Multimorbidity. La grande sfida per le patologie croniche
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- 2 Maggio 2013
L’associazione fra deprivazione socioeconomica e prevalenza di malattie croniche è ben documentata da numerose evidenze. I dati di questo studio evidenziano come soggetti relativamente giovani residenti nelle aree maggiormente deprivate subiscano un carico di multimorbosità sovrapponibile a quello di persone di 10-15 anni più anziane viventi in aree più abbienti.
L’aumento dell’aspettativa di vita ha determinato la crescita esponenziale di una nuova categoria di malati, soprattutto pazienti anziani, caratterizzati da elevata vulnerabilità per la compresenza di due o più malattie croniche. Questo fenomeno, che, con un’espressione poco elegante è tradotto dall’inglese (multimorbidity) con il nome di multimorbosità, rappresenta un’entità ancora largamente sconosciuta sia sul versante epidemiologico sia su quello dell’impatto sui sistemi sanitari, nonostante la sua ripetuta osservazione nella pratica medica corrente lo stia rapidamente convertendo da eccezione a regola (negli USA, ad esempio, la malattia coronarica rappresenta l’unica patologia solamente nel 17% dei pazienti)[1]. È noto che la presenza di più malattie croniche nello stesso individuo aumenta il rischio di peggioramento dello stato di salute e di andare incontro a disabilità, trattamenti inappropriati ed eventi avversi. Tuttavia, sono ancora largamente insufficienti le evidenze riguardanti gli effetti delle cure multiple con il loro relativo profilo rischio/beneficio, e mancano dati sull’effettiva entità del “carico terapeutico”, sia diagnostico che farmacologico, derivante dal rispetto dei singoli protocolli.
In riferimento alla definizione, il concetto di multimorbosità, fatto spesso coincidere con quello di comorbosità, di fatto si presta a numerose interpretazioni, più o meno arbitrarie, concernenti gli aspetti quantitativi e soprattutto qualitativi insiti nel termine stesso. A tale proposito può essere utile riportare la distinzione fra i due concetti contenuta nella Relazione sullo stato sanitario del Paese 2009-2010che differenzia la comorbosità, nella quale, pur in presenza di più malattie, è rilevabile una patologia “indice” capace di per sé di condizionare la prognosi, dalla multimorbosità, caratterizzata dalla semplice concomitanza di due o più malattie nello stesso individuo[2].
Un recente articolo di Barnett e coll., pubblicato su Lancet, affronta in modo diretto il problema ancora insoluto della stima dell’effettivo carico della multimorbosità sul sistema sanitario, e lo fa attraverso un’analisi dei dati nazionali raccolti dall’Unità di Informatica clinica dell’Università di Aberdeen nel Regno Unito[3]. Si tratta dell’archivio completo delle cartelle cliniche dei cittadini afferenti a 314 Unità di assistenza primaria (Primary Care Trusts) che servono circa un terzo della popolazione dell’intera Scozia (1.750.000 persone). L’analisi di prevalenza ha considerato le 40 malattie croniche più frequenti ed è stata stratificata per le consuete variabili demografiche, sesso ed età, e per livello socioeconomico, utilizzando l’indice di Carstairs per misurare la deprivazione nell’area di residenza dell’assistito[4].
I risultati confermano quello che empiricamente è già patrimonio comune delle organizzazioni sanitarie della maggior parte dei paesi occidentali, e cioè che la multimorbosità è un fenomeno assai frequente: il 42,2% della popolazione è affetta da almeno una patologia cronica, il 23,2% presenta comorbosità, e l’8,3% la compresenza di una malattia fisica con una mentale. Le più colpite sono le donne e, come facilmente intuibile, si osserva un aumento progressivo della multimorbosità con l’età (intorno ai 65 anni la maggior parte delle persone presenta almeno due patologie croniche), mentre ciò che emerge inaspettatamente dall’analisi è che il numero maggiore, in termini assoluti, di persone affette da due o più patologie ha meno di 65 anni e che due terzi di queste ultime presenta comorbosità fisica e mentale.
L’associazione fra deprivazione socioeconomica e prevalenza di malattie croniche è ben documentata da numerose evidenze[5,6]; i dati di questo studio evidenziano come soggetti relativamente giovani residenti nelle aree maggiormente deprivate subiscano un carico di multimorbosità sovrapponibile a quello di persone di 10-15 anni più anziane viventi in aree più abbienti. Il gradiente socioeconomico diventa poi particolarmente accentuato nei casi di comorbosità fisica e mentale, soprattutto se si tratta di depressione, a ulteriore conferma della spiccata vulnerabilità sanitaria dei gruppi di popolazione economicamente più svantaggiati.
A quali rischi sono esposti i pazienti con pluripatologie nel contesto dell’attuale sistema di cure?
Come sottolinea Holman in un suo articolo su JAMA[7] “nonostante i grandi mutamenti avvenuti nella società, le modalità di insegnamento nelle scuole mediche non si è sostanzialmente modificato dal 1910. Risultato di ciò è che sia il sistema sanitario che la formazione medica rimangono ancorate agli schemi propri delle malattie acute”. La medicina è, infatti, ancora concentrata sulla cura delle malattie in acuzie e singole, in un mondo nel quale, invece, prevalgono le malattie croniche e la multimorbosità. In tal senso le stesse linee guida, osannato strumento della buona pratica medica moderna, essendo centrate sulle singole malattie, presentano alcune limitazioni che le espongono alla necessità di un ripensamento, almeno parziale, della loro impostazione di fondo:
- esse sono basate su RCT altamente selezionati raramente dedicati al paziente con comorbosità, soprattutto anziano
- esse non includono studi condotti su pazienti complessi e “fragili”
- le raccomandazioni sono per lo più limitate al paziente “ideale” e non contemplano l’eterogeneità del paziente geriatrico in termini di comorbosità, polifarmacoterapia, stato funzionale e cognitivo, situazione socio-familiare.
Detto questo, uno dei rischi maggiori a cui il paziente pluripatologico si trova esposto è senza dubbio la frammentazione del processo di cura[8]; essa consiste nella perdita della visione unitaria del problema di salute e si traduce in un aggravio burocratico per il paziente e nella frequente ripetizione di tratti del percorso di cura comuni a più malattie. Ciò deriva dal fatto che ogni specialista concentra la propria responsabilità sul trattamento della singola malattia per la quale è stato consultato; senza tener conto che molte malattie richiedono approcci integrati in grado di agire sinergicamente sui meccanismi etiopatogenetici (si veda ad es. l’ipertensione, il diabete e la cardiopatia ischemica). Questo rappresenta tra l’altro l’unico modo per evitare duplicazioni e sprechi nell’accesso ai servizi sanitari, oltre che disagi e disorientamento negli stessi pazienti.
Un altro rischio, non sempre scrupolosamente valutato dagli stessi professionisti sanitari, è la limitata conoscenza dei possibili eventi avversi derivanti dalle interazioni fra numerosi e simultanei trattamenti, soprattutto in considerazione delle frequenti limitazioni funzionali, della qualità di vita spesso scadente e degli esiti sfavorevoli che spesso connotano l’esperienza di vita dei soggetti polipatologici.
Inoltre, la contemporanea applicazione di schemi terapeutici mirati a ciascuna malattia non favorisce l’individuazione di quelle che sono le priorità in relazione ai bisogni specifici di ciascun paziente, i quali non sono sempre direttamente proporzionali al numero di patologie di cui egli soffre.
Infine, sul versante della sostenibilità economica è quasi superfluo sottolineare l’impatto negativo derivante dall’approccio concentrato alla singola malattia In un’epoca di risorse limitate è tuttavia ancora molto arduo non cadere nella tentazione del “più è meglio”.
Quali sono gli ingredienti di una possibile ricetta curativa in grado di mitigare l’orientamento iperspecialistico nella gestione del problema della multimorbosità?
Anche per questo tema, come per molti altri, la risposta ai bisogni della persona sta nelle enormi potenzialità di successo insite nei modelli assistenziali fondati sulla primary care[9]. In particolare quello che più serve ai pazienti affetti da patologie concomitanti è una figura unica di riferimento, in grado di assumersi la responsabilità della maggior parte delle decisioni cliniche e di fare in modo che esse siano il più possibile aderenti alle esigenze e ai valori del singolo paziente. Se è vero che questo riferimento può, nel caso di comorbosità fortemente correlate, essere lo specialista, è altrettanto certo che nell’eventualità più frequente tale figura debba coincidere con il medico di medicina generale, oppure con il geriatra nel caso che la cura sia rivolta a pazienti anziani particolarmente fragili e con disabilità. Stando poi ai dati dello studio di Barnett e coll., che evidenziano come la multimorbosità si accentui fortemente nelle aree più deprivate, il rafforzamento delle cure primarie, con un’attenzione particolare all’integrazione tra figure e ambiti professionali, insieme all’utilizzo sistematico degli strumenti valutazione multidimensionale, diventa un’assoluta priorità
Un’altra sfida che occorre cominciare ad affrontare è la parziale rimodulazione dei protocolli degli studi primari (in particolare per quel che riguarda i criteri di eleggibilità dei pazienti) insieme allo sviluppo di linee di ricerca orientate alla produzione di evidenze concernenti la pluripatologia e i pazienti complessi[10]. Una proposta di rivisitazione del metodo esistente potrebbe consistere nel far sì che i trial clinici comincino a rilevare le stime di efficacia sistematicamente in soggetti con e senza multimorbosità. Ciò assume particolare rilievo se si fa una riflessione più approfondita sul tema in questione. Infatti l’approccio unitario tarato sui bisogni dell’individuo, che più di ogni altro coniuga l’appropriatezza clinica con quella organizzativa, potenzialmente confligge con la tendenza, oggi frequente, a puntare, invece, a ridurre la variabilità nella pratica clinica; è abitudine diffusa, infatti, misurare lo scostamento dagli standard indicati dalle linee guida allo scopo di sensibilizzare i professionisti verso una maggiore omogeneità di comportamento. Tale contraddizione può essere mitigata, anche se non eliminata, solo attraverso l’applicazione sistematica di evidenze provenienti da studi condotti su pazienti complessi e polipatologici al contesto specifico del singolo, in termini di condizioni generali, rischi specifici e obiettivi terapeutici.
Il riorientamento della formazione in medicina è un’altra componente importante del processo di cambiamento. I programmi didattici degli studenti sono ancora incentrati sulle singole malattie e il training in medicina generale è tuttora sottovalutato rispetto alla formazione specialistica[11].Più che di pacchetti formativi precostituiti c’è bisogno di rafforzare lo sviluppo di conoscenze e competenze nel management e nel coordinamento della cosiddetta “long term care” e di stimolare l’interesse della comunità accademica ad orientarsi verso percorsi di formazione continua ad impronta interdisciplinare e interprofessionale.
Infine, il passo ulteriore indispensabile alla traduzione operativa di qualsiasi modello vincente sulla carta è la rimodulazione dei sistemi di erogazione dei servizi e il conseguente adeguamento dei modelli organizzativi e dei sistemi di remunerazione dei processi di cura
È urgente accelerare l’evoluzione dei sistemi sanitari per poter far fronte alle sfide emergenti, rappresentate dalla multimorbosità e dall’accentuarsi delle disuguaglianze in un mondo soffocato dalla limitatezza delle risorse.
Per approfondimenti leggi anche: Carla Perria. Comorbosità fisica e mentale: un bisogno complesso e sottovalutato. Salute Internazionale, 23.05.2013
Carla Perria, Medico, Laziosanità-Agenzia di Sanità Pubblica, Roma
- Weiss CO, Boyd CM, Yu Q, Wolff JL. Patterns of prevalent major chronic disease among older adults in the United States. JAMA 2007; 298 (10): 1160-62.
- Ministero della Salute, Direzione Generale del Sistema Informativo e Statistico Sanitario. Relazione sullo Stato Sanitario del Paese 2009-2010 [PDF: 7,9 Mb]
- Barnett K, Mercer SW, Norbury M et al. Epidemiology of multimorbidity and implications for health care, research, and medical education: a cross-sectional study. Lancet 2012; 380: 37-43.
- Carstairs V, Morris R. Deprivation and health in Scotland. Aberdeen: Aberdeen University Press, 1991.
- Eachus J, Williams M, Chan P et al. Deprivation and cause specific morbidity: evidence from the Somerset and Avon survey of health. BMJ 1996; 312: 287-92.
- Marmot M. Social determinants of health inequalities. Lancet 2005; 365: 1099-104.
- Holman H., Chronic disease: the need for a new clinical education. JAMA 2004; 292(9):1057-59.
- Wolff J, Starfield B, Anderson G. Prevalence, expenditures and complications of multiple chronic conditions in the elderly. Arch Intern Med 2002; 162: 2269-76.
- Starfield B, Shi L, Macinko J. Contribution of primary care to health systems and health. Milbank Q 2005; 83: 457-502.
- Tinetti ME, Fried TR, Boyd CM. Designing health care for the most common chronic condition-multimorbidity. JAMA 2012; 307 (23): 2493-94.
- Salisbury C. Multimorbidity: redesigning health care for people who use it. Lancet 2012; 380: 7-9.
Condivido completamente quanto riportato nell’articolo di Carla Perria; la sfida futura sarà sempre più quella delle multimorbosità sempre più presente soprattutto per l’invecchiamento della popolazione; basti pensare, a questo riguardo, che nella Regione Toscana, in cui vivo e opero, la popolazione di età ≥75 anni si è incrementata del 55% negli ultimi 20 anni e quella di età ≥85 anni addirittura del 114%. Sono anche in incremento studi che cercano di spiegare come una patologia di una dato organo sia spesso associata a patologie di altri organi e questo non per semplice concomitanza di due o più malattie nello stesso individuo, ma perché una malattia può essere responsabile di un’altra. Mentre prima, ad esempio, si pensava che la bpco e le malattie cardiovascolari fossero legate solo al comune fattore di rischio (il fumo), oggi si hanno evidenze considerevoli da studi epidemiologici, da studi sperimentali e clinici che esista tra queste due patologie una relazione più complessa della loro semplice coesistenza e che queste condizioni possano avere meccanismi patogenetici comuni. Sono d’accordo con Carla Perria anche quando parla della necessità di una nuova medicina, che formi in questa nuova ottica i futuri medici e della necessità che il medico di medicina generale sappia riappropriarsi del proprio ruolo di principale conoscitore dei problemi del proprio paziente; che sappia così essere la figura unica di riferimento, in grado di assumersi la responsabilità della maggior parte delle decisioni cliniche, come giustamente è stato detto. Ma è pronto il medico di medicina generale a svolgere questo compito di fronte a una medicina che diventa sempre più iperspecialistica, che porta di conseguenza alla ovvia attrazione degli ammalati verso la specialistica, più che al proprio medico di medicina generale, come quotidianamente possiamo constatare? A questo proposito mi viene in mente di pensare: “quanto è aiutato il medico di medicina generale a impiegare il proprio tempo a sviluppare sempre più le proprie conoscenze professionali rispetto al tempo che quotidianamente svolge in atti spesso solo burocratici?”. Si possono fare molti esempi su cosa intendo per crescita della medicina generale; vorrei vedere, ad esempio, presente alle riunioni dei gom (gruppo oncologico multidisciplinari) lo stesso medico di medicina generale quando vengono prese decisioni sull’iter terapeutico e diagnostico di un proprio assistito affetto da neoplasia; questo perché il medico di medicina generale non deve ricevere supinamente la decisione del gruppo oncologico, ma deve partecipare attivamente alle scelte che vengono prese sul proprio paziente; purtroppo invece non è raro rendersi conto che l’ammalato si rivolge direttamente allo specialista saltando il proprio medico di medicina generale, che a volte è addirittura completamente all’oscuro di quello che sta accadendo al proprio assistito. Altro esempio è il ruolo indispensabile che il medico di medicina generale deve avere nell’aiutare il proprio paziente, ma soprattutto lo specialista o il medico ospedaliero (che sia esperto di patologia oncologica o di patologia di organo non oncologica) alla ricerca del “limite delle cure” specifiche per la patologia d’organo e all’attuazione di una precoce integrazione con le cure palliative, quando la malattia si trova nella fase terminale e quando questa va inquadrata anche nell’ambito della multimorbosità. Quante volte, purtroppo, l’ammalato e la famiglia si sente solo nella fase terminale! Purtroppo di queste tematiche si parla poco, o, comunque molto meno di altri argomenti … basti pensare a quanto siano disertate dai medici di medicina generale, ma anche dai medici specialisti e ospedalieri le iniziative, purtroppo non frequenti, che affrontano le cure di fine vita; iniziative però che ritrovano fortunatamente un pubblico veramente interessato, quello dei futuri medici e dei futuri infermieri.
Sono completamente d’accordo con Andrea, occorre dei corsi ai medici di medicina generale per implementare le cure palliative specialmente nei pazienti affetti da patologie croniche.
Alla base dell’assistenza centrata sul paziente c’è la relazione di cura tra paziente e un team di professionisti preparati e motivati. Ma c’è anche l’impegno di amministratori e politici nel sostenere le trasformazioni strutturali del sistema sanitario [GM].
In realtà possiamo affermare che tutto il sistema a partire dalla formazione universitaria è centrato sulla parcellizzazione del malato e non solo in organi ma lo studio ormai è ancora più settoriale avendo in sostanza dal 3° anno di studi un palese interesse “al particolare”.
Dell’individuo nella sua totalità se ne parla e molto ma è assai complesso vedere / discutere / parlare / visitare l’uomo affetto da plurime morbosità costretti a lavorare con il fiato sul collo sia della ”velocità e sempre più in fretta” sia con la pressione del “risparmio”.
Questa condizione al letto del malato per l’operatore sanitario, per il medico, genera non solo ansia ma anche distorte forme di un “difensivismo esasperato” che sappiamo quanti reali sprechi ed errori alla fine genera. Ed oggi con buona pace di tutti in ospedale si sta per 48 – 72 ore e si è forzatamente di passaggio fra esami che tornano e quelli da fare.
Avete notato come sono oggi le cartelle cliniche, ancorché non informatizzate, nella parte della storia clinica, del pregresso vissuto del malato?
Dei pazienti con multiple morbosità e non solo quelli fragili e molto anziani, ci possiamo prendere cura solo nel loro ambiente, nel loro tessuto comunitario.
E’ probabile quindi che tutta una serie di attività didattiche dovrebbero essere svolte / concentrate / sviluppate in itinere fra l’ambulatorio territoriale dei medici di famiglia e i luoghi / i posti dove il paziente vive.
I medici di famiglia e l’infermiere di comunità dovrebbero costituire quasi un’unità didattica elementare / basilare / fondamentale non solo per integrarsi nel prendersi cura del malato complesso ma anche per analizzare / indagare / approfondire tutto quello che i grandi trials non hanno potuto fare per i conosciuti stringenti criteri di inclusione ed esclusione e tutte le domande inespresse sulla utilità / inutilità della politerapia nei nostri ultra settantenni.
E quanto alla fine in una società di “assai anziani”, stiamo curando non la persona malata ma forzatamente esami dai valori alterati in una media di cd normalità inesorabilmente sempre più bassa.
Nel momento in cui scopriamo i rischi economico-finanziari di una “non presa in carico totale dei pazienti complessi” dobbiamo sfruttare ogni occasione offerta dalla riorganizzazione dell’assistenza territoriale, per “formarci insieme” in più figure professionali, cosa ancora stenta nel corso di studi universitari e non solo. Troppe professioni “essenziali” si formano di fatto / sul campo in maniera “individuale” anche se leggiamo pagine e pagine di documenti / diapo / tesi centrati sulla parola “integrazione”.
Dobbiamo reinventarci un modo condiviso le condizioni, i presupposti, gli obiettivi ma soprattutto la mission per superare le tensioni che ci impediscono di fatto di lavorare in team.
Dobbiamo – soprattutto a favore delle nuove generazioni di professionisti della salute – slegarci dagli impacci burocratico – amministrativi, per dedicare il tempo guadagnato a ricomporre unitariamente, non solo con la tecnologia ma anche la antica semeiotica e la relazione, le varie sfaccettature / patologie che il paziente presenta.
Inoltre … Se non si realizzano / costruiscono le “condizioni per operare un cambiamento che vada al di là dell’inutile dualismo ospedale – territorio, è difficile centrare un obiettivo. Forse dobbiamo pensare ad un programma che costruisca una prospettiva diversa da quella attuale (I.C. 2012).
condivido molto, oltre che l’interessante articolo di Carla Perria, le considerazioni del MMG Saffi Giustini.
appare almeno significativo che, dopo decenni di iperspecialismo, di enfasi sulle linee guida e quant’altro, si alzino più voci su multimorbidity, integrazione intra-sanitaria e socio-sanitaria, relazione persona-professionista sanitario e necessità di ampia e condivisa formazione su tali temi. con la speranza che qualcosa cambi in tal senso nella sanità del nostro martoriato Paese!