La salute come capacità di adattamento
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- 25 Gennaio 2012
Si tratta di spostare la definizione di salute dell’OMS da un concetto statico – il completo benessere – a una descrizione più dinamica e funzionale. Ma anche di usare strumenti di misurazione che riguardino la salute come la capacità di adattarsi e di gestire se stessi.
“Come dovremmo definire la salute? (How should we define health?)”. Questo il titolo di un articolo sul BMJ[1] pubblicato a fine luglio dello scorso anno e forse per questo passato quasi inosservato, a causa della stagione estiva, pur avendo meritato l’editoriale di apertura del direttore Fiona Godlee[2].
Gli autori (Machteld Huber e colleghi, tutti olandesi) riportano i concetti sviluppati nel corso dei lavori di una Conferenza Internazionale (“Invitational Conference ‘Is health a state or an ability? Towards a dynamic concept of health.”) svoltasi a L’Aia (Olanda) il 10 e 11 dicembre 2009[3].
In estrema sintesi, l’articolo di BMJ sostiene che la definizione di salute dell’OMS formulata nel 1948, che vede la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non semplicemente assenza di malattia o infermità”, non è più adatta allo scopo, considerato il radicale cambiamento del quadro nosologico, caratterizzato dal dominio delle malattie croniche. La proposta è quella di sostituire la storica definizione di salute con: “la capacità di adattarsi e autogestirsi”.
Riportiamo i brani più significativi dell’articolo (in corsivo, tra virgolette) con alcuni nostri brevi commenti.
Nel primo paragrafo dell’articolo sono trattate le limitazioni della definizione WHO.
“La maggior parte delle critiche alla definizione dell’OMS riguarda l’assolutezza del termine ‘completo’ in relazione al benessere. Il primo problema è che esso contribuisce involontariamente alla medicalizzazione della società. Il requisito per una salute completa “lascerebbe malati la maggior parte di noi per la maggior parte del tempo.” Tutto ciò da forza alle spinte della tecnologia medica e delle industrie farmaceutiche, in collaborazione con le organizzazioni professionali, a ridefinire le malattie, ampliando così gli ambiti del sistema sanitario. Le nuove tecnologie di screening rilevano anomalie a livelli che non potrebbero provocare malattie e le aziende farmaceutiche producono farmaci per ‘condizioni’ che precedentemente non venivano definite come problemi di salute.”
Personalmente ci troviamo per molti versi d’accordo con queste affermazioni, e più volte Salute Internazionale ha sottolineato l’attuale forte condizionamento del “mercato delle malattie” ad opera delle aziende e dell’industria (Vedi il tag salute e mercato). È anche esperienza comune constatare che effettivamente l’aspirazione “alla salute perfetta-completa” ha comportato in molti casi l’esasperata ricerca di un “diritto assoluto”; questo in realtà si è tradotto in un’affannosa e sempre insoddisfatta ricerca di risposte in sempre più ampie sommatorie di prestazioni mediche (soprattutto, nei sistemi in cui sono tutto sommato di accesso non difficile, anche per costi e prezzi fino a poco tempo fa sopportabili dagli utenti e dai sistemi pubblici).
L’articolo prosegue elencando un secondo e terzo problema legati alla vecchia definizione.
“Il secondo problema è che dal 1948 la demografia delle popolazioni e la natura della malattia sono cambiate notevolmente. Nel 1948 le malattie acute presentavano il peso principale della malattia e le malattie croniche portavano alla morte precoce. In tale contesto l’OMS aveva messo in campo un’aspirazione rassicurante . I modelli di malattia sono cambiati, insieme con gli indicatori di sanità pubblica, come migliori nutrizione, igiene, servizi igienico-sanitari e con interventi assistenziali più potenti. Il numero di persone affette da malattie croniche è in aumento in tutto il mondo; persino negli slum dell’India il modello di mortalità è sempre più gravato da malattie croniche.
Invecchiare con malattie croniche è diventato la norma, e le malattie croniche rappresentano la maggior parte delle spese del sistema sanitario, mettendo pressione sulla sua sostenibilità. In questo contesto la definizione WHO diventa controproducente, in quanto dichiara ammalate in modo definitivo le persone affette da malattie croniche e disabilità. Minimizza, inoltre, il ruolo della capacità umana di fronteggiare in modo autonomo le sfide fisiche, emotive e sociali di una vita in continuo cambiamento e di funzionare in modo soddisfacente e con la percezione di stare bene pur in presenza di una malattia cronica o di una disabilità.
Il terzo problema è come rendere operativa la definizione. L’OMS ha sviluppato diversi sistemi per classificare le malattie e descrivere gli aspetti della salute, della disabilità, del funzionamento e della qualità della vita. Eppure, a causa del riferimento ad una condizione assoluta, la definizione rimane “impraticabile: perché ‘assoluta’ non è né operativa né misurabile.”
Poste queste premesse, gli autori trattano poi della necessità di riformulazione.
“Varie proposte sono state presentate per adattare la definizione di salute. La più conosciuta è la Carta di Ottawa che sottolinea l’importanza delle risorse sociali e personali quanto la funzione fisica. Tuttavia, l’OMS non ha raccolto nessuna di queste proposte. Nonostante ciò, i limiti dell’attuale definizione sempre più influenzano la politica sanitaria. Per esempio, nei programmi di prevenzione e assistenza sanitaria la definizione di salute determina le misure di esito: il guadagno di salute misurato in anni di sopravvivenza può essere meno rilevante della partecipazione sociale, ed un aumento della capacità di affrontare e gestire (coping) può essere più rilevante e realistico rispetto al recupero completo.
Ridefinire la salute è un obiettivo ambizioso e complesso, molti aspetti devono essere considerati, molte parti interessate e consultate, molte culture approfondite, e si deve anche tener conto di futuri progressi scientifici e tecnologici. La discussione degli esperti alla conferenza olandese, tuttavia, ha portato ad un ampio supporto per lo spostamento dall’attuale formulazione statica verso una formulazione più dinamica basata sulla resilienza o sulla capacità di fronteggiare, mantenere e ripristinare la propria integrità, il proprio equilibrio e senso di benessere. La visione preferita di salute è stata “la capacità di adattarsi e autogestirsi”. I partecipanti hanno preferito che la definizione venisse sostituita da un concetto o quadro concettuale di salute. Il primo passo verso l’utilizzo del concetto di “salute come capacità di adattarsi e di autogestirsi” è quello di identificarlo e caratterizzarlo per i tre dominii della salute: fisico, mentale e sociale.”
Rimandiamo al testo originale la descrizione dei tre ambiti, e riportiamo per esigenze di spazio la frase conclusiva dei tre paragrafi dedicati agli aspetti fisici, mentali e sociali della salute.
“Se le persone sono in grado di sviluppare strategie di successo per fronteggiare (coping) le compromissioni del funzionamento (età correlate), la qualità percepita della vita non cambia sostanzialmente, un fenomeno noto come il paradosso della disabilità.”
Tutto questo palesemente riecheggia la filosofia ICF, e ci richiama anche alla mente l’accattivante parte del PSN 1998-2000 in cui si parlava di “convivere attivamente con la cronicità”, obiettivo e azione che ancora oggi permangono attualissimi e presenti in modo insufficiente nelle idee ed azioni degli operatori.
Siamo rimasti particolarmente affascinati dalla logica che lega le premesse e lo sviluppo del ragionamento, che ci sembra coerente e ben articolato.
L’ultima parte dell’articolo tratta di come misurare la salute. Sempre per brevità, ne riportiamo brevi citazioni; quelle che a noi sembrano maggiormente rilevanti.
“Gli strumenti di misurazione dovrebbero riguardare la salute come la capacità di adattarsi e di gestire se stessi. I primi buoni strumenti operativi comprendono i metodi esistenti per valutare lo stato funzionale, misurare la qualità della vita ed il benessere. L’OMS ha sviluppato molti sistemi di classificazione che misurano le graduazioni della salute. Questi valutano aspetti come la disabilità, il funzionamento, la qualità percepita della vita ed il benessere.
Ci sono ancora pochi strumenti per misurare aspetti della salute come la capacità dell’individuo a far fronte (coping) ed adattarsi, o per misurare la forza della resilienza fisiologica di una persona. Una nuova formulazione di salute potrebbe stimolare la ricerca su questo proposito.”
Gli autori si avviano poi alle conclusioni, che riportiamo per esteso.
“Come gli scienziati dell’ambiente descrivono la salute della terra come la capacità di un sistema complesso di mantenere un ambiente stabile all’interno di un range relativamente ristretto, noi proponiamo la definizione della salute come la capacità di adattarsi ed autogestirsi. Questo potrebbe essere un punto di partenza per un’altrettanta nuova via del XXI secolo di concettualizzare la salute umana con una serie di caratteristiche dinamiche e dimensioni che possano essere misurate. La discussione su questo dovrebbe continuare e coinvolgere altri stakeholders (portatori di interesse), inclusi i pazienti e membri laici dell’opinione pubblica.”
Paolo Da Col e Sara Koterle, Distretto n.1 – Azienda per i Servizi sanitari n. 1 “Triestina” – Trieste
- Machteld Huber et al. How should we define health? BMJ 2011;343:d4163
- Fiona Godlee. What is health? BMJ 2011;343:d4817
- Invitational Conference ‘Is health a state or an ability? Towards a dynamic concept. [PDF: 259 Kb] Report of the meeting December 10-11, 2009
Condivido pienamente questo percorso per definire la salute, perchè nella definizione “capacità di adattarsi e autogestirsi” ci sono principi che individuano la persona: la capacità di scelta etica e morale, la cultura,l’informazione, la volontà /libertà di costruirsi le proprie aspirazioni, i propri limiti, tutto quanto cioè fa di un organismo vivente un soggetto pensante e libero.
mi pare particolarmente interessante la definzione di salute come “capacità di adattarsi ed autogestirsi” che chiama in causa un aspetto fondamentale: il completo benessere fisico, mentale e sociale si colloca più nella ricerca della perfezione e nella passività di attendere ristoro di quanto perduto, mentre la capacità di adattarsi ed autogestirsi richiama l’atteggiamento proattivo della persona di rispondere alle molteplici sollecitazioni emergenti attraverso, come afferma il commento precedente, “tutto quanto fa di un organismo vivente un soggetto pensante e libero”.
Apprezzabile lo spostamento verso una visione dinamica e mi sembra quanto mai opportuno il richiamo alla Carta di Ottawa che però parla dello stato di salute come la risultante di un insieme di attività sistemiche tese ad aumentare la capacità del suo controllo da parte delle persone e delle comunità.
La Carta di Ottawa si pone nella prospettiva dell’empowerment inteso nel senso della promozione dell’autonomia delle persone e delle comunità per scelte consapevoli ed autonome.
Così entrano in gioco i servizi sociosanitari e l’intera organizzazione della società e le responsabilità che si devono assumere a partire dalla considerazione banale ma sempre dimenticata che tutto il sistema è finanziato dalle risorse messe a disposizione dalle persone direttamente o, meglio, la contribuzione o la tassazione.
Se è vero che nella prospettiva della Carta di Ottawa è possibile “misurare” lo stato di salute, è altrettanto vero che tale misurazione non ha senso a livello della singola persona ma solamente a livello di comunità per la non disponibilità della prova controfattuale.
Se l’interazione tra sistema e persone in relazioni comunitarie produce efficace promozione della salute come intesa dalla Carta di Ottawa si dovranno osservare riduzioni (non altrimenti spiegabili) di incidenza e/o prevalenza di eventi e/o condizioni che producono sofferenza. Inoltre, si dovrebbe apprezzare (in modo misurabile) una maggiore capacità di cercare salute e, infine, si dovrebbe osservare (in modo misurabile) una maggiore capacità nella comunità delle attività di autoaiuto- peer education.
Si può dimostrare che proprio perchè la salute è un bene comune differenze di opportuni indicatori di salute (di processo, di risultato e, sopratutto, di esito) per condizione sociale indicano scarsa capacità del sistema di promuovere la salute con danno non solo, come è ovvio, per i worst off ma anche per i better off.
Per questo i servizi sanitari devono essere universali e coinvolgere tutti e tutte a qualunque titolo presenti nel bacino di responsabilità /intervento dei servizi (come peraltro prescrive l’art.32 della Costituzione Italiana, che è la migliore del mondo proprio grazie a tale articolo). I servizi sanitari hanno ragione d’essere se, e soltanto se, sono in grado di ridurre gli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali.
E le strategie per la promozione della salute non possono funzionare efficacemente se non si pongono nella prospettiva dell’offerta attiva:
Offerta: ci si rivolge alle persone (e alle comunità) e le si coinvolge con l’arte socratica della maieutica nel processo di ripensamento e sviluppo di competenze e consapevolezza con rispetto, gentilezza, empatia, compassione ed umiltà.
Attiva: se la persona (e la comnunità) non accetta di farsi coinvolgere o non sviluppa competenze e consapevolezza ci si deve domandare quali errori sono stati compiuti e trovare strade anche innovative per il coinvolgimento, avendo cura di prestare molta attenzione ai segnali che arrivano dalla comunità, di qui l’importanza dell’umiltà come competenza professionale imprescindibile.
Se la compassione è la regina delle arti etiche e il fondamento della democrazia, certamente l’umiltà è il fondamento del progresso della conoscenza.
Vale la pena, infine, ricordare che la prospettiva della Carta di Ottawa mette in discussione radicale il paradigma del modello biomedico di salute che sottende un modello di welfare paternalistico direttivo e pretende, invece, un modello sociale di salute (i determinanti sociali, dicibili solo dalla persona e dalla comunità e devono essere messe in grado di farlo, sono le cause dietro le cause “biologiche”) che sottende un modello di welfare basato sulla partecipazione e sull’empowerment.
Dalla health literacy è necessario passare alla public health literacy.
E si aprono prospettive incredibili ed entusiasmanti di azione.
Michele Grandolfo
La definizione intesa come capacità di adattarsi ed autogestirsi mi sembra si dinamica, ma parziale, perchè la coscienza della salute corrisponde sia alla comprensione della situazione pèersonale, ma in relazione alla situazione sociale, economica e, particolarmente, ambientale.
Per cui mi sembra ancora molto valida la carta di Ottawa.
Trovo l’argomento molto interessante.
La revisione della definizione del concetto di salute deve passare dalle nuove consapevolezze del concetto di persona umana che in realtà rappresentano un ritorno a una visione umanistica integrale, alla luce dei nuovi processi sociali di integrazione culturale. La necessità di esaltare le capacità di adattamento e resilienza dell’organismo presuppongono il riconoscere le capacità di autoguarigione e la perdita di queste capacità come presupposto per la perdita dell’equilibrio e l’insorgenza di una patologia.
Come Operatore Sanitario e soprattutto come Osteopata non posso che condividere l’idea degli autori dell’articolo.
Tutto interessante, però resta da capire come mai le retribuzioni dei dirigenti della Sanità pubblica siano così elevate. Servono realmente tanti dirigenti? Non si potrebbe ridurre il loro numero e le loro retribuzioni per migliorare i servizi?