Bangkok: tutti (o quasi…) uniti per la copertura sanitaria universale

Chiara Bodini

Numerosi sono i convegni e le iniziative a favore della copertura sanitaria obbligatoria, anche con la partecipazione di coloro che per anni l’hanno pervicacemente osteggiata, come la Banca Mondiale. Sarà vera conversione?


La Prince Mahidol Award Conference (PMAC) è un evento internazionale che si tiene da oltre dieci anni a Bangkok, in Thailandia. Affronta temi di salute globale ed è sponsorizzata, oltre che dal governo thailandese e dalla fondazione Prince Mahidol, che fa capo alla famiglia reale, anche da importanti istituzioni e realtà internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la Banca Mondiale (BM), l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), la Fondazione Rockfeller, e da agenzie di cooperazione bilaterale come quella tedesca e giapponese.
La partecipazione è solo su invito, e un’organizzazione molto efficiente nonché il prestigio che l’evento ha guadagnato negli anni garantiscono la presenza di numerosissimi tra ministri e funzionari di diversi Paesi del mondo.

Nell’edizione del 2012, svoltasi tra il 24 e il 28 gennaio, tra gli oltre 800 partecipanti le nazionalità più rappresentate erano certamente quelle dei Paesi della regione (oltre a Thailandia, in particolare: Vietnam, Cambogia, Indonesia, India, Bangladesh, Cina, Giappone), ma anche di molti Paesi africani (soprattutto dell’Africa Sub-Sahariana). Dalla regione europea, l’unico ministro presente era quello moldavo, mentre molto più numerose erano le partecipazioni accademiche (London School of Hygiene and Tropical Medicine, Royal Tropical Institute di Amsterdam, Institute of Tropical Medicine di Anversa), di agenzie di cooperazione bilaterale e di ONG (soprattutto inglesi, norvegesi, tedesche). Infine, ovviamente, una cospicua presenza di funzionari statunitensi (e non solo) facenti capo a Banca Mondiale, USAID e Fondazione Rockfeller.

Nonostante il tono decisamente istituzionale dell’evento, come nelle edizione precedenti anche quest’anno non è mancata una presenza forte della società civile, facente in gran parte capo al Movimento dei Popoli per la Salute (People’s Health Movement, PHM), rete di reti globale che unisce gruppi di base, associazioni di cittadini, movimenti sociali e accademici nella lotta per il diritto alla salute per tutti.

L’edizione 2012 della PMAC è stata dedicata alla copertura sanitaria universale, in inglese “universal health coverage” (UHC). Si tratta di un tema in ascesa nel mondo della salute globale, oggetto del rapporto 2010 dell’OMS[1], della risoluzione 64.9 dell’Assemblea Mondiale della Sanità nel maggio 2011[2] e, non da ultimo, di particolare attenzione nelle linee europee di finanziamento facenti capo al Settimo Programma Quadro. Anche in ambito italiano il tema è discusso, e l’Università Bocconi ha organizzato per il 10 febbraio prossimo un evento dedicato in cui verranno presentate prospettive ed esperienze dai cinque continenti[3].
Al di là del fatto che il tema è chiaramente “di moda”, sarebbe errato sottovalutarne l’importanza reale (e, aggiungerei, culturale) e il potenziale impatto sui sistemi sanitari nel mondo. Si tratta infatti di una sostanziale inversione di tendenza rispetto alle politiche degli anni ’80 e ’90, dominate dall’idea restrittiva di “selective Primary Health Care” (in contrapposizione alla “comprehensive Primary Health Care” promossa ad Alma Ata), in seguito svuotate finanziariamente dai piani di aggiustamento strutturale imposti da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, e poi frammentate in miriadi di programmi verticali conseguenza del moltiplicarsi degli “aiuti” promossi da partnership pubblico privato, in assenza di una governance globale in grado di fornire linee guida coerenti né di stati nazionali sufficientemente forti da imporre un coordinamento a livello locale.

Le evidenze dell’impatto che tutto ciò ha avuto, soprattutto in termini di mancata riduzione (o di incremento) delle disuguaglianze in salute tra e all’interno dei Paesi e di frammentazione e crisi dei sistemi sanitari, si sono sommate alle evidenze positive di Paesi che hanno seguito altre strade (tra cui Brasile, Costa Rica, Rwanda, Ghana, Sri Lanka, Thailandia).

Naturalmente è molto difficile scorporare gli esiti attribuibili alla copertura di servizi sanitari da quelli relativi a implementazioni più ampie di sistemi di primary health care, comprensivi di sostanziali riforme nel sistema educativo e di protezione sociale. Tuttavia, tali esiti sono stati giudicati tanto significativi da animare un interesse internazionale vasto e crescente per la copertura sanitaria universale, nonché per il ruolo insostituibile del settore pubblico, e un progressivo discredito nei confronti delle politiche precedenti.
È doveroso tuttavia sottolineare che, dietro la definizione di “copertura universale”, vi sono molteplici e variegate interpretazioni, relative soprattutto a due aspetti:

  • quali servizi vengono garantiti ai cittadini (lo spettro varia da un pacchetto essenziale e minimo di servizi di base a coperture estese a tutti i servizi sanitari);
  • il relativo ruolo dei settori pubblico e privato per quanto attiene al finanziamento e all’erogazione dei servizi.

Il secondo punto è forse quello più critico, perché è indubbio che – dietro alla spinta per un’estensione dei servizi sanitari offerti ai cittadini – vi sia anche un interesse del settore privato (sia quello delle assicurazioni sanitarie, sia quello dei grandi provider di servizi) verso un’espansione del proprio mercato.

Tutto questo è stato discusso, in maniera più o meno esplicita, nella conferenza di Bangkok. Il ruolo forse più interessante da osservare è stato quello della Banca Mondiale. In prima linea nel proporre le contestate riforme degli anni ’80 e ’90, e responsabile in particolare della introduzione delle user fees estensivamente imposte ai Paesi poveri, nonché da sempre sostenitrice di un ruolo di primo piano del settore privato sia nel finanziamento che nell’erogazione di servizi sanitari, si trovava qui nella scomoda posizione di partner nell’organizzazione e al tempo stesso ospite di un Paese che sembra aver sistematicamente disatteso i suoi precetti.

Nel complesso, la conferenza è stata orientata a celebrare i successi di quei Paesi che hanno portato avanti riforme sostanziali nei propri servizi sanitari, improntate a un ruolo decisivo del settore pubblico soprattutto nel finanziamento. È stata ampiamente riconosciuta la sostanziale inefficienza delle assicurazioni private nel garantire il diritto alla salute, e soprattutto nel giocare quel ruolo di ridistribuzione del rischio e delle risorse che è cruciale per arrivare a tutelare i gruppi più vulnerabili. Almeno a livello di discussione accademica e di policy dunque, se ancora non sul campo dell’applicazione pratica, la battaglia sul finanziamento è stata vinta – evidenze alla mano – dal pubblico. Resta aperto il discorso sulle modalità, in un range che varia dalle assicurazioni sociali alla tassazione universale, con un indubbio vantaggio di quest’ultimo modello sul piano della copertura, a fronte di maggiori difficoltà tecnico-amministrative per quanto riguarda l’implementazione (soprattutto in Paesi in cui il settore informale è molto consistente).

Più contestato e acceso il dibattito sull’erogazione dei servizi. Qui, anche molti Paesi che hanno portato avanti riforme per garantire la copertura universale a finanziamento pubblico hanno fatto scelte diverse, affidandosi più o meno a privati – nazionali o internazionali – per fornire i servizi ai cittadini. Un punto su cui tutti si sono trovati d’accordo, comunque, è stato che parlare di “settore privato” tout court è fuorviante, perché si comprende sotto un unico termine uno spettro che va da piccole cooperative di professionisti sanitari a enormi transnazionali che gestiscono ospedali in tutto il mondo. Un altro punto di sostanziale accordo, o che almeno non è stato esplicitamente contestato se non forse dagli esperti di USAID, è che il privato erogatore – di qualunque natura sia – va regolamentato, e rigorosamente, dal settore pubblico. Questo per evitare preoccupanti distorsioni che pongono l’interesse economico prima del diritto alla salute degli assistiti.

Infine, un altro punto interessante di discussione è stato quello sul ruolo dei cittadini. Il Brasile in questo è capofila, ma altri Paesi – tra cui la stessa Thailandia – si sono mossi attivamente per creare meccanismi di partecipazione reale e diretta della popolazione nelle decisioni sulle politiche e sull’organizzazione sanitaria. A questo aspetto è stata riservata particolare attenzione, fin dalla costruzione del programma in cui è stata prevista una sessione dedicata dal titolo “Voice of the people”. Diversi esponenti del PHM vi hanno preso parte, confrontando e discutendo esperienze da Paesi come Sudafrica, India, Belgio e Stati Uniti (con ampi riferimenti al movimento Occupy Wall Street). È stata anche data al PHM la possibilità di organizzare un evento collaterale per il lancio del terzo “Global Health Watch”, opera collettiva che viene pubblicata ogni 2-3 anni e che fornisce uno sguardo alternativo e critico sulle questioni di salute globale (tanto da essere definito “the alternative World Health Report”, con esplicito riferimento al rapporto annuale dell’OMS). Nella stessa sessione, è stato presentato il percorso di mobilitazione globale verso la terza “Assemblea dei Popoli per la Salute”, che si svolgerà a Cape Town nel luglio 2012. L’assemblea vedrà riuniti esponenti della società civile e attivisti provenienti da tutto il mondo, per discutere di una prospettiva “popolare” in merito alle problematiche di salute globale e soprattutto di possibili forme di azione “dal basso” che siano promotrici, oltre che di migliore salute, anche di equità, partecipazione e democrazia a livello tanto nazionale quanto internazionale.

Vale la pena, in conclusione, di citare due tra i paradossi più evidenti di questa conferenza, che ne minano in parte la credibilità per lo meno sul fronte di contributo a una trasformazione reale delle pratiche e degli equilibri di potere tuttora egemonici.

In primo luogo, il fatto che ci fossero in più sessioni – nel ruolo di discussantesperti della Banca Mondiale, di USAID o della London School, di provenienza dunque statunitense e britannica, che non hanno risparmiato critiche e giudizi nei confronti di Paesi in cui la copertura universale non esiste ancora o i servizi sanitari soffrono di criticità gravi. Tuttavia, nessun accenno vi è stato al fatto che gli Stati Uniti sono tuttora in questo campo tra gli esempi peggiori (nonostante gli sforzi di Obama), e che il Regno Unito è sulla soglia di approvare una riforma del proprio sistema sanitario che – a detta di molti – ne snaturerà profondamente l’ossatura a favore, ancora una volta, del settore privato. Più in generale, la contraddizione tra una parte del mondo ora sempre più spinta e motivata verso la copertura universale, e ciò che sta accadendo in Europa in termini di smantellamento del welfare come conseguenza della crisi, non è stata per nulla affrontata, e una specifica domanda posta in plenaria sul tema è rimasta inevasa.

Il secondo paradosso riguarda la contraddizione insita nel discutere della salute dei gruppi di popolazione più vulnerabili, con tanto di retorica pro-poveri e una buona dose di autocelebrazione, in un albergo di extra-lusso, che sembra eretto a scacciare la povertà su cui è costruito e che è un insulto a qualunque pratica o politica di sostenibilità ambientale. Fino a quando esisterà un tale evidente contrasto tra i discorsi e le pratiche, sarà difficile credere che un cambiamento è davvero possibile.

Chiara Bodini, Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale

 

Bibliografia

  1. The world health report – Health systems financing: the path to universal coverage. Geveva: WHO, 2010
  2. Sustainable health financing structures and universal coverage [PDF: 20 Kb]. 64th WORLD HEALTH ASSEMBLY. 24.05.2011
  3. Sustaining and Implementing Universal Health Coverage. Milano, 10 febbraio 2012,

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