Sanità bene comune

Carlo Romagnoli

Applicate alla sanità le regole del “bene comune” delineano un nuovo quadro funzionale,  del tutto diverso dal modo di gestione privato: il fine non è il profitto ma un utilizzo condiviso del bene che ne preserva nel tempo la disponibilità.


In letteratura sono ben descritti i limiti della gestione privata della sanità da un punto di vista di popolazione:  all’aumentare della quota di spesa sanitaria privata sulla spesa totale,  diminuisce la speranza di vita in buona salute, come mostra la Figura 1 che mette in evidenza la posizione dei sistemi sanitari del mondo in relazione alle due variabili osservate.

Figura  1. La speranza di vita in buona salute diminuisce all’aumentare della  % di spesa privata sul totale della spesa sanitaria

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Fonte: CDSH 2008, ripreso da Koivusalo & Mackintosh, 2005 [1]

Del pari, è la stessa OMS  a rilevare (Figura 2) le sostituzioni dei fini  cui vanno incontro i servizi sanitari “pubblici” che, invece di produrre equità  nella salute, comunità sane e servizi centrati sui bisogni, perseguono interventi ospedalocentrici, frammentati e sempre più influenzati da politiche commerciali.

Figura 2.  Sostituzione dei fini nei servizi sanitari

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Fonte: OMS 2008 [2]

 

In Italia aziendalizzazione e federalismo, nonostante gli auspici dei loro apologeti, hanno prodotto: 

  • notevoli disuguaglianze nella salute e grande eterogeneità nella offerta di prestazioni sanitarie a livello inter e intra regionale[3]
  • gravi squilibri finanziari dato che su 21 regioni  solo 2 sono in equilibrio e 8 commissariate;
  • un’integrazione tra territorio ed ospedale difficile dove ci sono le Aziende ospedaliere;
  • tenace e ubiquitaria disapplicazione delle leggi vigenti sulla partecipazione;
  • dilagante uso privato del Servizio sanitario tra esponenti dei partiti (almeno 6 assessori regionali alla sanità implicati nel 2011) e professionisti (libera professione, compiacenza verso case farmaceutiche, ecc. );
  • ampio e quotidiano eccesso di potere da parte di direttori generali e dirigenti, che esercitano possesso sostanziale sui servizi con frequenti comportamenti autoritari e umiliazione degli operatori;
  • mancata valorizzazione delle competenze, dato che è la fedeltà al DG a guidare l’assegnazione degli incarichi e non la norma costituzionale ( ai posti pubblici si accede tramite concorso).

Come se non bastasse, le recenti “misure anti crisi”, grazie ai ticket, hanno  reso il ricorso al privato conveniente nella diagnostica di base e nella specialistica, mentre il taglio dei fondi (-93%) ha reso virtuali i servizi sociali e certo un imminente aumento della domanda impropria alla sanità.

In questa situazione servono  approcci nuovi, come suggerito  dalla  Commissione sui Determinanti Sociali della Salute dell’OMS, quando dichiara  che “…la assistenza sanitaria non è una merce del mercato ma un bene comune.”([1, op cit, pag. 95]

Quando la gestione di un bene comune è efficace?

In generale per bene comune si intende un bene che è proprietà di una comunità e del quale la comunità può disporre liberamente” (commons della tradizione giuridica anglosassone).

Gli economisti che hanno studiato i beni comuni sono però meno vaghi: Elinor Ostrom (premio Nobel 2009 per l’economia)  ne fornisce[4] una definizione più problematica in quanto intende per bene comune: una risorsa condivisa da un gruppo di persone  e soggetta a dilemmi ( ossia interrogativi, controversie, dubbi, dispute, ecc.) sociali”.
Per l’autrice un bene comune è libero da valori: il suo esito può essere buono o cattivo, sostenibile oppure no e “per garantire sistemi durevoli e stabili abbiamo bisogno di chiarezza, buone capacità decisionali e strategie di gestione collaborativa”. Gli studi, da lei condotti sui contesti che non hanno portato alla distruzione del bene comune per eccesso di utilizzazione dei singoli membri della comunità, fanno emergere una forte associazione tra questo risultato e l’osservanza di una serie di  “regole”:

  1.  Una chiara definizione delle possibilità e dei limiti.
  2. Le regole in uso devono essere adeguate alle esigenze ed alle condizioni locali.
  3. Tutti gli individui tenuti a rispettare queste regole possono partecipare alla modifica delle stesse.
  4. Il diritto dei membri della comunità a stabilire le proprie regole è rispettato dalle autorità esterne.
  5. Deve esistere un sistema in grado di auto monitorare il comportamento dei membri.
  6. Deve operare un sistema di sanzioni progressive.
  7. I membri della comunità hanno accesso a meccanismi di risoluzione dei conflitti a basso costo.

Se ci collochiamo mentalmente all’interno delle regole della gestione comune, vediamo che la nostra visione delle cose si modifica e, anche con riferimento alla sanità, diventiamo capaci di cogliere nuove valenze:

  • una valenza descrittiva perché così identifichiamo modelli di governo che altrimenti non avremmo esaminato;
  • una valenza costitutiva perché, fornendoci un nuovo linguaggio, le regole della gestione comune ci aiutano  a costituire nuove comunità sulla base dei principi relativi ai beni comuni;
  • una valenza espressiva perché il linguaggio dei beni comuni è un modo grazie al quale noi possiamo  rivendicare un legame personale con un insieme di risorse, nonché una solidarietà sociale gli uni con gli altri.

Applicate alla specificità della sanità queste regole delineano un nuovo quadro funzionale,  del tutto diverso dal modi di gestione privato (il fine non è il profitto ma un utilizzo condiviso del bene che ne preserva nel tempo la disponibilità) ma anche da quello basato sulla delega all’interno della rappresentanza istituzionale. In effetti la sanità in quanto “bene pubblico” (che sarebbe meglio definire a gestione istituzionale, sia essa statale o dei livelli amministrativi regionali o locali) pur essendo in teoria di tutti, viene di fatto gestita, attraverso il sistema della rappresentanza e le nomine conseguenti, da direttori generali all’interno di un modello aziendalistico che consente loro  di esercitarne il possesso sostanziale, che coincide sempre più spesso con una non corretta conservazione,  l’uso privato o addirittura la alienazione, mentre  sempre meno spesso viene rispettata  l’autonomia della comunità e le scelte da essa operate e quasi mai vengono create le condizioni in cui i membri della comunità possono svolgere al meglio la gestione comune del bene.

Iniziamo dunque a ragionare su un  nuovo sistema sanitario che faccia della reciprocità tra cittadino e servizi la cornice funzionale su cui, a partire dal livello distrettuale,  attivare una gestione “comune” della sanità e percorsi assistenziali integrati tra territorio ed ospedale, mettendo in campo  poteri decisionali dei cittadini a monte (scelta delle priorità) ed a valle (valutazione in regime di terzietà di qualità ed esiti).

Volendo proporre prefigurazioni tecniche  a scopo puramente semplificativo e senza con questo voler anteporre ai processi di ricerca e creazione di senso cui faccio riferimento nel paragrafo successivo,  il distretto socio sanitario  può rappresentare una base di discussione per chi voglia pensare a funzioni e assetti di una possibile gestione comune della sanità (Figura 3), mentre l’assistenza ospedaliera per l’emergenza-urgenza e l’alta specialista, organizzata per area vasta potrebbe risentire dei benefici derivanti da una attiva e ben regolata inclusione di cittadini ed assistiti nei momenti decisionali importanti di dipartimenti e servizi ( scelta priorità e verifica qualità ed esiti), sviluppando e perfezionando dispositivi di valutazione civica ( audit, osservatori indipendenti, forum, ecc).

Figura 3. Il distretto socio sanitario come “istituzione” territoriale su cui potrebbe basarsi la sperimentazione di una gestione comune della sanità

 

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In questo caso la funzione dei servizi e dei livelli di supporto, attualmente impropriamente  organizzati in “azienda”, potrebbe essere quella di  “meta organizzare”[5]  le condizioni in cui i diversi attori del sistema possono lavorare bene, attraverso formazione, lavoro di rete, con ricerche per favorire la partecipazione e il coinvolgimento di cittadini ed operatori, creando senso e immaginario e sostenendo i correlati processi di cooperazione, condivisione ed inclusione.

Lavori in corso

Ma le prefigurazioni tecniche è bene si fermino qui: la gestione comune della sanità sarà il frutto di lotte, processi di ricerca condivisa  e sperimentazioni che si svilupperanno proprio per garantire i bisogni di salute e di assistenza dall”uso privato del servizio sanitario e dalle privatizzazioni, come sta già avvenendo in Grecia e Spagna.

Elaborazioni e ricerche nella direzione di una gestione comune della sanità sono in corso  almeno:

  • in Francia dove nel 2011 sono stati prodotte molte riflessioni nel quadro della linea di ricerca condivisa “Du public au commun”[6];
  •  in  Umbria la Fondazione Angelo Celli “Per una cultura della salute” che, dopo aver prodotto, grazie al lavoro di una ampia commissione multidisciplinare, un primo documento su “Salute e sanità come beni comuni. Per un nuovo sistema sanitario”[7], sta sviluppando alcune linee di ricerca sulla sostenibilità economica, sui dispositivi giuridici  e sugli assetti funzionali ed organizzativi di una sanità “bene comune”, vista come una ulteriore evoluzione del servizio pubblico;
  • a Milano  la scuola postoperaista italiana, nel quadro del convegno “Commonfare” ha sviluppato specifiche riflessioni anche sul tema “Il comune in sanità”, collocandone  la prospettiva all’interno delle lotte per il comune[8,9].

Un altro cantiere potenzialmente molto produttivo può essere espresso da quella area di riflessione  sui beni comuni, di matrice cattolica[10,11] che sviluppa il pensiero di Mauss sul dono e la reciprocità, anche alla luce del contributo offerto da questa parte importante della nostra società alla affermazione del referendum del 2011 sull’acqua bene comune.

Più cantieri dunque sono aperti e andranno avanti grazie all’impegno, alla fantasia e al coraggio di quanti vorranno dare un contributo per aprire nuove prospettive sociali.

Carlo Romagnoli, medico igienista, coordinatore aziendale promozione salute AUSL 2 Perugia

Bibliografia

  1.  CSDH (2008). Closing the gap in a generation: health equity through action on the social determinants of health. Final Report of   the Commission on Social Determinants of Health. Geneva: WHO, 2008.
  2. WHO (2008a). The world health report 2008 : primary health care now more than ever. Geneva: WHO, 2008.
  3. Costa G, Vecchi G (2011). Storie parallele: la salute e le altre dimensioni del benessere a confronto in 150 anni di differenze geografiche in Italia. Epidemiol Prev; 35  (5-6) suppl 2: 34-44.
  4. Hess C, Ostrom C. La conoscenza come bene comune. Torino: Bruno Mondadori, 2009.
  5. Rullani E. Produzione di conoscenza e valore nel postfordismo, in “L’età del capitalismo cognitivo. Innovazione, proprietà e cooperazione delle moltitudini”. A cura di Yann Moulier Bouteng. Verona: Ombre corte/ culture, 2003.
  6. Du public au commun. Uninomade, 13.10.201
  7. Seppilli T. (curatore). Salute e sanità come beni comuni. Per un Nuovo sistema sanitario. ESPS 2010; 33(4): 369-381.
  8. Uninomade.org: Carlo Romagnoli [mp3 ]
  9. Hardt M, Negri A. Comuni. Milano: Rizzoli Ed, 2010 Milano . The Belknap Press ed, USA.
  10. Zamagni S. L’economia del bene comune. Roma: Città Nuova, 2007, pp. 239
  11. Grasselli PM. L’impresa e la sfida del bene comune. Milano: Franco Angeli, 2011.

Un commento

  1. Apprezzo e condivido il titolo, con tutte le conseguenze.
    In particolare:
    – il finanziamento deve provenire in massima parte dalla fiscalità generale,
    – la crescita continua di fondi sanitari integrativi, soprattutto “negoziali”, va tenuta presente e gestita,
    – la quota di out of pocket va monitorata e valutata come fonte di disuguaglianze,
    – la libera professione, come è ora, va profondamente ripensata, in ottica aziendale,
    – la produzione di servizi sanitari è bene che rimanga in gran parte pubblica,
    – la quota di privato convenzionato va ridotta,
    – va affrontata con spirito aperto la nascita di sanità “low cost”, specie se gestita da ONLUS e in accordo con Ordini dei Medici (vedi Bologna).

    Non capisco la frase: “In Italia aziendalizzazione e federalismo, nonostante gli auspici dei loro apologeti, hanno prodotto…”
    Domando: senza aziendalizzazione e federalismo la situazione sarebbe migliore ? Ancora con i Comitati di gestione ?
    Le cose citate come prodotto forse sono proprio legate ad una mancata o perversa aziendalizzazione. Poi nessuna modalità organizzativa è di per sé efficace, efficiente ed equa.
    Il federalismo ha funzionato abbastanza in certe regioni (Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Marche), meno in altre (secondo me Lombardia), malissimo in quasi tutte quelle del Centro Sud.
    Non condivido neanche:
    “In effetti la sanità in quanto “bene pubblico” (che sarebbe meglio definire a gestione istituzionale, sia essa statale o dei livelli amministrativi regionali o locali) pur essendo in teoria di tutti, viene di fatto gestita, attraverso il sistema della rappresentanza e le nomine conseguenti,da direttori generali all’interno di un modello aziendalistico che consente loro di esercitarne il possesso sostanziale”
    A me pare che più spesso sia viceversa, ai DG non viene data abbastanza autonomia e responsabilità da poter esercitare un potere che in effetti di fatto non hanno, presi troppo spesso da mediazioni infinite – e da continue scadenze elettorali di tutti i sindaci del territorio – per poter chiudere un punto parto che fa 50 parti l’anno a 30 Km da uno che ne fa 1500. Poi tutti i DG non sono uguali, chi più chi meno manager competente, chi più chi meno legato alla politica.
    In Toscana le Società della Salute sono un tentativo di avvicinare ai cittadini con la partecipazione e di dare alle amministrazioni locali con il 66,6% di quota decisionale (contro il 33,3% dell’Asl) il potere di decidere le policy sociali e sanitarie sul territorio.
    Il fatto che decidere poi comporti anche per i Sindaci di conseguenza la responsabilità di finanziare quanto deciso può essere uno dei motivi per cui le SdS non decollano, è molto più comodo opporsi alla chiusura del Punto nascita, tanto paga il DG (come se non fossero soldi dai tax payer), e che muoiano più bambini tanto la gente non lo sa.
    Perfettamente d’accordo che, vista la crisi mondiale della democrazia rappresentativa così come è, è necessario pensare e provare nuove forme di partecipazione, consultazione, codecisione, etc.
    grazie, enrico salvatori

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