Ricerca scientifica: non è sufficiente dire Bad Pharma
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- 17 Dicembre 2012
Quello della Reboxetina è solo uno dei numerosi casi in cui le industrie farmaceutiche hanno consapevolmente insabbiato i risultati di studi che mostravano gli effetti collaterali dei loro farmaci. Ma Big Pharma non può essere considerato l’unico responsabile di questi episodi, che possono in realtà avvenire solo con il tacito consenso di tutta una serie di attori, a partire dal mondo accademico.
“I medici che prescrivono farmaci non sanno che questi talvolta non fanno quello che in realtà dovrebbero fare, e nemmeno i loro pazienti. I produttori di farmaci invece lo sanno bene, ma non lo dicono”. Ecco in sintesi il messaggio principale di un articolo recentemente pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian[1]. L’articolo è in realtà un estratto del libro “Bad Pharma” pubblicato nel 2012 e scritto da Ben Goldacre, medico britannico già autore del libro “Bad Science” (2008).
Per descrivere il modo in cui l’industria farmaceutica mina il processo scientifico in favore del proprio profitto, Goldacre parte proprio dalla sua esperienza clinica e racconta: “La Reboxetina(a) è un farmaco che io stesso ho prescritto. Altri farmaci non avevano funzionato per uno dei miei pazienti, così abbiamo deciso di provare qualcosa di nuovo. Ho letto i dati dei trial clinici prima di compilare la ricetta, e ho trovato solo studi ben progettati e con risultati più che positivi.(…) Il paziente e io abbiamo discusso brevemente le evidenze disponibili, e abbiamo concordato sul fatto che era il giusto trattamento da provare. Ho quindi compilato una ricetta. Ma entrambi eravamo stati tratti in inganno”.
Proviamo a capire qual è l’inganno di cui parla Goldacre.
Nel 2010, un gruppo di ricercatori ha raccolto tutti i dati che erano mai stati prodotti sulla Reboxetina, sia degli studi che erano stati pubblicati sia di quelli che non erano mai apparsi in pubblicazioni scientifiche. Quando tutti questi dati sono stati analizzati, quello che si è delineato è stato un quadro sconvolgente. Sette studi erano stati condotti confrontando Reboxetina con un placebo. Solo uno, condotto su 254 pazienti, aveva portato a un chiaro risultato positivo, ed era stato pubblicato su una rivista accademica. Ma anche altri sei trial erano stati realizzati, con un numero di pazienti dieci volte superiore. Tutti questi studi avevano mostrato che la Reboxetina non era migliore del placebo; tuttavia nessuno di questi studi era stato pubblicato. Il quadro che si configura è ancora peggiore se si considerano le ricerche che hanno confrontato la Reboxetina con altri farmaci. In questo caso, quando sono stati analizzati gli studi non pubblicati, si è scoperto che i pazienti avevano più probabilità di avere effetti collaterali – e di abbandonare l’assunzione del farmaco proprio a causa di tali effetti – se stavano assumendo Reboxetina piuttosto che uno dei farmaci concorrenti.
Ecco lo sconfortato commento di Goldacre: “Ho fatto tutto quello che si suppone un medico debba fare. Ho letto gli articoli, li ho valutati criticamente, li ho compresi, li ho discussi con il mio paziente e abbiamo preso una decisione insieme, sulla base delle evidenze disponibili. Secondo i dati pubblicati, la Reboxetina era un farmaco sicuro ed efficace. In realtà, non era meglio di un placebo e, peggio ancora, erano più gli svantaggi che i benefici. Come medico, ho fatto qualcosa che, sulla bilancia di tutte le prove, ha danneggiato il mio paziente, semplicemente perché i dati negativi non erano stati pubblicati”[1].
Paradossalmente in questa vicenda nessuna legge è stata infranta; la Reboxetina è ancora in commercio, ma soprattutto, come sottolinea giustamente Goldacre, il sistema che ha permesso che tutto questo accadesse è rimasto immutato. Quello della Reboxetina tra l’altro è solo uno dei numerosi casi in cui le industrie farmaceutiche hanno consapevolmente insabbiato i risultati di studi che mostravano gli effetti collaterali dei loro farmaci.
Addentriamoci dunque nel sistema che ha permesso che tutto questo accadesse.
Secondo Goldacre, il “peccato originale” può essere rintracciato nel fatto che l’efficacia dei farmaci viene verificata dalle stesse ditte che li producono e non sorprende quindi che questi studi tendono a produrre risultati che favoriscono il produttore. Nel 2010, alcuni ricercatori di Harvard e Toronto hanno analizzato tutti i trial su cinque classi principali di farmaci (ipocolesterlolemizzanti, antidepressivi, antipsicotici, inibitori di pompa-protonica e vasodilatatori) condotti tra il 2000 e il 2006 e registrati nel database ClinicalTrials.gov.
Gli autori hanno analizzato due caratteristiche principali per ognuno degli studi: se i risultati erano positivi e se erano stati finanziati dall’industria.
Sono stati individuati 546 trial ed è emerso che l’ 85,4% degli studi finanziati dall’industria erano positivi, mentre solo il 50% degli studi finanziati dal governo lo erano[2].
Nel 2007 inoltre un gruppo di ricerca dell’Università della California guidato da Lisa Bero, ha esaminato 192 studi sui benefici delle statine e ha rilevato che gli studi finanziati dal produttore del farmaco oggetto di studio avevano una probabilità 20 volte maggiore di riportare risultati favorevoli[3].
E ancora nel 2003 alcuni autori hanno effettuato una metanalisi di tutti gli studi che hanno esaminato il rapporto tra finanziamenti da parte dell’industria e risultati della ricerca. È emerso che gli studi finanziati hanno, nel complesso, circa quattro volte più probabilità di riportare risultati favorevoli per l’industria stessa[4].
Come è possibile che i trial sponsorizzati dall’industria riescano a ottenere quasi sempre un risultato positivo? Ebbene, anche nelle sperimentazioni cliniche controllate e randomizzate è possibile, mantenendo standard tecnici di elevata qualità, ottenere la risposta desiderata ponendo semplicemente il quesito giusto oppure calibrando a priori i risultati di una sperimentazione[5].
Numerose sono le strategie adottate per tenere la ricerca “sotto controllo”. A volte i trial sono viziati già a partire dalla progettazione. È possibile infatti scegliere in modo “appropriato” i pazienti (in modo che abbiano più probabilità di ottenere una migliore risposta al trattamento) oppure il gruppo di controllo. Ad esempio, se si intende dimostrare l’efficacia del proprio prodotto si può sottoutilizzare lievemente quello del concorrente; se si vuole invece dimostrare la migliore tollerabilità, lo si somministra a dosi aumentate. E ancora è possibile “sbirciare” i risultati a metà dello studio e interrompere il trial in anticipo quando i risultati sono promettenti oppure si possono scegliere in modo appropriato gli end point; ad esempio, si possono utilizzare end-point multipli e selezionare per la pubblicazione quelli che hanno dato un esito favorevole. Infine, quando i trial producono risultati giudicati sfavorevoli, le aziende ne evitano la pubblicazione. Quest’ultimo fenomeno prende il nome di publication bias e, come giustamente sottolineato da Iain Chalmers, dovrebbe essere considerato una vera e propria forma di frode scientifica e una violazione dell’etica della ricerca[6].
Il problema in realtà non è tanto la sponsorizzazione in sè, quanto piuttosto le condizioni spesso assurde cui sono soggetti i ricercatori. Purtroppo è diventato del tutto normale per i ricercatori e gli accademici che conducono studi finanziati da sponsor privati firmare contratti che li sottopongono a “clausole bavaglio” che vietano loro di pubblicare, discutere o analizzare i dati senza l’autorizzazione del finanziatore. Nel 2006, è stato pubblicato sul Journal of the American Medical Association (JAMA) un articolo che ha descritto come sia comune per i ricercatori che conducono studi finanziati dalle industrie, avere questo tipo di vincoli sulla pubblicazione dei risultati[7].
Lo studio è stato condotto dal Nordic Cochrane Centre e ha analizzato tutti i 44 trial approvati dal Comitato Etico di Copenaghen e Frederiksberg negli anni 1994-1995 e i cui risultati sono apparsi in una pubblicazione scientifica. Il 98% di questi studi era sponsorizzato dall’industria farmaceutica e le norme che regolavano la gestione dei dati erano le seguenti: per 16 dei 44 studi, la società promotrice aveva il diritto di visionare i dati mano a mano che venivano raccolti, e in altri 16 studi aveva il diritto di interrompere il trial in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo. Nei dati analizzati dal Nordic Cochrane Centre esistevano inoltre vincoli in materia di diritti di pubblicazione in 40 delle 44 ricerche, e in metà di esse i contratti specificavano che lo sponsor era proprietario assoluto dei dati o era comunque necessaria la sua approvazione prima della pubblicazione finale. È interessante notare che nessuno di questi vincoli è stato menzionato negli articoli pubblicati. Secondo Goldacre si tratta di una situazione veramente assurda e la cosa più vergognosa è che può risultare pericoloso persino parlarne. Infatti quando l’ articolo del Nordic Cochrane Centre è stato pubblicato su JAMA, la Lif, l’associazione delle industrie farmaceutiche danesi, ha risposto annunciando di essere “sconvolta e adirata per questa critica, che era assolutamente infondata” e ha accusato i ricercatori della Cochrane di cattiva condotta scientifica e di aver deliberatamente distorto i dati. Si è quindi aperta un’inchiesta che poi fortunatamente è terminata con il proscioglimento dei ricercatori della Cochrane.
La critica di Goldacre non si rivolge tuttavia solo alle industrie farmaceutiche; esse non devono essere ritenute le uniche colpevoli dei fenomeni sopra descritti che possono in realtà avvenire solo con il tacito consenso di tutta una serie di attori, a partire dal mondo accademico. Goldacre afferma infatti che, nel 2005, quasi due terzi delle 122 Scuole di Medicina degli Stati Uniti hanno acconsentito che gli accordi di sperimentazione clinica con le aziende farmaceutiche fossero “riservati”, e circa la metà ha permesso agli sponsor di redigere i report finali di questi studi. Questo continua ad avvenire nonostante il Comitato Internazionale degli Editori di Riviste Mediche abbia affermato, in un famoso editoriale pubblicato nel 2001, che i ricercatori devono avere un ruolo primario sia nel disegno sia nella conduzione degli studi e devono essere liberi di pubblicare i risultati delle ricerche da loro condotte senza essere condizionati da vincoli di proprietà da parte degli sponsor[8].
E le Autorità regolatorie del farmaco che dovrebbero vigilare sulla sicurezza ed efficacia dei medicinali che vengono immessi in commercio?
Anch’esse vengono criticate da Goldacre per la loro eccessiva segretezza, e per la loro incapacità di garantire la completa divulgazione dei dati sui medicinali. Come si afferma anche in un articolo pubblicato a luglio sul British Medical Journal (BMJ), l’EMA – l’ente regolatorio europeo del farmaco- “fa in realtà un disservizio ai cittadini Europei approvando il 74% di tutte le richieste di autorizzazione all’immissione in commercio basandosi su trial realizzati dalle stesse industrie e mantenendo riservati i dati su efficacia e sicurezza”[9].
Anche gli editori di riviste non sfuggono alla critica di Goldacre. Le prestigiose riviste scientifiche che rappresentano una fondamentale fonte di aggiornamento per gli operatori sanitari, pubblicano regolarmente articoli sui cui risultati le aziende farmaceutiche hanno esercitato un’influenza notevole. Secondo una revisione pubblicata su The Washington Post, solo in un anno il New England Journal of Medicine ha pubblicato 73 articoli dedicati a studi su nuovi farmaci; di questi, 60 erano stati finanziati da un’industria farmaceutica, 50 erano stati scritti da parte di dipendenti di industrie e 37 avevano come autore principale un ricercatore accademico, che aveva precedentemente ricevuto compensi – come consulente o conferenziere – da parte della stessa industria farmaceutica sponsor dello studio[10]. La pressione che gli editori subiscono per la pubblicazione di studi sponsorizzati da aziende farmaceutiche non sembra essere legata in realtà solo agli introiti pubblicitari che riceveranno, ma agli ordini di ristampa che verranno effettuati una volta che un determinato articolo viene pubblicato e che verranno utilizzati per promuovere il farmaco. È stato calcolato infatti che un singolo articolo può portare a un ordine di ristampa – da parte dell’industria sponsor – dell’ordine di 100.000 copie a un prezzo di circa 2-5 dollari per copia[11].
Secondo Goldacre il risultato finale di tutta questa catena di fenomeni è che, come medici e più in generale come società, noi riceviamo solo un quadro distorto dei veri effetti dei farmaci che utilizziamo: “I medici possono non avere alcuna idea dei veri effetti dei trattamenti che prescrivono. Questo farmaco realmente funziona meglio, o semplicemente mi è stata nascosta la metà dei dati? Nessuno può dirlo. Questo farmaco danneggerà i pazienti? C’è qualche prova che è pericoloso? Nessuno può dirlo. Questa è una situazione davvero bizzarra in medicina, una disciplina in cui si suppone che tutto sia basato su prove ed evidenze”[1].
I dati presentati da Goldacre non rappresentano in realtà nulla di nuovo sotto il sole; negli ultimi anni è stata infatti prodotta una consistente mole di dati che inducono a pensare a una forte contaminazione dei risultati da parte degli sponsor delle ricerche. Le parole di Goldacre offrono comunque lo spunto per riportare l’attenzione su un tema già affrontato in altri post su questo blog e per continuare a interrogarci su come vengono prodotte le cosiddette “evidenze scientifiche”. Possiamo continuare ad affidarci alla letteratura medica per un’informazione valida e affidabile? Ma soprattutto, stiamo realmente parlando di “evidenze” o piuttosto del riflesso di una scienza spesso piegata ad altri interessi? Come afferma Joseph Ross, professore alla Scuola di Medicina di Yale, “l’intero processo di produzione di evidenze è stato corrotto”[10].
Dopo un’analisi così sconfortante diventa difficile, ma al tempo stesso doveroso, discutere su che cosa possiamo fare? Una delle principali proposte attualmente in discussione è quella di obbligare le aziende farmaceutiche a pubblicare tutti i dati dei trial sui loro farmaci. In questa scia si colloca anche il recente appello del BMJ per rendere completamente pubblici i dati delle sperimentazioni cliniche affinché siano a disposizione della comunità scientifica per una valutazione indipendente[12].
Sarà interessante seguire gli sviluppi di questa encomiabile iniziativa, probabilmente però quello che è necessario è un vero e proprio cambiamento di paradigma che non si può limitare ad attendere che i dati clinici su un particolare farmaco diventino di dominio pubblico. È giunto il momento di ripensare all’intero sistema di produzione delle evidenze creando le premesse per una produzione di dati scientifici credibili e non viziati da altri interessi. Inoltre, come l’analisi presentata ha preso in esame tutti gli anelli della catena, così anche le proposte di soluzioni dovrebbero coinvolgere tutti gli attori in gioco e non solo Big/Bad Pharma.
Alice Fabbri, Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale, Università di Bologna
- Goldacre B. The drugs don’t work: a modern medical scandal. The Guardian, 21 Settembre 2012. L’articolo è stato pubblicato anche in Italiano su “Internazionale” n.975, 16/22 Novembre 2012.
- Bourgeois FT, Murthy S, Mandl KD. Outcome reporting among drug trials registered in ClinicalTrials,gov. Annals of Internal Medicine 2010; 153: 158-166.
- Bero L, Oostvogel F, Bacchetti P et al. Factors associated with findings of published trials of drug-drug comparisons: why some statins appear more efficacious than others. PLoS Med 2007; 4(6):e184.
- Lexchin J, Bero L, Djulbegovic B, Clark O. Pharmaceutical industry sponsorship and research outcome and quality: systematic review. BMJ 2003; 326: 1167-1170.
- L’EBM contro (e pro) i cattivi maestri. Roberto Raschetti (Istituto Superiore di Sanità) a proposito di “Attenti alle bufale”, di Tom Jefferson. Il Pensiero Scientifico Editore
- Chalmers I. Underreporting research is scientific misconduct. JAMA 1990; 263: 1405-1408.
- Gøtzsche PC, Hróbjartsson A, Johansen HK, Haahr MT, Altman DG, Chan AW. Constraints on publication rights in industry-initiated clinical trials. JAMA 2006; 295: 1645-1646.
- Davidoff F, DeAngelis CD, Drazen JM et al. Sponsorship, authorship, and accountability. Lancet 2001; 358: 854-856.
- Light D. Pharmaceutical research and development: what do we get for all that money?BMJ 2012; 345: e4348.
- Whoriskey P. As drug industry’s influence over research grows, so does the potential for bias. The Washington Post, 23.11.2012.
- Rawlins M. Saints or sinners. The Lancet 2012; 380: 1462-3.
- 12. Godlee F. Clinical trial data for all drugs in current use. BMJ 2012;345:e7304.
a) La Reboxetina è un antidepressivo che appartiene alla classe degli Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Noradrenalina.
È vero che il soggetto è piuttosto complessa. Comunque penso che il farmaco generico può sistemare le cose. perché hanno lo stesso effetto sul corpo umano.