Diseguaglianze sociali nel rischio cardiovascolare

Piercarlo Ballo, Alfredo Zuppiroli

L’impatto della condizione socio-economica sul rischio cardiovascolare rappresenta tuttora un problema crescente a livello mondiale, anche nei Paesi ad alto reddito. Le diseguaglianze sociali nell’incidenza di infarto miocardico stanno progressivamente aumentando nel tempo.

Nell’anno in corso ricorre il bicentenario del New England Journal of Medicine, che nel suo primo numero del gennaio 1812 ospitò una delle prime descrizioni scientifiche di un evento coronarico, un caso di angina riportato da John Warren con il titolo di “Remarks on angina pectoris”[1].

La progressiva evoluzione occorsa nei successivi due secoli, caratterizzata da un continuo e inesorabile progresso nelle conoscenze fisiopatologiche della patologia coronarica e nelle opzioni terapeutiche farmacologiche e interventistiche – fino ai più recenti sviluppi terapeutici e alle promettenti prospettive date dalla terapia rigenerativa cardiaca – suggerisce che la storia della malattia coronarica stia evolvendo verso un lieto fine. Una sorta di happy ending per quella lunga cronistoria biologica che è stata recentemente definita A tale of coronary artery disease and myocardial infarction[2].

Tuttavia, c’è anche un’altra storia da raccontare, ossia quella che si riferisce agli aspetti non biologici (socioeconomici, psicologici, di genere ed etici) nella gestione dei pazienti con malattia coronarica. L’impatto dello status sociale ed economico sul rischio cardiovascolare, già dimostrato anni fa negli studi Whitehall I e II, rappresenta tuttora un problema crescente a livello mondiale, anche in Paesi ad alto reddito.

Lo studio americano ARIC ha mostrato che il livello socioeconomico è un determinante maggiore del rischio di morte improvvisa extraospedaliera e di morte secondaria a coronaropatia, particolarmente nelle donne[3], mentre recenti evidenze dal registro finlandese FINAMI hanno confermato che la mortalità correlata ad eventi coronarici era 5 volte più elevata nel sestile caratterizzato dal più basso introito economico rispetto al sestile con il più alto introito[4]. Inoltre, ulteriori evidenze suggeriscono che le differenze nell’incidenza di infarto miocardico correlate allo status socioeconomico stanno progressivamente aumentando nel tempo[5]. Assimilabile alla sfera delle problematiche sociali nella gestione della malattia coronarica, ma con caratteristiche assolutamente proprie, è inoltre la presenza di differenze di genere nel management di questi pazienti.

La storica descrizione della sindrome di Yentl da parte di Bernadine Healy nel 1991, riferita all’oggettiva evidenza di significative differenze nella gestione dei percorsi diagnostici e terapeutici tra uomini e donne a svantaggio di queste ultime, ha posto le basi per il successivo sviluppo della medicina di genere[6]. Due recenti studi, condotti rispettivamente in Svezia ed in Italia, hanno mostrato che tali differenze di genere sono ancora ben evidenti, confermando che la sindrome di Yentl “is alive and well”[7].

Il ruolo di fattori psicologici (depressione, stress, personalità di tipo A, ostilità, etc…) nell’influenzare il rischio coronarico è stato anch’esso dimostrato in numerosi studi, peraltro con un associazione bidirezionale in cui la patologia coronarica a sua volta favorisce l’insorgenza o l’accentuazione di tali patologie, e tuttora svolge un ruolo epidemiologico importante particolarmente nei Paesi occidentali. Nello studio INTERHEART, che ha analizzato l’impatto dei fattori psicosociali sul rischio di infarto miocardico in 24767 soggetti reclutati in 52 diversi Paesi, sei diverse variabili psicologiche (stress nel luogo di lavoro, stress a casa, stress legato a problemi finanziari, eventi stressanti maggiori nell’ultimo anno di vita, depressione e locus of control) sono risultate tutte indipendentemente associate ad un aumentato rischio di infarto miocardico[8]. Analogamente, il recentissimo studio americano Health and Retirement ha dimostrato che la presenza di un “obiettivo nella propria vita”, valutato su una scala a sei punti dove valori più elevati indicavano obiettivi maggiori e meglio definiti, era fortemente associato al rischio coronarico, in modo che ciascun punto di aumento nella scala corrispondeva ad una riduzione relativa del 27% nel rischio di eventi coronarici[9].

D’altronde, va anche sottolineato che, poiché i fattori socioeconomici e psicosociali sono strettamente intercorrelati, il loro effetto combinato sul rischio cardiovascolare è la risultante della loro interazione. Ad esempio, un recente studio giapponese ha mostrato che la mortalità totale e specifica per cinque cause maggiori (malattia coronarica, neoplasie, malattie cerebrovascolari, incidenti non intenzionali e suicidi) analizzata tra professionisti di elevato livello sociale si è ridotta dal 1980 in poi, ma nella seconda parte degli ani ’90 ha iniziato nuovamente ad aumentare in conseguenza della stagnazione economica nazionale, producendo un inatteso ribaltamento del normale pattern occupazionale di rischio di morte[10]. Sulla base di queste considerazioni, un’appropriata stratificazione che tenga conto dei fattori socioeconomici e psicosociali dovrebbe rappresentare un elemento chiave per qualunque analisi finalizzata a valutare l’incidenza, la prevalenza e l’outcome clinico della malattia coronarica.

Infine, come risultato del continuo miglioramento delle tecnologie e dell’invecchiamento della popolazione generale, problemi etici relativi al decision-making clinico stanno diventando sempre più frequenti nella gestione dei pazienti con malattia coronarica complicata da scompenso cardiaco, particolarmente per quanto attiene al setting di fine-vita. D’altronde, una recente position statement della Heart Failure Association-European Society of Cardiology ha sottolineato il dovere medico di migliorare la qualità di vita di questi pazienti e delle loro famiglie, ponendo l’accento sulla prevenzione e sull’alleviamento del dolore, sul trattamento dei sintomi sia fisici che psicologici e sulla necessità di porre attenzione alle necessità sociali e spirituali del paziente[11].

Pertanto, in contrasto con il miglioramento della gestione della malattia coronarica intesa come disease, ossia come alterazione del normale equilibrio fisiologico riconducibile a fenomeni strettamente biologici, problemi etici di importanza crescente emergono quando si considera la malattia coronarica come illness o sickness, tenendo quindi in considerazione l’esperienza soggettiva dello stato di malattia e le sue ricadute sociali. 

La storia biologica della malattia coronarica sta probabilmente evolvendo verso un lieto fine, ma importanti problemi rimangono aperti in merito ad aspetti non biologici. Il lieto fine di quest’altra storia, una storia biografica, è ancora lontano.

Piercarlo Ballo, S. C. Cardiologia, Ospedale S. Maria Annunziata, Azienda Sanitaria di Firenze.
Alfredo Zuppiroli, Dipartimento cardiologico, Azienda Sanitaria di Firenze

Bibliografia

  1. Warren J. Remarks on angina pectoris. N Engl J Med Surg 1812;1:1-11
  2. Nabel EG, Braunwald E. A tale of coronary artery disease and myocardial infarction. N Engl J Med 2012;366:54-63.
  3. Foraker RE, Rose KM, Kucharska-Newton AM, Ni H, Suchindran CM, Whitsel EA. Variation in rates of fatal coronary heart disease by neighborhood socioeconomic status: the atherosclerosis risk in communities surveillance (1992-2002). Ann Epidemiol 2011;21:580-8.
  4. Lammintausta A, Immonen-Räihä P, Airaksinen JK, Torppa J, Harald K, Ketonen M, Lehto S, Koukkunen H, Kesäniemi AY, Kärjä-Koskenkari P, Salomaa V; FINAMI Study Group. Socioeconomic inequalities in the morbidity and mortality of acute coronary events in Finland: 1988 to 2002. Ann Epidemiol 2012;22:87-93.
  5. Davies CA, Dundas R, Leyland AH. Increasing socioeconomic inequalities in first acute myocardial infarction in Scotland, 1990-92 and 2000-02. BMC Public Health 2009;9:134.

  6. Healy B. The Yentl syndrome. N Engl J Med 1991;325:274-6.
  7. Merz CN. The Yentl syndrome is alive and well. Eur Heart J 2011;32:1313-5.
  8. Rosengren A, Hawken S, Ounpuu S, et al; INTERHEART investigators. Association of psychosocial risk factors with risk of acute myocardial infarction in 11119 cases and 13648 controls from 52 countries (the INTERHEART study): case-control study. Lancet 2004;364:953-62.
  9. Kim ES, Sun JK, Park N, Kubzansky LD, Peterson C. Purpose in life and reduced risk of myocardial infarction among older U.S. adults with coronary heart disease: a two-year follow-up. J Behav Med 2012 Feb 23. [Epub ahead of print]
  10. Wada K, Kondo N, Gilmour S, Ichida Y, Fujino Y, Satoh T, Shibuya K. Trends in cause specific mortality across occupations in Japanese men of working age during period of economic stagnation, 1980-2005: retrospective cohort study. BMJ 2012;344:e1191.
  11. Jaarsma T, Beattie JM, Ryder M, et al; Advanced Heart Failure Study Group of the HFA of the ESC. Palliative care in heart failure: a position statement from the palliative care workshop of the Heart Failure Association of the European Society of Cardiology. Eur J Heart Fail 2009;11:433-43.

Un commento

  1. Articolo molto interessante che tocca due tematiche importanti: le disuguaglianze di salute e i problemi etici di fine vita, tanto delicati e complessi.
    Penso a chissà come e chissà quanto l’attuale crisi economica danneggia in temrmini di salute la popolazione e amplifica le disuguaglianze sociali.

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