Qualità, questa sconosciuta
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- 7 Febbraio 2013
La dimensione della qualità delle cure, pur da tempo enfatizzata nei paesi ricchi, si è imposta tardivamente all’attenzione della comunità internazionale e delle stesse Ong impegnate in programmi di salute in paesi a scarse risorse.
Per decadi l’accento è stato posto sull’accesso alle cure. E, tuttavia, servizi che non forniscono cure adeguate sono non solo inutili, ma possono essere controproducenti: per i possibili danni iatrogeni, per gli inevitabili costi sostenuti sia dalla popolazione che dal sistema, e, infine, per il pregiudizio che deriva alla domanda di cure da una diffusa percezione di cattiva qualità. Migliorare la qualità non richiede necessariamente interventi sul sistema di salute, o processi molto complessi e costosi, è un obiettivo che può essere ottenuto puntando sulla valutazione tra pari.
Quanto “pesa” la dimensione della qualità? [1-3]
Siamo stati abituati, da molti decenni, in salute pubblica e in salute internazionale, a ragionare in termini di gap di copertura: per le vaccinazioni, per le cure antenatali e al parto, per gli screening oncologici, così come per le reti medicate, per la terapia della tubercolosi, ecc. Più recentemente, abbiamo appreso a ragionare anche in termini di gap di equità: chi sono gli esclusi? Perché tendono ad essere sempre gli stessi? E da qui abbiamo appreso molto sui determinanti di salute e sulle politiche per la salute. I primi approcci sistematici alla valutazione della qualità delle cure in paesi a scarse risorse sono molto recenti: per quanto riguarda, ad esempio, l’area materno-infantile, risalgono a poco più di un decennio in ambito di cure pediatriche, ad anni ancora più recenti nell’ambito delle cure materne e neonatali.
Le evidenze riguardano paesi poveri e paesi ricchi, malattie acute e condizioni croniche, cure primarie e cure specialistiche. Gli studi effettuati in paesi a scarse risorse hanno dimostrato che una proporzione variabile tra il 30 e l’80% di quanti hanno accesso a servizi sanitari ricevono diagnosi sbagliate, cure inefficaci, interventi dannosi, consigli errati o non comunicati efficacemente, informazioni insufficienti o cure irrispettose della privacy e della dignità. La definizione di cure di qualità comprende la sicurezza, l’efficacia, ma anche una risposta adeguata ai bisogni del paziente. A questi criteri classici andrebbe aggiunta la continuità delle cure e dei percorsi tra i servizi, quindi, il sistema di referral, e l’equità, quindi, la non discriminazione nelle cure prestate a gruppi sociali e individui su base di disponibilità economica, genere, etnica, religiosa politica ecc.
A che serve un centro di salute, o un ospedale, dove, a una proporzione considerevole dei pazienti che ci arrivano non vengono date cure adeguate? Ci si dovrebbe chiedere se, in alcuni casi, sarebbe preferibile addirittura non avere quel servizio: costi minori per tutti e guai evitati potrebbero essere maggiori degli eventuali benefici. Sembra un interrogativo paradossale, in effetti non se lo pone nessuno, ma chi ha qualche esperienza di servizi sanitari nei paesi a scarse risorse sa che non è fuori luogo.
Una prima conclusione, quindi, è che bisogna seriamente porsi il problema di agire sulla dimensione della qualità.
Migliorare la qualità? È realistico? E cosa richiede, in contesti poveri di risorse e con sistemi sanitari deboli? [3-5]
Non ci sono dubbi: la qualità è innanzitutto il prodotto delle diverse componenti del sistema sanitario, cosi come definite dall’OMS (governo; infrastrutture, apparecchiature e medicali; ricorse umane, finanziamento, sistema informativo, organizzazione delle cure). È anche influenzata dal sistema di salute in senso lato, quindi dalla domanda di salute e dalla health literacy degli utenti.
In molti casi, un’analisi della situazione secondo questo schema concettuale porta a individuare le componenti sistemiche che mancano. E mancano sempre. Tuttavia: tutti gli studi hanno dimostrato che una buona parte del gap, degli errori, delle mancanze, deriva da fattori indipendenti dai building blocks di cui sopra. Dipendono, anche, da fattori relativi all’organizzazione di quel servizio, alle conoscenze e alla motivazione di quell’operatore, alle sue condizioni di lavoro, ai rapporti tra il personale, alla competenza e alla voglia di far bene di quel manager, ecc. Quindi, la facile conclusione che per migliorare la qualità occorre migliorare il sistema, le leggi, il procurement di farmaci, la formazione ecc., e quindi occorrono maggiori risorse, è, almeno in parte, errata.
Si può migliorare la qualità, almeno per molti aspetti e in quasi tutti i contesti, agendo su fattori modificabili all’interno di un servizio, da parte dei responsabili e degli operatori di quel servizio, possibilmente in collaborazione con gli utenti. Questo è chiaramente dimostrato, a priori, dal fatto che servizi analoghi, nello stesso sistema, con la stessa infrastruttura, dotazione di apparecchiature e di staff, e con case mixi simili, ottengono risultati anche molto diversi. A posteriori, dal fatto che esistono ormai, anche se ancora insufficienti, studi che dimostrano che cambiare in meglio le cure è possibile, anche partendo dai servizi stessi.
Si è provato a migliorare la qualità, con strategie e interventi anche molto diversi. Parafrasando Donabedian, servono però quattro cose: standard, misurazioni, strategie e forze motrici.
Gli standard è facile averli ricorrendo a linee guida e raccomandazioni delle varie agenzie internazionali, con i necessari adattamenti. Sulla base di questi standard, si possono fare delle misurazioni e delle valutazioni. È necessario distinguere tra valutazioni basate su check list ed effettuate da burocrati esterni, e valutazioni, sempre basate su standard, che però riguardano anche e soprattutto il case management, che vengano effettuate da operatori esterni, ma esperti e autorevoli, in un approccio peer to peer. In questo modo non ci si limita a evidenziare ciò che non va bene, ma si entra nel merito, identificando i rimedi possibili, spiegando, dimostrando, consigliando. Questa è la strategia seguita ad esempio fin dal 2001 per i servizi ospedalieri pediatrici e più recentemente ostetrici e neonatali, in molti casi già con dimostrazioni di chiusura del ciclo valutazione-identificazione del problema e delle sue cause-soluzioni possibili-adozione di provvedimenti tesi a migliorare questo o quel processo, questa o quella competenza, a dare motivazione, ecc. Le forze motrici possono essere autorità di governo, società professionali, Ong: in Italia il CUAMM ha già adottato questo approccio per l’iniziativa Prima le mamme e i bambini.
Se queste valutazioni vengono poi svolte su scala nazionale, in accordo con i ministeri, e giungono a formulare dopo l’esame di un campione di health facilities, alcune raccomandazioni di sistema, allora è possibile anche con qualche fatica, smuovere legislazioni, politiche, regolamenti, finanziamenti, sistemi formativi e informativi ecc. Le due dimensioni, quella facility based e quella system based, non sono alternative ma possono essere complementari.
Una seconda conclusione, dunque, è che migliorare la qualità delle cure è possibile con risorse relativamente limitate.
Giorgio Tamburlini, Centro per la salute del bambino onlus
- Leatherman S, Ferris T, Berwick G, Omaswa F and Crisp N. The role of quality improvement in strengthening health systems in developing countries. International Journal for Quality in Health Care 2010; 22 (4): 237–43
- Van den Broek N, Graham W. Quality of care for maternal and newborn health: the neglected agenda. Brit J Obst Gyn, 2009, 116(1): 18–21.
- Nolan T, Angos P, Cunha JLA, Muhe L, Qazi S, Tamburlini G et al. Quality of Hospital Care for Seriously Ill Children in Developing Countries. Lancet 2001; 357: 106–110.
- Campbell H, Duke T, Weber M, English M, Carai S, Tamburlini G. Globalinitiatives for improving hospital care for children: state of the art and future prospects. Pediatrics, 2008, 121(4): e984–92.
- Tamburlini G, Siupsinskas G, Bacci A; Maternal and Neonatal Care Quality Assessment Working Group. Quality of maternal and neonatal care in Albania, Turkmenistan and Kazakhstan: a systematic, standard-based, participatory assessment. PLoS One. 2011;6(12):e28763.
Importantissima la qualità dei servizi, e nei paesi impoveriti fondamentale la conoscenza antropologica dei “beneficiari”, per rispondere in modo “competente” alle richieste di salute che provengono dal territorio
Venendo da una recente esperienza di percorsi di accreditamento all’eccellenza nei servizi territoriali della mia azienda (non cito per evitare pubblicità la Società di Accreditamento Internazionale interpellata), porgo alcune considerazioni.
Il percorso ha impegnato intensamente diversi team muliprofessionali, per ogni area di attività (qualcosa di sovrapponibile ai circoli di qualità di Donabedian)è ha generato una considerevole (e in buona misura inaspettata) mole di idee, confronti produttivi fra pari, valorizzazione dell’esistente sommerso (sia in negativo, ma soprattutto in positivo) e, soprattutto, voglia di evolvere e migliorare. Ci siamo però anche chiesti alla fine, se non saremmo stati capaci di realizzare questo percorso anche senza il ricorso ad un soggetto esterno. Se cioè, non sarebbe stata sufficiente una molla culturale-priofessionale per lanciare l’impresa. La risposta però è presto data: il mandato forte dell’azienda, che ha investito nell’operazione e, conseguentemente, ha dato “valore” a questo impegno. Senza un esplicito mandato aziendale (o regionale o nazionale) iniziative di questo tipo rischiano di non vedersi attribuito il giusto valore, sia per i professionisti e gli attori del sistema che, soprattutto, per i partners esterni istituzionali e non, finendo, come spesso è successo in questi anni, per essere vista come una sorta di divertissement di pochi illuminati (o privilegiati).
La qualità deve essere patrimonio culturale di tutte le professioni e anche della comunità servita. Per questo richiede, secono me, una esplicita volontà politico-sanitaria che riconosca come obiettivo, anche in chiave di sostenibilità, il miglioramento dei servizi piuttosto che la sola economia degli stessi. Trovo che il dato riferito nell’articolo, della frazione compresa fra 30 e l’80% di errore (diagnosi sbagliate, interventi inefficaci, ecc.) sia grandemente esplicativa e motivante in questo senso.
il pezzo era centrato sul problema nel contesto dei paesi di scarse risorse. Il 30-80% si riferisce a studi effettuati in questi contesti. I percorsi di accreditamento “western” che conosco anche abbastanza bene, credo non siano affatto cost effective in questi pesi. Sono d’accordo che il committment delle direzioni sia importante, ma questo non basta se non si coinvolgono gli operatori. In questo vedo frequentemente uno iato.