Come si distrugge un sistema sanitario
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- 23 Aprile 2012
Un medico inglese torna in un ospedale africano dove ha lavorato vent’anni prima. E ha scoperto gli effetti di un nuovo colonialismo sanitario. “Ciò di cui sono stato testimone è quello di un’industria che crea dipendenza, con una miriade di donatori esterni che competono per creare servizi paralleli indipendenti”.
Nel pieno della crisi del sistema sanitario dove lavora, con un’incombente riforma destinata a modificarne radicalmente la struttura e la missione, un medico inglese John Wright, epidemiologo clinico in Bradford, torna a visitare l’ospedale africano (di un paese dell’Africa meridionale) dove ha lavorato vent’anni prima[1].
Un ospedale missionario costruito negli anni sessanta per un tempo molto diverso da quello attuale, ma rimasto immutato nella sua struttura con i reparti invasi dall’odore pungente di disinfettanti e di malattie. Sebbene le mura siano rimaste le stesse, negli ultimi due decenni lo scenario sanitario è cambiato completamente. L’epidemie di HIV/AIDS e di tubercolosi hanno invaso il paese e non sembrano dare segni di arretramento. C’è più gente con l’HIV nelle colline intorno all’ospedale che in tutto il Regno Unito.
L’AIDS ha cambiato tutto, completamente. Uno tsunami di infezioni opportunistiche ha devastato il già fragile sistema sanitario e distrutto intere comunità. Sarebbe stato necessario un deciso rafforzamento dei servizi e l’iniezione di un esercito di operatori sanitari per far fronte a un’emergenza senza precedenti.
Ciò che è avvenuto è tutta un’altra storia. La storia di un nuovo colonialismo sanitario. Dozzine di organizzazioni, animate dalle migliori intenzioni e spinte da illimitate energie in una nuova corsa all’Africa, sono scese in campo – in gara l’una contro l’altra – per aiutare, ma – osserva Wright – soprattutto per dimostrare il loro impegno agli occhi dei loro sponsor.
I francesi hanno messo in piedi nuovi ambulatori e servizi sanitari paralleli per evitare la frustrazione di lavorare con quelli esistenti. Gli italiani hanno sviluppato la telemedicina per consentire il supporto di esperti internazionali. I britannici hanno istituito nuovi centri per l’esecuzione di test e counselling. Gli americani hanno promosso campagne a favore dell’astinenza.
Gli effetti di questa Babele sono stati distruttivi per i servizi sanitari locali.
L’ingresso dell’ospedale assomiglia a quello di una conferenza del G8, pieno di bandiere al vento dei paesi donatori che sembrano proclamare: compassione per la vostra impotenza, ammirazione per la nostra generosità.
La zona dell’ospedale è piena di camper e di case mobili. Una per i test e counselling, una per la prevenzione della trasmissione HIV madre-bambino, un paio per la formazione degli infermieri, una per la circoncisione maschile, un paio, infine, a supporto dell’assistenza domiciliare. I donatori non finanziano il rinnovamento e la manutenzione dell’ospedale; cosicchè mentre questo cade a pezzi, quello che è cresciuto intorno sembra un macabro lunapark.
I poster che promuovono il sesso sicuro mettono in primo piano la bandiera americana. Sembra che il messaggio principale non sia l’efficace prevenzione dell’Aids ma la promozione del donatore USA. In un giro che Wright ha fatto nei centri di salute periferici, ha chiesto ai medici perché quando questi discutevano di programmi di prevenzione e di cura riferivano sempre il nome del finanziatore americano. Questa la risposta: “Una delle condizioni del programma è che lo staff deve sapere chi finanzia e c’è sempre qualcuno intorno a controllare”. Conclusione: il riconoscimento del “marchio” è più importante dell’efficacia del programma.
In un altro centro di salute – continua Wright – ci hanno detto che differenti team di differenti organizzazioni non governative arrivano per fornire lo stesso servizio. Un gruppo parte e un altro arriva, in una sorta di commedia Shakespiriana. Le infermiere del centro scuotevano la testa di fronte a tanta confusione e incompetenza.
Queste le riflessioni conclusive di Wright. “La regola d’oro dello sviluppo è la sostenibilità: ciò di cui sono stato testimone è quello di un’industria che crea dipendenza, con una miriade di donatori esterni che competono per creare servizi paralleli indipendenti. Tutti si lamentano dei limiti della governance africana, ma la vera soluzione sostenibile sarebbe quella di avere più fiducia e dare più fondi ai governi locali (magari con un po’ più di auditing)”.
Wright aggiunge un (amaro) finale. “Un medico africano mi ha detto: noi abbiamo bisogno di un servizio sanitario nazionale, che superi l’attuale estrema frammentazione dei servizi. Quel medico pensava al NHS inglese. Ma io – che avevo in mente la prossima approvazione della riforma – mi chiedevo se quello che vedevo in Africa non era il futuro per l’Inghilterra”.
la precisione “chirurgica” con cui gavino maciocco descrive lo scenario africano, la competizione “apparente” dei liberi professionisti della sanità finalizzata ad obiettivi di proprio contesto lascia molto perplessi sul significato della competizione liberista in sanità. lascia perplessi rispetto al vero impatto sui bisogni di salute di una comunità. se gli sponsor sono gli stessi di chi investe su specificità e non priorità ( vedi l’ ottimo articolo di ascolese)sistematiche. oggi si va verso la certezza della delocalizzazione non ragionata di un sistema, quello sanitario, che purtropo paga interessi “profit” per tutti ma non per chi ne fruisce. appare evidente il fallimento in africa di questa strategia spot senza mancanza di metodo e senza un percorso assistenziale che faccia realmente trasparire una presa in carico del bisogno sanitario. so di ripetermi ma non ritengo di sbagliare: la metodologia adottata in sanità attualmente nel primo e nel terzo mondo (ndr. creato dal primo) sarà forse catastrofica.
E’ purtroppo storia triste che va ripetendosi!
Ovvero quando la visibilizzazione del “brand” è più importante dell'”aid effectiveness”.
Gran parte della cooperazione sanitaria che ho visto in giro, sia con i governi, sia con i privati, è di nome e di fatto “donor driven” !
In effetti io preferisco (e supporto) i sistemi tipo AMREF (e altre organizzazioni meno note ma attive in questo senso) in cui si cerca soprattutto di fare formazione in loco e di esportare solo il Know how, fornendo dove necessario anche supporto economico, lasciando però a medici e infermieri locali la gestione (che significa anche coordinazione) delle risorse e degli interventi. Una persona che conosco, per esempio, aiuta un piccolo ospedale per malati di AIDS in una località dove c’è un bellissimo ambulatorio di una ONLUS belga, che però molti pazienti possono raggiungere solo dopo ore di cammino. L’idea intelligente è stata quella di fare una casa di accoglienza per donne (spesso rifiutate dalla famiglia perché malate) e bambini vicino all’ospedale, con orto, pollaio ecc. per essere abbastanza autosufficienti. L’ospedale è diretto da un medico africano, con personale africano, e dall’Italia sono state inviate (con container) le cose che servivano a loro (letti scartati da ospedali che hanno rifatto l’arredamento, un’ambulanza, coperte, qualchje apparecchiatura per noi superata ma ancora efficiente, altro materiale) e adesso soprattutto soldi.
Una moneta locale utilizzabile per finanziare il sistema sanitario locale(e anche scuole,servizi sociali ecc.). Potrebbe coprire un 10-20 per cento dell’economia locale e può essere utilizzata solo dalla comunità locale ( con un cambio fisso o variabile con le altre monete ).
I cittadini della comunità locale accettano questa moneta circolante perchè sanno di contribuire al finanziamento della sanità locale.
L’autorità di emissione deve essere composta da persone elette localmente e facenti parte della società civile.
L’economia della scarsità creata e manipolata dai banchieri che creano il denaro ex nihilo deve finire.
Le comunità locali (ovunque) devono riappropriarsi della sovranità monetaria.
l’articolo fotografa perfettamente la realtà dei cosidetti “aiuti”. Ho lavorato in Africa 5 anni (85-90), e già allora vi era un dibattito acceso tra sostenitori di programmi selettivi (verticali) di Primary Health Care (sostenuti da organizzazioni internazionali in primis) rispetto ad un approccio globale (comprehensive PHC). Ora l’approccio è ancora più aggressivo e, dopo le riforme strutturali di banca Mondiale e fondo monetario, i grandi sponsor travestiti da benefattori finiscono di distruggere completamente qualsiasi parvenza di servizio pubblico equo e sostenibile. Credo siano le prove generali (come tristemente constata l’autore) per poi applicare il modello ai sistemi pubblici europei.
Grazie per questo sito.
Non se ne esce. Le ONG sono alla ricerca di fondi, ossia di progetti finanziati che prevedono appunto l’impiego della ONG.Il CUAMM si muove cosi’, da sempre. E non potrebbe fare diversamente…..come il resto delle ONG italiane.
Il finanziatore ‘vuole’ vedere i risultati,vuole vedere un inizio e una fine del suo intervento. ‘Pago, voglio vedere la mortalita’ diminuita alla fine del progetto’.
Da qui la miriade di interventi, di progetti, di quadri logici, di valutazioni finali….sempre positive. E poi volontari/cooperanti/esperti che si avvicendano con contratti brevi o meno brevi.Il sistema locale si vede poi spesso privato degli elementi buoni reclutati dalle ONG che appunto ‘devono’ poter dimostrare buoni risultati finali e assumono i migliori.
Sarei deciso e ‘azzardato’: se mando medici in un Paese africano costui deve lavorare alle dipendenze dell’Amministrazione locale, con stipendio pari a quello dei colleghi locali, con lo stesso trattamento di lavoro. Se ho fondi li devo gestire Assieme all’Amministrazione locale.
Cade tutto il sistema attuale? nessuno piu’ partira’ dall’Europa? non so, ma un cambiamento credo sia necessario.