In difesa del Servizio Sanitario Nazionale
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- 21 Febbraio 2013
Il welfare state non è nato solo per finalità, per quanto cruciali, di equità. È stato ed è anche strumento di stare bene per tutti. Per opporsi all’austerità non basta difendere il pubblico a partire delle inefficienze del privato. Occorre tenere conto anche delle inefficienze del pubblico e, in troppe occasioni, il SSN si rivela al di sotto delle proprie potenzialità.
Quasi 30 miliardi di tagli lineari al finanziamento del SSN nel periodo 2012-2015: questo è il risultato delle politiche di austerità per la sanità nel nostro paese. L’obiettivo è quello della stabilizzazione, nel tempo, della spesa sanitaria pubblica in termini addirittura nominali (dunque, della riduzione in termini reali). I tagli, vale la pena ricordare, giungono non dopo anni di facili piè di lista per il settore. Se si guardano gli ultimi dati Ocse (2012), si scopre una realtà assolutamente ignorata nel nostro paese: nel periodo 2000-2010, il trend di crescita della spesa sanitaria complessiva è stato il più basso fra tutti i 34 paesi Ocse.
Certo, gli sprechi esistono nel SSN e su questo torneremo più avanti. Altrettanto certo è che la stabilizzazione in termini nominali possa realizzarsi in alcuni anni (successe nel 1993 e ri-successe nel 2011). Se assurta a obiettivo strategico di un servizio sanitario pubblico, in particolare, in un contesto di crescita delle attese di vita e di sensibile progresso tecnologico[1], l’effetto non può che essere il peggioramento della sanità pubblica e progressiva estensione del finanziamento privato.
Il punto è riconosciuto dai fautori dell’austerità sanitaria. Semplicemente, si tratterebbe di un effetto inevitabile del nostro debito pubblico e dei più complessivi vincoli di bilancio. O, nei termini spesso usati nel dibattito pubblico, il vecchio welfare state sarebbe per noi una creatura del passato che non ci possiamo più permettere.
Le obiezioni all’estensione del finanziamento privato tendono a focalizzarsi sulle implicazioni equitative: la penalizzazione dei più poveri è evidente ogni volta che si espande il ricorso alle risorse private. Potremmo solo aggiungere che l’impoverimento prodotto dalla crisi insieme al costo dei servizi sanitari rischia oggi di rendere poveri, ai fini dell’accesso alla sanità, un numero di individui ben superiore al 13% segnalato tale dall’indicatore di povertà relativa nel nostro paese.
In questa sede, vorrei portare l’attenzione su alcuni problemi, più trascurati, di efficienza, l’efficienza avendo a che fare con valutazioni di benessere anche per i più avvantaggiati, a prescindere da implicazioni distributive. In sintesi, il finanziamento privato rischia di fare stare peggio anche chi avrebbe le risorse per accedere alla sanità privata. In questo senso, sarebbe l’opposto di quella che gli inglesi chiamano una win win solution, l’inefficienza accompagnandosi alla iniquità.
Due sono le ragioni principali.
La prima concerne il prezzo da pagare: nel privato, esso tende ad essere più elevato per molte prestazioni, seppure non di qualità superiore.
L’altra concerne il rischio di incompletezza assicurativa: il mercato assicurativo non è in grado di assicurare una protezione continua nel ciclo di vita. Come noto, l’assicurazione copre rischi non certezze: se ci si ammala, la patologia di cui si soffre cessa di essere assicurata al rinnovo della polizza (e come sa chiunque sia andato ad acquistare una polizza sul mercato, la durata della polizza diminuisce drasticamente al crescere dell’età). Individui con precedenti malattie non potrebbero, pertanto, assicurarsi anche quando hanno risorse necessarie all’eventuale acquisto della polizza, con la conseguenza di dovere rinunciare alla cura pur avendo le risorse per pagare l’assicurazione oppure di doversi pagare la cura di tasca propria, rinunciando così ai benefici dell’assicurazione in termini di ripartizione del rischio.
Ma, se è così, perché sottrarsi al finanziamento pubblico per pagare di più privatamente e non avere la copertura assicurativa per la quale si sarebbe disposti a pagare? È questo comportamento ad apparire irrazionale, esattamente al contrario di quanto affermano fautori del finanziamento privato quali Giavazzi ed Alesina[2], secondo cui “che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e, contemporaneamente, che le loro aliquote vengano ridotte. Con ciò che risparmiano, i «ricchi» potrebbero acquistare polizze assicurative, decidendo liberamente quanto assicurarsi”.
Naturalmente, il ricorso al finanziamento privato può assumere configurazioni diverse e una valutazione approfondita richiederebbe di distinguere fra di esse. Un conto, ad esempio, è un finanziamento privato che ha come attori principali i cittadini. Un altro è un finanziamento centrato su imprese coinvolte in forme, anch’esse variegate, di welfare aziendale e contrattuale, seppure la tendenza di questi ultimi anni sia ad una drastica diminuzione dell’assunzione di rischi da parte delle aziende e ad un’accentuazione, a seguito della maggiore flessibilità del lavoro, delle difficoltà nella portabilità dei benefici da parte dei lavoratori[3].
Anche se consideriamo in aggregato l’andamento della spesa sanitaria nei paesi Ocse, il dato è univoco. I paesi caratterizzati da un maggior finanziamento privato spendono di più. L’esempio paradigmatico è quello degli Usa arrivati, nel 2010, a spendere per la sanità il 17,6%, pur avendo quasi 50 milioni di cittadini non assicurati e oltre 80 milioni di assicurati solo a tratti nell’anno. Occorre, però, considerare anche il caso della Germania, spesso richiamata come esempio di paese virtuoso. Negli ultimi anni, la spesa sanitaria tedesca è cresciuta relativamente poco rispetto alla media Ocse: il tasso medio annuo di incremento reale nel periodo 2000-2010 si situa attorno al 2%, pochissimo sopra il valore del SSN (1,9%). Inoltre, il divario fra noi e loro in termini di Pil si è leggermente attenuato. Nel 2000, la Germania dedicava alla sanità il 10,4 del Pil e noi l’8%, mentre ora i valori sono rispettivamente l’11,6% e il 9,3%. Allo stesso moso conta il dato iniziale: la Germania nel 2000 dedicava alla sanità 2,4 punti in più del proprio Pil. Inoltre, l’incidenza della spesa sul Pil risente, inevitabilmente, della dinamica di quest’ultimo (decisamente sfavorevole per il nostro paese). Per neutralizzare tale dinamica, se si considera la spesa sanitaria media in dollari a parità di acquisto, allora la differenza fra Italia e Germania risulta ben più marcata. La Germania è passata da un valore di 2678 nel 2000 a 4338 nel 2010, mentre per l’Italia i valori sono rispettivamente 2064 e 2964[4].
Alla maggiore spesa sanitaria generata dal finanziamento privato andrebbe poi aggiunta la spesa pubblica per le agevolazioni fiscali, raramente, il finanziamento privato configurandosi come solo tale. Vi è quasi sempre un aiutino, nascosto, in termini di minore imposizione tributaria.
Per la questione dei rischi di incompletezza assicurativa, basta ricordare Medicare. Anche in un paese favorevole al finanziamento privato, quali sono gli USA, gli anziani, a prescindere dal loro reddito, sono assicurati dal pubblico e una ragione cruciale ha a che fare esattamente con il contrasto all’incompletezza dei mercati assicurativi.
Il che non nega che le assicurazioni private possano, in alcune situazioni, essere vantaggiose: ad esempio, per chi, relativamente sano, affronta un primo episodio di malattia o ha un buon contratto di lavoro. Per questa ragione, la libertà di acquistarle va garantita, anche per prestazioni sostitutive di quelle del SSN (nel liberale Canada, le assicurazioni sanitarie per prestazioni sostitutive sono state, invece, a lungo, vietate). Inoltre, i super-ricchi potrebbero comunque preferire una restrizione del perimetro pubblico, per pagare meno imposte, incuranti di dovere spendere un po’ di più e di dovere accedere ai risparmi in assenza di assicurazioni complete. Ma, per il grosso della cittadinanza, inclusi i ceti medi relativamente abbienti, la perdita di benessere derivante dalle politiche di austerità rischia di essere davvero consistente. Non dimentichiamo quanto ci ricorda con forza Barr[5], il welfare state non è nato solo per finalità, per quanto cruciali, di equità. È stato ed è anche strumento di stare bene per tutti.
Molti articoli a difesa del pubblico finirebbero con l’ultima affermazione. Penso sia sbagliato. Per opporsi all’austerità non basta difendere il pubblico a partire delle inefficienze del privato. Occorre tenere conto anche delle inefficienze del pubblico e, in troppe occasioni, il SSN si rivela al di sotto delle proprie potenzialità. Non potendo entrare nel dettaglio della questione, mi limito a rilevare una causa forse anch’essa sottovalutata, ossia, una carenza (anziché un eccesso) di pubblico, in questo caso, sul piano della dedizione collettiva alla produzione di un bene cruciale per i cittadini. Basti pensare, da un lato, ai molti medici sempre pronti a lasciare lo spazio pubblico per svolgere il secondo lavoro nelle strutture private in concorrenza con il SSN e, dall’altro, ai tanti medici dediti al lavoro pubblico, invece, esposti a contratti di lavoro precari e/o a norme che scimmiottano quelle tipiche delle organizzazioni a scopo di lucro.
Elena Granaglia, Professore ordinario di Scienza delle Finanze, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre.
- Per una sintesi sul ruolo delle attese di vita e del progresso tecnologico, cfr. rispettivamente Gabriele S. Non bisogna temere l’invecchiamento. Nelmerito.com, 12.12.2012 e Tediosi F. Sanità, invecchiamento e progresso tecnologico. Nelmerito.com, 24.12.2012
- Alesina R, Giavazzi F. C’era una volta lo stato sociale. Il Corriere della Sera, 13.09.2012.
- Cfr. Hacker J. The Great Risk Shift. Oxford: Oxford University Press, 2006.
- Per tutti questi dati, cfr. Oecd Health Data 2012 e per una rassegna delle principali cause dei maggiori costi del privato, cfr. Maciocco G. Appunti per un programma elettorale. Salute Internazionale, 17.12.2012.
- Barr N. The Welfare State as Piggy Bank. Oxford: Oxford University Press, 2001.
Da alcuni anni prestigiose riviste scientifiche (BMJ, JAMA, NEJM, PLOS) attribuiscono l’aumento della spesa sanitaria alla sempre più diffusa tendenza al ricorso a interventi diagnostico terapeutici inappropriati o inutili, spesso con effetti iatrogeni non trascurabili. Negli Sati Uniti si è stimato un eccesso di spesa per tali interventi dell’ordine del 30%. Pertanto, non è sensato procedere per tagli “lineari” o introduzione o espansione dei ticket, mettendo in discussione la stessa sanità pubblica, quanto piuttosto nel taglio degli sprechi. E’ evidente quali interessi siano in gioco, da quello delle multinazionali a quello diffuso dei professionisti. Questi ultimi stanno minando alla radice la loro professionalità per la violazione del loro mandato di agire secondo scienza e coscienza. Agire secondo scienza significa stare nel solco della medicina basata sulle prove scientifiche. Nel nostro paese non è irrealistico stimare l’eccesso di spesa per interventi inutili o inappropriati anche superiori al 30% e si possono fare alcuni esempi clamorosi, peculiari in Italia . Agire per uniformare i costi è senza dubbio urgente, anche perchè è facile immaginare quali fenomeni corruttivi sostengano le difformità. Ma non affrontare il problema degli sprechi legati all’inappropriatezza significa occuparsi delle pagliuzze e non delle travi.
Pertanto la costante valutazione della qualità, con il coinvolgimento diretto e attivo dei professionisti, è una chiave di volta della sostenibilità del servizio sanitario pubblico. Si può dimostrare che significative differenze degli indicatori di salute per stratificazione sociale sono un effetto perverso del non perseguimento della qualità e degli sprechi dovuti all’inappropriatezza. In effetti la sanità pubblica ha ragione di esistere se dimostra di essere capace di ridurre gli effetti sulla salute delle disuguaglianze sociali. Ed è necessario avere consapevolezza che la riduzione dei suddetti differenziali di salute migliora lo stato di salute anche tra i “better off”. A testimonianza che la salute è un bene comune per eccellenza e rende giustificata la progressione delle tasse, essendo la qualità e non la disponibilità di prestazioni il corrispettivo delle tasse. Il risparmio recuperato dalla riduzione dell’inappropriatezza dovrebbe essere investito nei servizi sanitari di base dedicati alla promozione della salute, secondo il riferimento della Carta di Ottawa, in primis i Consultori familiari secondo il modello teorico operativo descritto dal Progetto Obiettivo Materno Infantile, varato nel 2000. La promozione della salute della donna e dell’età evolutiva (ambiti di maggiore resa dell’investimento, essendo i settori forti della popolazione e più disponibili al cambiamento) è il cavallo di Troia per la promozione della salute nella società intera.
michele grandolfo
Assolutamente d’accordo con il collega Grandolfo.
In un editoriale pubblicato dal Sole 24 Ore Sanità ho scritto che “In condizioni di crisi economica due strategie permettono di sostenere le attività produttive: la prima consiste nell’investire meno risorse (tagli), la seconda nell’ottenere migliori risultati dalle risorse investite, previa identificazione ed eliminazione degli sprechi”.
L’articolo è sintetizzato sul mio blog (http://www.ninocartabellotta.it/2013/01/salviamo-il-ssn-tagliare-i-servizi-o-eliminare-gli-sprechi)
Sono d’accordo con i commenti pubblicati.
Vorrei aggiungere un argomento che può sembrare solamente collaterale ma che, per la mia sensibilità, considero importante.
Il servizio sanitario pubblico, con tutti i suoi limiti e le innumerevoli possibilità di miglioramento, costituisce un elemento unificante per il tessuto sociale del paese. Abbiamo già sofferto la regionalizzazione del sistema. E’ comunque abbastanza diffusa la percezione che la sanità italiana sia un buona sanità.
Richiamo solo per un momento che fra i motivi che hanno portato l’Inghilterra al suo SSN con il modello Beveridge proprio nell’imminenza di una guerra era quello di un aumento della coesione sociale.
Non vedo una grande differenza tra quelle circostanze e la gravissima crisi economica che colpisce oggi gli Italiani: una messa alla prova con drammi sociali e famigliari fino ai casi estremi di morti per gli effetti dei rovesci finanziari; la sensazione che lo stesso tessuto economico sia tarlato o marcio in molte sue componenti e che dovrà sottostare a radicali mutamenti per riprendersi.
Coloro che attentano al SSN pubblico non posseggono una sensibilità verso l’unità sociale del nostro Paese.
Giorgio Pellis
D’accordo con l’articolo e con i commenti.
Nel campo in cui lavoro -Cure primarie- la stima di Grandolfo su di un 30% di interventi, e quindi di spesa, inappropriati è credibile.
Uno degli aspetti più caratteristici del mio lavoro è la continua negoziazione con i pazienti sulle decisioni diagnostiche e terapeutiche da prendere; qualche volta si tratta di convincere un paziente a fare un esame che ritiene fastidioso (endoscopia, per esempio), ma il piu’ delle volte si tratta di discutere per convincerlo a NON fare un esame, a NON assumere un farmaco.
Coinvolgere i professionisti in un discorso di appropriatezza é sicuramente il primo passo. Mi vengono in mente almeno 3 campi sui quali, se ci fosse una condivisione tra medici e istituzioni, si potrebbero formulare delle proposte EBM per ridurre le prescrizioni di esami e di farmaci: basterebbe criticare e ridefinire le soglie diagnostiche e di target terapeutico di ipertensione arteriosa, diabete, ipercolesterolemia contenute nelle varie LG, ampiamente influenzate dall’industria.
Questo però non basta.
Credo che la vera svolta si avrebbe alleandosi con i cittadini e riuscendo a spiegare che la medicalizzazione spinta a cui sono invitati tutti i giorni dai media, non é sinonimo di star bene. Più farmaci e più esami non significano maggior salute.
Ci riusciremo mai ?
In molti articoli, come in questo, si accenna all’ inefficienza del SSN pubblico. E’ bene ricordare che, in questo paese, l’invadenza della politica ne è una delle cause principali. Dalla nomina dei direttori generali, ai primari fino ai livelli ultimi della dirigenza medica, la tessera del partito di appartenenza o la più semplice raccomandazione giocano un ruolo primario.
Vedremo con la nuova forte richiesta di cambiamento uscita dalle ultime elezioni.
Ma perché non insistere subito sul tema della legalità?
Il cittadino ha diritto di scelta del luogo di cura e del professionista da cui farsi curare su indicazione-ricetta del suo medico di medicina generale: legge 833/1978 art19; legge 502/1992 art.14 comma 6; legge 229/1999 art 8 bis comma 2, art15 quinques comma 3 (con le esplicitazioni pratiche del DPCM del 27 marzo 2000: art 2 comma 4; art 10 comma 2 e comma 3). Sono norme lungimiranti: le specialità sono acquisizioni degli inizi del secolo scorso. Negli ultimi 30 anni le cose sono cambiate; i medici hanno risolto la complessità della medicina moderna con le super-specializzazioni nell’ambito di una singola specialità. E’ interesse del cittadino ad avere una prestazione qualificata scegliendo, come dice la legge, con la modulistica regionale. E’ interesse del singolo dirigente medico essere valutato in base all’impegno professionale e alla dedizione al SSN.
Cosa si aspetta a richiede l’entrata in vigore della legge 120 del 3 agosto 2007 dove all’art 1 comma 4 lettera g impone che i tempi d’attesa per una prestazione, nel SSN, in regime di istituto siano simili ai tempi d’attesa per la stessa prestazione a pagamento? (come di fatto avrebbe portato l’applicazione del sopra citato DPCM del 2000).
Non pensa che la semplice applicazione della legge potrebbe essere uno dei fattori di rilancio alle potenzialità, come dice Lei, del nostro SSN