Nothing about me, without me
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- 19 Luglio 2012
Donatella Pagliacci

Patient empowerment è un processo che aiuta le persone ad acquisire controllo, attraverso l’iniziativa, la risoluzione di problemi, l’assunzione di decisioni, che può essere applicato in vari contesti nell’assistenza sanitaria e sociale. Ma è anche diritto e capacità del paziente di fare scelte ed assumere responsabilità per le conseguenze delle proprie scelte.
“Patient empowerment─who empowers whom?”. Questo è il titolo di un recente editoriale di Lancet[1] che riferisce della prima Conferenza Europea sul Patient Empowerment, tenutasi a Copenhagen, Danimarca, e organizzata dall’omonimo Network Europeo (ENOPE 2012). La conferenza si è svolta con il patrocinio della Presidenza danese della Unione Europea, ed è stata organizzata dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS, dal Ministero della Salute danese, dal Comitato Danese per l’Educazione alla Salute, dalla Fondazione svizzera Careum e dal gruppo inglese Expert Patient.
Della Conferenza riferisce anche il British Medical Journal, nella sezione News[2]. Una definizione di patient empowerment data dagli organizzatori della Conferenza è: “un processo che aiuta le persone ad acquisire controllo, attraverso l’iniziativa, la risoluzione di problemi, l’assunzione di decisioni, che può essere applicato in vari contesti nell’assistenza sanitaria e sociale”.
La letteratura recente, fornisce altre definizioni che, oltre che al processo, tengono conto dell’obiettivo, descrivendo l’empowerment del paziente nei termini del diritto e capacità del paziente di fare scelte ed assumere responsabilità per le conseguenze delle proprie scelte[3]. In generale, il principio guida è quello dell’autodeterminazione (“nothing about me, without me”) Lo sviluppo degli interventi capaci di empower sembra essere una direzione logica, data l’enfasi recentemente assegnataall’assistenza centrata sul paziente.
L’empowerment, per quanto estesamente citato e indicato come orientamento da assumere nei sistemi sanitari, è, però concetto e pratica la cui complessità non può essere trascurata. Anderson e Funnell[4] hanno chiaramente indicato come l’empowerment del paziente richieda un cambiamento di paradigma rispetto al modo in cui la medicina è stata tradizionalmente praticata e che i cambiamenti di paradigma trovano una forte resistenza sia negli operatori sanitari che nei pazienti Aujoulat, d’Hoore, and Deccache[5] hanno identificato due dimensioni chiave necessarie allo sviluppo dell’empowerment del paziente: una trasformazione personale del paziente e una relazione interpersonale di co-creazione con gli operatori sanitari. In altri termini coinvolgere i pazienti nella loro cura richiede di più che fornire materiale e suggerire che facciano domande, richiede una trasformazione della dinamica personale tra paziente ed operatore, oltre che del sistema di offerta.
Patient Education Research Center dell’Università di Stanford
Nella Conferenza sono stati toccati vari aspetti riguardanti il patient empowerment: l’alfabetizzazione sanitaria (health literacy), l’autogestione delle malattie croniche ed il ruolo della tecnologia.
Un tratto comune delle istituzioni che hanno promosso l’iniziativa è il fatto che sono tutte coinvolte, nei propri Paesi , nell’implementazione del Programma di Autogestione delle Malattie Croniche sviluppato dal Patient Education Research Center dell’Università di Stanford.
La storia di questo Programma è affascinante, essendo un esempio di successo di una “traveling technology” [6].
Il Programma di Autogestione delle Malattie Croniche nasce in California a metà degli anni ’70. L’educazione dei pazienti cronici sta iniziando a muovere i primi passi per darsi una base teorica e metodologica, sulla spinta di una rivendicazione di partecipazione e autonomia nelle scelte riguardanti il corpo e la salute, promossa dai movimenti che animano la società statunitense, primo tra tutti il movimento femminista.
Kate Lorig, all’epoca all’inizio della sua carriera universitaria a Berkeley, sviluppa un Programma per l’Autogestione dell’Artrite, con l’obiettivo di fornire ai pazienti strumenti per gestire l’impatto della malattia sulla propria vita; per lo sviluppo e la successiva valutazione del Programma riceve finanziamenti dall’Arthritis Foundation e della National Institute of Health.
La valutazione del Programma ne dimostra l’efficacia, ma cinque anni di lavoro e ricerca producono qualche risposta e tante domande: “La prima e più notevole lezione è la disponibilità di un gran numero di persone dappertutto negli Stati Uniti, a partecipare sia al Corso di Autogestione dell’Artrite, che alla ricerca; la seconda, abbiamo provato che conduttori “laici” possono essere formati per condurre un corso sull’artrite abbastanza complesso. Si sono dimostrati affidabili e, soprattutto, accettati sia dal pubblico che dagli operatori sanitari. Terza, un’organizzazione a livello nazionale, in questo caso l’Arthritis Foundation, è stata capace di disseminare il Corso ampiamente e, in una qualche misura, di condurre valutazioni. In ultimo, abbiamo rilevato che le indicazioni standard per l’artrite, come l’esercizio o il rilassamento sembrano contribuire solo in misura modesta alla riduzione del dolore sperimentata dai partecipanti al Corso. Questa inattesa mancanza di correlazione ci ha portato ad avviare lo studio di altri possibili fattori di mediazione come l’auto-efficacia, la depressione o entrambi”[7].
Partendo da quest’ultima osservazione Kate Lorig inizia una ricerca in collaborazione con Albert Bandura, noto psicologo del Dipartimento di Psicologia di Stanford, autore di testi fondamentali come “Social Cognitive Theory”, “Social Foundations of thought and action: a social cognitive theory” e “Self-efficacy: the exercise of control”, in cui ha sviluppato il concetto di auto-efficacia (definita come “la convinzione che una persona ha di poter riuscire con successo a svolgere un’azione in un contesto specifico”). Sulla base di questa collaborazione, il Programma di autogestione dell’artrite è stato successivamente modificato e perfezionato, con enfasi sull’aumento dell’auto-efficacia, considerata fattore critico per il risultato del programma. Il programma sull’artrite è diventato successivamente la base per un Programma per l’autogestione delle Malattie Croniche (Chronic Disease Self Management Program o CDSMP) ; ciò sulla base dell’assunzione che la maggior parte dei problemi che i malati cronici devono affrontare sono simili, indipendentemente dalla patologia da cui sono affetti. Affermano Lorig e Halman[8] “L’autogestione aiuta i pazienti a mantenere la salute (e non la malattia NDR) nella loro prospettiva psicologica. Questo si ottiene con la concentrazione su tre serie di compiti…: la prima riguarda la gestione medica, … la seconda riguarda il mantenimento, cambiamento o creazione di comportamenti o ruoli sociali dotati di senso… L’ultimo compito richiede il gestire le sequele emozionali legate alla malattia cronica, che altera la visione del futuro….”.
Il Programma è stato sviluppato da Kate Lorig, che nel frattempo si era trasferita all’Università di Stanford, e dalle colleghe Virginia Gonzalez e Diana Laurent, come progetto di ricerca collaborativo tra Stanford e il Northern California Kaiser Permanente. Il Programma consiste di sei seminari settimanali di 2 ore e mezzo ciascuno, condotti da due conduttori formati ed in possesso di un Manuale dettagliato per la conduzione del programma. Così come per il Programma di Autogestione dell’Artrite, il CDSMP è stato sviluppato per essere condotto da pazienti cronici (“peers”) adeguatamente formati. L’esito della valutazione del Programma, effettuata con un trial controllato è del 1999[9]. In seguito, il Programma, nella versione inglese, o in altre lingue, è stato sottoposto a numerose altre ricerche di efficacia. Nel 2011 il CDC ha sintetizzato in una metanalisi[10] i risultati di 55 studi randomizzati e controllati o studi longitudinali svolti in Paesi anglofoni (Stati Uniti, Regno Unito, Nuova Zelanda, Canada, Australia) sui due programmi (Artrite e CDSMP), non necessariamente in lingua inglese.
Le conclusioni dello studio, alla luce dei risultati evidenziati, sono le seguenti indicazioni di politica sanitaria:
- Includere il CDSMP nella gestione delle patologie croniche e nelle iniziative di supporto all’autogestione. Ciò alla luce dei “ risultati robusti di miglioramenti da lievi a moderati nell’auto-efficacia, salute psicologia e comportamenti di salute specifici che persistevano nei 12 mesi”.
- Investire risorse pubbliche e private (capitale umano ed economico) per sostenere l’erogazione su ampia scala del CDSMP al fine di raggiungere grandi gruppi di popolazione con malattie croniche. Devono essere identificati sistemi di finanziamento appropriati.
- Incorporare la raccomandazione o l’invio al CDSMP negli standard di assistenza, nei protocolli di assistenza e altri indirizzi che orientino l’erogazione dell’ assistenza di alta qualità alle malattie croniche.
- Utilizzare il CDSMP, … come strategia per aiutare le persone con malattie croniche e divenire più attivi … I risultati della metanalisi indicano infatti che il CDSMP induce un piccolo ma significativo aumento nell’esercizio aerobico, che persiste ai follow up ai9 e 12 mesi.
Dal punto di vista della sanità pubblica e della pratica clinica le indicazioni sono:
- Supportare l’implementazione su ampia scala del CDSMP. I sistemi di offerta, sia in ambito comunitario che nei servizi sanitari, dovrebbero prendere in considerazione l’introduzione di questi programmi pronti all’uso, nel loro menu di servizi.
- Incoraggiare la partecipazione ai programmi come parte dell’assistenza di routine alle malattie croniche.
- Fornire sia programmi generici, che specifici per patologia per rispondere ai bisogni delle persone con multi patologia e a quelle con una sola condizione cronica dominante.
Al momento il CDSMP è tradotto in 15 lingue e utilizzato in più di 30 paesi nel mondo. Alcuni Paesi, tra cui il Regno Unito, la Danimarca, l’Australia, lo hanno promosso attraverso iniziative di disseminazione a livello nazionale: molto nota è l’iniziativa Expert Patient inglese. Con la Presidenza Obama, anche negli Stati Uniti è stato dato un forte impulso alla disseminazione del Programma. Con l’American Recovery and Reinvestment Act nel 2009, un’iniziativa dell’ U.S. Administration on Aging, in collaborazione con il Center for Disease Control and Prevention (CDC) e il Center for Medicare and Medicaid Services (CMS), sono stati investiti 27 milioni di dollari in finanziamenti agli Stati per la disseminazione del Programma. Il finanziamento, erogato nel Marzo 2010 aveva una durata di due anni ed ha fatto sì che, in due anni, 100.000 cittadini con malattie croniche partecipassero al programma.
Anche in Europa, come testimonia la Conferenza di Copenhagen l’utilizzo di questo Programma e l’attenzione al tema dell’empowerment dei pazienti sta crescendo. Sono ormai 11i Paesi Europei in cui il Programma viene adottato su scala più o meno ampia e con un’iniziativa di disseminazione sistematica (come nel Regno Unito e in Danimarca) o a macchia di leopardo. In Italia il Programma CDSMP ed il Programma di Autogestione del Diabete (anch’esso sviluppato da Stanford) sono stati implementati come parte del Progetto Sanità d’Iniziativa in 3 ASL toscane (Livorno, Siena e Prato) con un coinvolgimento di circa 750 pazienti e risultati molto positivi in termini di partecipazione, accettazione e gradimento.
Anche in Lombardia, Telbios, che sta partecipando alla sperimentazione del CREG per la presa in carico del paziente cronico, con il ruolo di fornitore di servizi per alcune cooperative di medici di medicina generale, ha concordato di includere tra le attività la formazione e l’empowerment del paziente e del suo caregiver, secondo il metodo Stanford ed ha avviato l’implementazione del Programma, attraverso la formazione a Stanford di due operatori.
Kate Lorig ha partecipato recentemente con una lezione magistrale dal titolo “Self-Management Education: more than a nice extra” al XII Congresso Cure Primarie “Tra Chronic Care Model e medicina d’iniziativa”organizzato dall’Asl 11 di Empoli il 14, 15 e 16 Giugno 2012. Il suo intervento ha suscitato grande interesse per la dimostrazione di estremo rigore e insieme di estrema semplicità nel condurre un progetto che, in 30 anni di lavoro, ha portato allo sviluppo di un metodo, alla formazione di migliaia di conduttori dei Programmi di autogestione e alla partecipazione di un numero di pazienti cronici che ormai si pensa superi i 200.000.
Questi dati non possono che incoraggiare a continuare l’implementazione dei Programmi in Toscana e definire strategie più sistematiche di disseminazione degli stessi. Sono però da considerare i problemi di sostenibilità del Programma. L’efficacia in termini di sanità pubblica è infatti legata alla disseminazione su ampia scala (d’altronde, il numero di pazienti potenziali beneficiari di questo tipo di intervento è, come è noto, altissimo). Ciò richiede un impianto di sviluppo del Programma che viene sintetizzato da Kate Lorig in quattro pilastri:
- Indirizzo politico e fonte di finanziamento sostenibile
- Infrastrutture per erogare il/i Programma/i
- Staff dedicato al programma
- Capacità di formazione
In tempi di riduzione delle risorse destinate ai sistemi sanitari, già il primo pilastro appare messo in discussione. Ciò che si teme, inoltre, in tempi di spending review è, che questa porti oltre che ad una drastica cura dimagrante per il sistema pubblico, ad una altrettanto drastica riduzione di spazi e risorse per la sperimentazione e l’innovazione in sanità. La revisione del CDC, prima citata, indica chiaramente come lo sviluppo su ampia scala dei Programmi di autogestione richieda verosimilmente “sia finanziamento pubblico che privato”, il primo essendo però volano fondamentale di sviluppo, in mancanza del quale le risorse private mobilitabili (ad esempio: volontariato, Associazioni di Pazienti, Fondazioni…) non è probabile che assumano l’iniziativa.
Risorse pubbliche sono quindi necessarie, e questo potrebbe risultare improponibile in questo momento; in realtà la questione costi/risorse, rispetto ai programmi di autogestione è complessa e contraddittoria. Molti studi analizzati dal CDC, nella revisione sistematica del 2011, hanno dimostrato che i Programmi portano ad una riduzione dei costi o ad un’indifferenza (né aumento, né riduzione).
Alcuni critici dei programmi di autogestione esprimono la preoccupazione che lo spostamento di potere implicito nel concetto di empowerment possa sollevare la responsabilità dei governi di finanziare il sistema sanitario in modo adeguato rispetto al crescente carico delle malattie croniche. L’enfasi che la ricerca pone nel definire la riduzione di costi realizzabile con i programmi di autogestione delle malattie croniche, sembra dare ragione a queste critiche.
Come abbiamo visto però i programmi di autogestione non nascono nel vuoto; per essere efficaci richiedono un sistema che li promuova, li sviluppi, li diffonda e li valuti. L’empowerment, inoltre, riguarda anche il rispetto dei diritti e della voce dei pazienti, il loro coinvolgimento nel disegnare le politiche sanitarie e rendere i sistemi sanitari più accessibili e l’informazione più chiara e comprensibile. Solo in questo contesto, l’autogestione può avere efficacia e contribuire a promuovere salute; se poi, come sembra possibile, aiuta anche a ridurre i costi, o a non incrementarli, questo dovrebbe renderla popolare, in tempi di spending review.
Donatella Pagliacci, Coordinatore sanitario Zone Distretto Val di Cornia ed Elba, ASL 6 Livorno.
- Patient empowerment—who empowers whom?The Lancet 2012; 379: 1677
- People with chronic disease should be encouraged to manage their care. BMJ 2012;344:e2771 doi: 10.1136/bmj.e2771 (Published 17 April 2012)
- Aujoulat I, Marcolongo R, Bonadiman L, &Deccache A. Reconsidering patient empowerment in chronic illness: A critique of models of self-efficacy and bodily control. Social Science and Medicine 2008; 66: 1228-1239
- Anderson RM, Funnell MM. Patient empowerment: Reflections on the challenge of fostering the adoption of a new paradigm. Patient Education and Counseling, 2005; 57:153-157.
- Aujoulat I, d’Hoore W, Deccache A. Patient empowerment in theory and practice: Polysemy or cacophony? Patient Education and Counseling 2007; 66: 13-20.
- Nielsen AJ. Traveling technologies andtransformations in health care- Copenhagen Business School -Doctoral School of Organisation and Management Studies- PhD Series 36.2010
- Lorig K, Laurin J, GinesGE.Arthritis self-management. A five-year history of a patient education program. Nurs Clin North Am 1984 19(4):637-45
- Lorig RR, Holman HR. Self management education: history, definition, outcomes and mechanisms. Ann. Behav.Med 2003; 26 (1 ) 1:7
- Lorig KR, Sobel DS, Stewart AL, Brown Jr BW, Ritter PL, González VM, Laurent DD, Holman HR. Evidence suggesting that a chronic disease self-management program can improve health status while reducing utilization and costs: A randomized trial. Medical Care 1999; 37(1):5-14
- Teresa J. Brady, PhD Louise Murphy, PhD et al. Sorting through the evidence for the Arthritis Self-Management Program and the Chronic Disease Self-Management Program-Executive summary of ASMP/CDSMP meta-analyses [PDF: 1,2 Mb]. May 2011, Center for Disease Control and Prevention
Prima di tutto complimenti per questo articolo. Sono circa due anni che nei convegni sulla gestione della patologia cronica dove partecipo come relatore cerco di spiegare il concetto di empowerment, ma dopo aver letto questo scritto, mi rendo conto che l’ho fatto in modo molto superficiale: come scrivere una ricetta o un consiglio generico sullo stile di vita, senza minimamente addentrarmi sulle dinamiche relazionale derivanti da questo cambiamento di paradigma.
Mea culpa. Esistono degli Atti del congresso che si è tenuto ad Empoli il giugno scorso? Grazie
Un articolo ed un argomento davvero molto interessanti.
Un cambio di paradigma di questo tipo penso che necessiti anche di un’informazione agli utenti sottoposta a controllo scientifico, sganciata dalle pressioni dei media, resa indipendente da strategie di marketing.
Si tratta perciò di un processo che comporta non “solo” un intervento sui cittadini, gli utenti e gli operatori sanitari, ma anche scelte gestionali ed organizzative di tipo economico e sociale.