Riflessioni intorno all’Emergenza Nord Africa

tunisiaAnna Brambilla

Sono decine di migliaia i profughi scappati dalla guerra in Libia e dalla rivoluzione in Tunisia. Approdati in Italia hanno ricevuto accoglienza e trattamenti molto differenti. Ogni regione, ma spesso anche ogni provincia, ha creato una propria modalità d’intervento. Con tanti sprechi e inevitabili tensioni.   


Alla fine di febbraio 2013, a distanza di ben due anni dal suo inizio, ha avuto formalmente termine l’Emergenza Nord Africa.

Risale infatti al febbraio 2011 la decisione del Governo italiano di dichiarare lo stato di emergenza nel territorio nazionale “in relazione all’eccezionale flusso di cittadini provenienti dai Paesi del Nord Africa”.

Cos’è accaduto durante questo percorso, durato ben due anni, che ha interessato quasi 20.000 persone?

Una risposta dettagliata a questa domanda non è purtroppo possibile in questa sede anche perché gli aspetti da mettere in luce sarebbero tantissimi, a partire dalla scelta, quanto meno anomala, di ricorrere alla dichiarazione dello stato di emergenza.

Dovendo limitare l’ambito di indagine, ciò su cui vorrei soffermarmi sono le caratteristiche dei percorsi di accoglienza propri dell’Emergenza Nord Africa anche in ragione delle loro potenziali conseguenze sul futuro sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

Come ben osservato da Massimiliano Vrenna e Francesca Biondi Dal Monte[1], infatti, “ricondurre la materia immigrazione sotto l’ombrello dello stato di emergenza e sotto la gestione della protezione civile solleva notevoli perplessità (…) anche in relazione alla gestione delle risorse finanziarie. La gestione emergenziale dell’immigrazione sottrae infatti importanti risorse economiche al controllo contabile, o, per meglio dire, rende più difficile la ricostruzione e la trasparenza delle spese. La cosa più grave è che sottrae tali spese ad una normale programmazione statale di risorse ed interventi”.

Per cercare di comprendere le conseguenze delle scelte attuate, occorre fare un passo indietro e riassumere seppure brevemente quanto accaduto.

Nel periodo immediatamente successivo alla dichiarazione di emergenza,  inizialmente previsto fino al 31.12.2011 e poi più volte prorogato (prima fino alla fine del 2012 poi fino al 28 febbraio 2013), gli interventi organizzati per “fronteggiare l’eccezionale afflusso di cittadini provenienti dal Nord Africa” non sono stati diversi da quelli messi in atto in passato in occasione dell’arrivo di numeri rilevanti di migranti in periodi di tempo ristretti.

I migranti giunti sulle coste italiane, in prevalenza cittadini tunisini, sono stati infatti “accolti” nei Centri di Prima Accoglienza e Soccorso già esistenti o in centri aperti ex novo di dubbia natura giuridica.

Solo all’inizio di aprile del 2011, il Governo, di fronte al continuo arrivo di persone, ha iniziato a dare risposte più strutturate anche se non prive di contraddizioni specie dal punto di vista del tipo di protezione concessa.

E, infatti,  se ai cittadini appartenenti ai Paesi del Nord Africa affluiti nel territorio nazionale dal 1 gennaio 2011 alla mezzanotte del 5 aprile 2011 è stato concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari della durata di 6 mesi[2], per i migranti giunti dopo tale data la scelta del Governo è stata del tutto differente.

Da un lato si è disposto il trattenimento e il respingimento di migliaia di cittadini tunisini ed egiziani[3]; dall’altro alle migliaia di persone in fuga dal conflitto interno alla Libia ed arrivate in Italia non è stata riconosciuta nessuna immediata protezione temporanea o umanitaria, ma sono state fatte presentare, quasi in automatico, le istanze di protezione internazionale.

Sul piano dell’accoglienza, la cabina di regia della Conferenza Unificata tra Governo, Regioni, Province autonome e enti locali istituita per l’Emergenza Nord Africa “ha richiesto l’intervento del Sistema nazionale di protezione civile per pianificare e gestire l’accoglienza sia dei profughi sia dei migranti arrivati dal 1° gennaio al 5 aprile dai Paesi del Nord Africa”[4].

A seguito dell’assunzione di tale mandato il Dipartimento della Protezione Civile ha attivato un tavolo di lavoro sulla base del quale  ogni Regione ha accolto un certo numero di profughi[5] che sono stati poi collocati, con il coinvolgimento delle Prefetture, in località e strutture diverse.

La scelta dunque non è andata nel senso di rafforzare lo SPRAR, il Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e i Rifugiati già esistente, ma di predisporre un sistema parallelo organizzato e coordinato dalla Protezione Civile basato non sul meccanismo dell’accoglienza volontaria ma su quello dell’accoglienza diffusa variabile in ragione della popolazione regionale[6].

Tale meccanismo ha determinato la presenza di profughi in territori e in strutture profondamente disomogenee: i profughi sono stati accolti nelle grandi città così come nei paesi più piccoli, spesso peraltro senza rispettare la proporzione tra abitanti residenti e numero di profughi accolti (si pensi ad esempio a Pieve Emanuele in provincia di Milano che ha accolto inizialmente circa 450 profughi e che conta una popolazione residente di circa 15.000 persone), ma anche in località montane (Monte Campione 1.800 m) caratterizzate da un forte isolamento o comunque in località di difficile raggiungimento prive di un vero e proprio tessuto sociale.

Nonostante gli altissimi costi di tale sistema (46 euro al giorno pro capite contro il 27-30 euro al giorno pro capite per chi è accolto nello SPRAR), i servizi offerti sono stati in molti casi assolutamente insufficienti, anche a causa dell’assoluta impreparazione di molti operatori o “addetti all’accoglienza” (si pensi agli albergatori).

Almeno per un lungo periodo inoltre, queste strutture hanno accolto persone destinate, nell’80% dei casi, ad avere un diniego della protezione internazionale.

Soprattutto nella fase iniziale, infatti, le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, in modo quasi generalizzato, hanno rigettato le domande di protezione internazionale presentate dai profughi, in ragione della ritenuta assenza dei presupposti richiesti dalla normativa vigente.

La conseguenza è stata che, in molti casi per un lungo periodo di tempo, si sono spese risorse per l’accoglienza delle persone, ma senza attuare interventi finalizzati alla loro integrazione, in ragione della convinzione che prima o poi sarebbero divenuti irregolari.

Tale situazione è in parte mutata a ottobre del 2012, quando il Governo, ha invitato le Commissioni territoriali per la protezione internazionale a riesaminare le decisioni negative assunte in precedenza e a riconoscere agli interessati la protezione umanitaria.

Improvvisamente, a distanza di 20 mesi dall’inizio dell’Emergenza e a due mesi dal termine della stessa, le varie strutture si sono trovate ad accogliere persone titolari di un permesso di soggiorno, e quindi “potenzialmente integrabili”, senza però avere, questa volta, molto tempo e molte altre risorse a disposizione.

Il risultato finale di questo percorso è che, come già evidenziato, le persone accolte nell’Emergenza Nord Africa hanno vissuto esperienze molto diverse e per ciò stesso in qualche modo discriminanti.

E, infatti, se chi è stato accolto in strutture facenti parte dello SPRAR ha probabilmente avuto accesso alla formazione linguistica, alla mediazione, all’orientamento legale; altri, ospitati negli alberghi, hanno vissuto esperienze di abbandono vero e proprio; mentre altri ancora sono stati destinatari di forme di assistenzialismo fortemente dispendiose ma assolutamente inutili a rafforzare l’autonomia dei singoli.

La disparità di trattamento, unita al passa parola tipico di tutte le comunità, ha determinato l’insorgere di tensioni e allontanato la possibilità di soluzioni valide per tutti.

In questo senso, anche la scelta, giunta all’ultimo minuto, di accordare ai profughi in uscita dai progetti di accoglienza, una somma media di 500 euro suscita non poche perplessità in quanto reitera l’immagine di uno Stato in grado di regalare soldi senza concedere però a tutti le stesse reali chance di partenza per condurre una vita degna nel nostro Paese.

Anna Brambilla. Referente Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) Toscana. GRIS Toscana

Bibliografia

  1. L’emergenza “strutturale”. Alcune riflessioni a margine degli sbarchi dei migranti provenienti dal Nord Africa. A cura di Massimiliano Vrenna e Francesca Biondi Dal Monte Laboratorio WISS [Welfare Innovazione Servizi e Sviluppo] Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa
  2. Decreto del  Presidente del Consiglio dei Ministri 5 aprile 2011.
  3. Per un approfondimento si veda ad esempio il documento del Consiglio Direttivo dell’ASGI del 24 novembre 2011 “Rilasciare il permesso di soggiorno per motivi umanitari agli stranieri fuggiti dai paesi arabi in rivolta” e l’esposto presentato alla Procura della Repubblica di Palermo per denunciare il trattenimento a bordo di navi galleggianti e in alcuni Centri siciliani di cittadini tunisini ed egiziani.
  4. La distinzione tra profughi e migranti non è di poco conto e meriterebbe un’attenta analisi. Infatti a tutte le persone arrivate sulle coste italiane dopo il 5 aprile è stata fatta presentare in modo automatico la domanda di protezione internazionale. Per riferirsi a queste persone si è utilizzato il termine profughi. Un’attenta analisi meriterebbe altresì la gestione “dell’accoglienza”, prima dell’aprile 2011.
  5. Il dettaglio delle presenze dei profughi nelle varie Regioni è disponibile sul sito del dipartimento di protezione civile
  6. Anche in questo caso le possibilità di analisi e approfondimento potrebbero essere molteplici: le ragioni della scelta di non rafforzare lo SPRAR, il conseguente crearsi di più “canali” di accesso alla procedura di asilo e all’accoglienza, il notevole costo pro capite previsto nel sistema emergenza profughi etc. Un buon lavoro di analisi del sistema di accoglienza messo in atto nell’ambito dell’Emergenza Nord Africa è stato condotto dalla Rete Asilo Lombardia.

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