spremono in maniera ingiustificata il sistema (“people milking the system”) e lo fanno in maniera costante e sistematica con l’obiettivo di creare una nuova forma di associazione di parole: “welfare” = “scroungers” (“scrocconi”). Essi accettano che ci sia un gruppo di poveri “meritevoli”, la cui condizione deriva da una “genuina” sfortuna, ma quando questi gruppi appaiono nelle loro pagine è per denunciare che essi sono stati abbandonati dallo Stato, che invece concentra i suoi sforzi a favore dei poveri “non meritevoli”. Una crescente massa di ricerche dimostra che questa continua dieta di odio riesce a fare la differenza. Provocare disgusto nei confronti dei poveri “non meritevoli” non è nuovo. Ciò che sta cambiando in Gran Bretagna è la progressiva esclusione delle classi medie dal welfare attraverso la progressiva erosione dei benefici universali. La logica è attraente, ma estremamente divisiva: perché lo Stato dovrebbe pagare per coloro che si possono permettere di pagare da sè? Perché operai e impiegati (“ordinary working people”) dovrebbero pagare per benefici goduti dalla classe media? La crisi economica ha offerto al governo l’opportunità che capita una sola volta nella vita. Come Naomi Klein ha descritto in molte differenti situazioni, quelli che si oppongono al welfare state non sprecano mai una buona crisi. Il deficit deve essere ridotto e così, uno a uno, i benefici vengono rimossi e i gruppi vengono messi l’uno contro l’altro e alla fine l’interesse della classe media per il welfare svanisce.
L’esperienza della Gran Bretagna può aiutarci a capire quanto sta accadendo in Italia?
Il quadro è estremamente preoccupante. La crisi economico-finanziaria sta imponendo al nostro welfare revisioni e ridimensionamenti che rischiano di andare oltre il pur necessario contenimento delle inefficienze e il doveroso contributo al risanamento della finanza pubblica.
Per quanto riguarda la sanità, le recenti manovre hanno previsto tagli ai fondi per il Servizio Sanitario Nazionale che arriverebbero a raggiungere nel 2014 un valore pari a circa mezzo punto di Pil (poco meno di 8 miliardi di euro, su un Pil che purtroppo cresce molto lentamente).
Ai tagli nel settore sanitario, si aggiunge il quasi totale azzeramento dei fondi statali per gli interventi sociali che nel 2013 saranno pari a circa un decimo di quelli stanziati nel 2008.
Più in generale, la riduzione delle entrate delle Regioni e degli Enti locali (conseguente alle manovre del 2011) e le incertezze legate al processo di attuazione del federalismo fiscale rendono impraticabile qualunque intervento da parte dei livelli decentrati di governo.
L’effetto complessivo di tali pesanti restrizioni non potrà che gravare sulle persone più fragili. A questo si aggiunge il rischio di una progressiva demotivazione degli operatori, del sociale e del sanitario, sui quali ricadono condizioni di lavoro sempre più pesanti e la “responsabilità” di negare i servizi alle persone.
Di fronte a tali difficoltà, il rischio è che siano sacrificati i principi di fondo che il nostro sistema di tutela della salute ha da tempo adottato. È più semplice infatti tagliare intere aree di intervento, superare l’universalismo, rinviare a complesse riorganizzazioni dei servizi piuttosto che intervenire più semplicemente sulle tante, piccole e grandi inefficienze e inadeguatezze che si celano all’interno di un sistema le cui fondamenta e la cui funzionalità vanno invece riconosciute e preservate.
La crisi NON può diventare la giustificazione di un rovesciamento dei principi.
I segnali di “assalto” all’universalismo non mancano neanche in Italia. Il tentativo di sostituire le politiche sociali con la beneficienza (voluto dal governo Berlusconi e sintetizzato nel disegno di legge delega per la riforma fiscale e assistenziale in discussione in Parlamento), l’introduzione di un superticket che rende più conveniente rivolgersi alla sanità privata piuttosto che alle strutture pubbliche (un provvedimento assurdo e autolesionista, deciso da chi è responsabile del sistema che ne viene danneggiato), la previsione di un ulteriore forte aumento dei ticket (2 miliardi dal 2014, un onere per gli assistiti quasi doppio rispetto all’attuale), le ipotesi di abolizione delle esenzioni per patologie alle classi medio-alte (con la conseguente riduzione dei benefici loro garantiti al momento del bisogno, nonostante il prelievo fiscale che sopportano), le campagne contro i falsi invalidi e i falsi poveri (sulla base di pochi casi, biasimevoli ma che continuano ad essere una eccezione), la distrazione dei fondi per gli investimenti in sanità (riallocati a favore di altre finalità, mentre gli ospedali sono sempre più obsoleti), la continua proroga dell’intramoenia allargata (una diffusa e odiosa pratica selettiva), l’espansione delle forme integrative di assistenza (che si avvantaggiano delle agevolazioni fiscali), non sono che alcuni esempi della tendenza a favorire da un lato il depauperamento del sistema universalistico e dall’altro lo sviluppo di forme alternative di tutela.
Eppure, nonostante la pesante crisi economica e il conseguente sensibile aumento del rapporto spesa/Pil, in Italia la spesa sanitaria totale (pubblica e privata) è ancora nettamente inferiore a quella dei paesi con livello di sviluppo simile al nostro: 9,5% del Pil nel 2009 (11,8% in Francia, 11,6% in Germania, 10% in Svezia, 9,8% nel Regno Unito). Anche la spesa sanitaria pubblica si assesta su livelli inferiori rispetto sia a quelli dei paesi con sistemi di sicurezza sociale (per lo più di tipo categoriale, come Francia, Germania, Austria) sia a quelli dei paesi scandinavi con sistemi universalistici.
Anche le stime delle morti evitabili attraverso interventi sanitari tempestivi e appropriati (Oecd 2010) vedono l’Italia fra i paesi più avanzati: su 27 paesi, il nostro occupa il terzo posto (dopo Francia e Islanda) per il minor numero di morti evitabili. E ciò nonostante il basso tasso di ospedalizzazione (il 24% in meno della media europea) e la bassa spesa sanitaria pubblica.
Per questo, è necessario uno straordinario e prolungato impegno da parte di ogni persona affinché il sistema di tutela della salute non venga travolto ma, al contrario, venga migliorato e consolidato.
Nerina Dirindin, Università di Torino, Gavino Maciocco, Università di Firenze
Bibliografia
McKee M, Stuckler D. The assault on universalism. BMJ 2011; 343:1314-17
Ridateci Rosi Bindi! accompagnata da un popolo consapevole, naturalmente. forse diffondendo questo post aumenteremo la probabilità di avere un popolo consapevole.
Sono perfettamente d’accordo con la analisi fatta da voi. La situazione del welfare ha ragioni molto profonde che derivano da quello che chiamo il secondo livello di alienazione di Homo sapiens ( il primo era quello di credere che la vita e il mondo fossero essenzialmente macchinette con un programma di DNA da fare artificialmente secondo progetto). Il secondo livello di alienazione é la attuale credenza conscia o inconscia che il valore primario sia per il welfare che per la vita in genere sia il denaro online e che la materia, viva non sia una appendice di scarsa importanza del denaro circolante. Non a caso, come hanno scritto in un bellissimo “Manifesto degli economisti atterriti” 600 economisti in Francia, il debito pubblico non deriva dalla spesa pubblica che in piccola parte ma viene invece dalle perdite degli Stati in Borsa con i titoli sovrani edall’abbasamento delle tasse di molti Paesei o da noi dall’aumento della evasione. Anche questo Governo , che pure non é fatto di idioti, nani , ballerine ( senxza offesa alla categoria, ladri e mascalzoni, é erò completamente ligio ai comandi della finanza e bada solo al debito monetario dimenticando completamente il crescente e terribile debito verso la vita nostra e anche delgi altri abitanti dela terra. Per cui le ultime cose a cui si bada hanno a che fare con il welfare, il posto di lavoro, la conoscenza, l’ambiente vivente e cioé i beni comuni umani tutti. IO credo che bisogni cominciare a dire queste cose e a far capire anche alla gente che l’umanità in questo modo si suicida e uccide anche la vita non umana. Per cui bisogna attaccare il comportamento dei governi succube alle potenze finanizarie che puntano soltanto all’aumento della del tutto virtuale ricchezza monetaria di cui circa il 7% soltanto secondo le ultime analisi é costituito da merci. Proviamno a ragionare anche inquesti termini che anche i nostri eonomisti tolta unaminoranza intelligente, non sfiorano nemmeno. Un abbraccio Marcello
Trovo molto interessante l’analisi dell’articolo e mi permetto di segnalare la frase “.. È più semplice infatti tagliare intere aree di intervento, superare l’universalismo, rinviare a complesse riorganizzazioni dei servizi piuttosto che intervenire più semplicemente sulle tante, piccole e grandi inefficienze e inadeguatezze che si celano all’interno di un sistema ..”.
A questo proposito segnalo come una molteplicità di interventi medici attualmente proposti sia dal punto di vista diagnostico che terapueutico sono ben lungi dall’essere “evidence based” e pertanto quelli che vengono definite “piccole inefficienze” tanto piccole poi non sono se estese su scala di popolazione.
Tanto per citarne qualcuna, l’esecuzione di screening mammografici e pap test al di fuori di ogni controllo non apportano alcun beneficio in termini di “popolazione” esponendo la maggior parte dei soggetti a potenziali nuovi accertamenti che amplificano costi e inefficienze.
Ci sarebbe bisogno insomma, di “meno sanità” e maggiori interventi socio educativi. Lo torno a ripetere, con molto meno di quanto oggi abbiamo a disposizione (sprecandolo) si potrebbe ottenere lo stesso livello di performance come risultati clinici, lasciando ad un VERO secondo livello, gli accertamenti più costosi e complessi, liberando risorse per tutto il resto.
Dovremmo essere noi medici e non i tecnocrati più o meno travestiti da politici a “decidere” cosa serve al nostro lavoro e abbandonare tanta zavorra che appesantisce e depaupera il sistema in mille inutili rivoli.
Se poi ci pensa la crisi finanziaria a costringerci a tutto ciò, beh, motivo in più per accelerare le “dismissioni” di quanto di inutile ci portiamo dietro. Daremmo un grande segnale di credibilità a tutti!
“E’ necessario uno straordinario e prolungato impegno da parte di ogni persona”. Così’ si conclude l’articolo ma e’ questo il nodo che da molti anni tutti noi,ognuno nel suo ambito,cerchiamo di sciogliere ma non troviamo le strategie e le alleanze adeguate alla posta in gioco.
Non ho strumenti solidi per una analisi del livello nazionale ma il livello regionale non sta presentandosi attrezzato per sostenere con serietà le sfide che l’articolo presenta chiaramente.
I documenti ufficiali contengono certamente tutti gli ingredienti formali necessari ma:
la sostanza delle decisioni ha un chiaro carattere economicista,
le scelte delle figure dirigenziali delle Aziende,pur nel rispetto delle competenze dei singoli,hanno il carattere preciso di personaggi che lascino alla politica lo spazio per le proprie decisioni con margini di manovra ridottissimi e con Chiara richiesta di rigida adesione alle indicazioni regionali,
non esistono strategie di costruzione di una nuova alleanza con tutti i professionisti superando la situazione attuale che vede sempre le stesse figure di rappresentanza senza aprire strade nuove a soggetti nuovi con cui poter lavorare in termini nuovi ( ripetere sempre che la vecchia guardia e’ fatta di gente seria e non si affacciano soggetti nuovi in grado di reggere la partita e’ una comoda scusa per non cambiare nulla),
lo spazio concesso alla realtà ospedaliera continua ad essere,nei fatti, ben più ampio di quanto dichiarato soprattutto per quanto riguarda la perdurante intoccabilità delle Aziende Ospedaliere dove le nicchie di spreco concreto
Lo straordinario e prolungato impegno e’ certamente possibile e conosco tanti soggetti sia interni al servizio sanitario che esterni preparati e disposti,ma manca ( aiutatemi se sono io senza gli occhiali) un interlocutore politico con cui potersi confrontare. Le scelte della regione sono scelte che non partono da un dibattito allargato ma dalle indicazioni di vincolo nazionale e dalle esigenze dei bilanci.
Infine l’ aspetto che condivido maggiormente,alla luce della mia esperienza, e’ la concreta possibilità di piccoli ma numerosissimi interventi di azione nelle diverse fasi dell’offerta.ho visto troppo spesso privilegiare scelte di grande impatto senza dedicare sforzi adeguati a piccole strategie su cui e’ possibile costruì buone e solide alleanze.
Sono perfettamente d’accordo con Nerina e Gavino, oltre che nella aggiunta di Andrea Mangiagalli (non sono piccole le inefficienze) e degli altri.
Mi spiace che fra i SSN ci si dimentichi spesso del Canada, che a mio parere resta un modello.
I nostri politici fuggono dalle decisioni tragiche e poichè oggi si deve tagliare preferiscono mandare avanti i funzionari, col vincolo stretto del bilancio da rispettare. Lo scollamento della sanità dalla politica è foriero di tempi ancora più brutti per l’universalismo.
Drammatico l’esempio della mia regione Emilia Romagna, dove le compartecipazioni sono state distribuite equamente, a dire della Giunta, che se ne vanta: in realtà si mette una bomba a tempo sotto l’universalismo, con la giustificazione che i ricchi malati devono pagare di più dei poveri malati. E’ una scelta demagogica, che non tiene conto della vecchia regola di finanza liberale, secondo la quale la perequazione deve essere perseguita quando i cittadini producono e accumulano ricchezza e non quando sono malati.
Il guaio è che lo stesso Ministro Prof.Balduzzi pare voler prendere l’ER come modello per l’applicazione delle compartecipazioni secondo l’ISEE.
Carlo Hanau
L’elenco dei punti assalto all’universalismo è sintetico e veramente efficace. Penso anch’io che questo sia un contributo veram importante, che deve essere una base per ogni proposta organica di “revisione e rilancio” del nostro servizio san nazionale. Hai ragione Enrico, non c’è sufficiente coscienza di ciò, nè a liv nazion nè regionale. Ma questo “interlocutore politico” che tu evochi va costruito perché, sarai d’accordo, l’economicismo non fa bene alla salute. Segnalo quanto scrissi tempo fa a commento delle iniziative di Rossi in Toscana: “Soprattutto saremmo contrari se si arrivasse all’istituzione di una quota da pagare per le prestazioni di base del Ssn, i cosiddetti “livelli essenziali d’assistenza”. Anche la strada delle compartecipazione è pericolosa. Se i ricchi dovessero pagare anche una quota delle prestazioni di base si snaturerebbe il senso profondo del Ssn, inteso come diritto alla tutela della salute della persona in quanto tale (neanche come cittadino, proprio come persona), un servizio universalistico che offre prestazioni appropriate, di qualità e necessarie – dunque non regolate dal mercato – per tutti. Altrimenti, com’è avvenuto in diverse parti del mondo dove ha affondato le radici la dittatura liberista, si indurrebbe la fuoriuscita degli abbienti dall’assicuratore generale e in questo modo, con la cosiddetta secessione dei ricchi, avremmo una sanità pubblica per i poveri e una privata per i ricchi. Usa docet. Noi invece dobbiamo continuare ad offrire – e per fortuna i livelli della Toscana sono ancora tra i migliori in Italia – una buona sanità per “i ricchi”, se vogliamo che anche “i poveri” ne possano usufruire (art. 32 della Costituzione). I sistemi di reperimento delle risorse, dunque, non devono essere quelli legati alla prestazione, ma quelli basati sulla contribuzione primaria, cioè la progressività delle imposte”. (http://selfirenze.org/sites/selfirenze.org/files/utenti/TICKET%20E%20FINANZIAMENTO%20DEL%20SERVIZIO%20SANITARIO%20_1_.pdf)
che straordinario questo sito! Medici che parlano da medici!
Io sono una persona di 62 anni che gode di discreta salute ma ho anche io i miei acciacchi e più passa il tempo e più… non mi curo.
Trovo difficilissimo trovare medici che non siano semplici dispensatori di medicinali o esami diagnostici spesso costosi e poco o nulla influenti nella cura delle patologie per cui mi tengo gli acciacchi e tiro avanti affidandomi ad un morigerato stile di vita, al mio buonsenso e ai rimedi di mia madre che però a volte non bastano. E se gli acciacchi si trasformassero in qualcosa di più serio? Spero di non finire legata in qualche barella per giorni in qualche pronto soccorso dei nostri ospedali. Encomiabile il vostro impegno ne abbiamo bisogno. Io continuo a profondere il mio in un altro settore che dovrebbe essere oggetto di universalismo e che invece, come la sanità, è oggetto di smobilitazione forzata da anni: la scuola.