Vivere con una malattia. Ed essere sani

Gavino Maciocco

La salute non è un’entità fissa. Essa varia per ogni individuo in relazione alle circostanze.  La salute è definita non dal medico, ma dalla persona, in relazione ai suoi bisogni funzionali. Il ruolo del medico è quello di aiutare le persone ad adattarsi alle nuove condizioni. Avendo rimpiazzato la perfezione con l’adattamento noi ci avviciniamo a un programma per la medicina più comprensivo, solidale  e creativo, un programma al quale tutti noi possiamo contribuire.  
La salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non una mera assenza di malattia o infermità”. Questa definizione di salute fu coniata all’atto della costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel luglio 1946 ed entrò in vigore il 7 aprile 1948, data in cui l’OMS entrò nell’orbita delle Nazioni Unite.
Una definizione ampia e generale, che rimosse il dualismo concettuale “salute-malattia” e offrì una visione dello “stato di benessere” di un individuo o di una popolazione non limitato alla componente somatica e non unicamente correlato con l’intervento sanitario. Tale concetto fu poi  confermato e ampliato in uno dei più importanti documenti dell’OMS, la Dichiarazione di Alma Ata (1978). “La Conferenza riafferma con forza che la salute, come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza di malattia o infermità, è un diritto fondamentale dell’uomo e l’accesso ad un livello più alto di salute è un obiettivo sociale estremamente importante, d’interesse mondiale e presuppone la partecipazione di numerosi settori socio-economici oltre che di quelli sanitari”. La salute è dunque concepita come il prodotto complessivo e coordinato di una serie di condizioni e azioni che fanno capo a vari settori della vita civile e sociale di un paese e di una comunità.

Una visione moderna e veramente profetica, se si pensa a quando fu elaborata,  anticipando di quasi mezzo secolo il dibattito su determinanti sociali e diseguaglianze nella salute.

Eppure la discussione sull’attualità della definizione di salute dell’OMS è aperta, come dimostra il primo articolo di questa newsletter.  Il dibattito verte soprattutto sull’aggettivo “completo”: il problema non è solo l’aspirazione a una sorta di perfezione del benessere  (scrive ironicamente Richard Smith: uno stato raggiungibile solo al momento dell’orgasmo reciproco),  un obiettivo troppo distante dalla realtà e di conseguenza difficilmente misurabile.

Il problema è che il quadro epidemiologico è profondamente mutato da quando fu concepita la definizione dell’OMS: erano gli anni quaranta del secolo scorso, la popolazione era “giovane”, prevalevano le malattie acute, iniziavano a diffondersi gli antibiotici e l’idea che lo scopo della medicina fosse principalmente quello di guarire e di portare alla “restitutio  ad integrum” era dominante e giustamente fondata.

Oggi, con una popolazione sempre più “vecchia” e con un numero crescente di persone affette da una o più malattie croniche,  quell’aggettivo “completo” rende il “benessere” – cioè  la “salute” – una condizione poco realistica, addirittura astratta.

Emergono dal dibattito nuovi concetti di salute: la capacità di affrontare e gestire (coping)  le malattie, la capacità di adattarsi e autogestirsi. Concetti, a dir la verità,  non del tutto nuovi. Infatti un editoriale di Lancet[1] del 2009, dal titolo “Cos’è la salute?” , ricorda che un medico e filosofo francese, Georges Canguilhem[2], nel 1943 aveva pubblicato un libro dal titolo “Il Normale e il Patologico”, dove il concetto di salute è proprio associato alla capacità di adattarsi all’ambiente. “La salute non è un’entità fissa. Essa varia per ogni individuo in relazione alle circostanze.  La salute è definita non dal medico, ma dalla persona, in relazione ai suoi bisogni funzionali. Il ruolo del medico è quello di aiutare le persone ad adattarsi alle nuove condizioni.”

La bellezza della definizione di salute, ovvero di “normalità”, di Canguilhem – afferma l’editoriale di Lancet – è che include l’ambiente inanimato e animato, come pure le dimensioni fisiche, mentali e sociali della vita umana. È il singolo paziente, non il medico, l’autorità legittimata a  definire i propri bisogni e il medico diventa un partner in questa operazione.
“La definizione di Canguilhem – conclude Lancet – ci consente di rispondere alla malattia globalmente, prendendo in considerazione il contesto delle condizioni, in quel determinato luogo e in quel determinato tempo.  Avendo rimpiazzato la perfezione con l’adattamento noi ci avviciniamo a un programma per la medicina più comprensivo, solidale  e creativo, un programma al quale tutti noi possiamo contribuire”.

Il secondo articolo di questa newsletter parla di come sia possibile attuare un “programma per la medicina più comprensivo, solidale  e creativo”.  Il  “Chronic care model” è un’opzione fattibile. È un modello  che fa leva sulla prevenzione, sulle risorse della comunità,  sull’empowerment delle persone. È un modello di cure che punta a coinvolgere i pazienti, singolarmente o in gruppo, nella gestione della loro malattia, e quindi a stimolarne la capacità di adattamento. È un modello che all’inizio può scartare di lato e occuparsi troppo delle malattie. Ma – evitata la sbandata – è la soluzione in grado di  innovare radicalmente  l’assetto delle cure primarie, e che – stimolando la cooperazione tra professionisti e tra professionisti e pazienti – può veramente far diventare la medicina più comprensiva, solidale e creativa.

Bibliografia

  1. Editorial. What is health? The ability to adapt. Lancet 2009; 373: 781.
  2. Georges Canguilhem (1904-1995), medico, filosofo e storico della scienza, ha insegnato Storia della scienza alla Sorbona. Le sue principali opere sono tradotte in italiano: “La conoscenza della vita” (Il Mulino, 1976) e “Il normale e il patologico” (Einaudi, 1998).

4 commenti

  1. Prima della modernità il medico aveva “in primis” il titolo di filosofo il che indicava una cultura umanistica profonda senza la quale la medicina sembrava rimanere avulsa dalle vere conoscenze sull’uomo.Nell’800 e 900, seguendo i criteri della scienza positiva prevalenti, la medicina divenne fondamentalmente organicistica.Ebbe il merito di approfondire le conoscenze anatomiche e fisiologiche del nostro organismo,di scoprire le cause di molte malattie con relativi rimedi ma si dimostrò insufficiente a risolvere le problematiche esistenziali.Ora, come una sorta di ciclo vichiano,si sente da tempo la necessità di rivedere il ruolo della medicina e del Medico e ritornare alla centralità dell’uomo nel suo intero sia come singolo che come umanità.Ben vengano queste ricerche e buon lavoro a tutti.

  2. La tematica della salute e della sua definizione richiede un atteggiamento consapevole dei cambiamenti socio-culturali e di molte altre variabili che ridisegnano il modello stesso di salute; inoltre è necessario un confronto aperto e interdisciplinare che si avvicini ad una visione dinamica, attiva, adattativa come una sorta di ecosistema in costante ricerca dell’equilibrio. Sono grata dell’attenzione a tali argomenti e grazie agli articoli successivi condivido molte idee che trovano conferma nell’attività psicologico-clinica e di formazione al personale.Aggiungerei un punto: la fiducia nelle proprie risorse (curative, adattative ecc.) ed una meta di senso personale da raggiungere favorisce il benessere!
    Grazie e cordiali saluti
    Patrizia

  3. Quanto esposto nell’articolo è perfettamente in linea con quello che ho sentito dira ad una persona anziana poco tempo fa: “la salute è sentirsi bene quando si è malati”

  4. Credo che una ricaduta rilevante delle giustissime considerazioni riportate in questo articolo sia sul piano dell’epidemiologia, che per valuare il successo della gran parte delle attività di assistenza ai cronici dovrebbe imparare a rilevare e misurare il livello di conservazione delle funzioni e il benessere percepito a parità di patologie diagnosticate e in trattamento (vedi alcuni tentativi all’interno del questionario del sistema i sorveglianza PASSI).

    Una sfida che gli epidemiologi non possono ignorare, continuando a misurare solo ciò che già sanno misurare.

    Grazie delle stimolanti considerazioni, anche se l’esordio dell’articolo avrebbe potuto scoraggiare molti…

    Marco Petrella, Servizio Epidemiolioga AUSL 2 Umbria

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