Per una medicina di iniziativa essenziale, appropriata e non discriminante
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- 1 Luglio 2013
In un momento di riduzione della disponibilità finanziaria per la sanità sarà opportuno scegliere soglie di intervento prudenzialmente più alte, rivedendo l’utilità marginale di ciascun intervento. Dobbiamo, cioè, saper rispondere a domande del tipo: trattare gli ipertesi con PA < 160/100 quanti ictus evita e a quale costo in confronto al non trattamento?
Tra le attività qualificanti delle Cure Primarie vi é la “medicina di iniziativa”, un modello assistenziale considerato più idoneo a gestire le patologie croniche, in costante aumento per l’invecchiamento della popolazione. Queste malattie (diabete, ipertensione arteriosa, BPCO, …) e alcuni fattori di rischio (ipercolesterolemia, …) non si prestano ad essere curate dal modello classico della “medicina d’attesa”, disegnato sulle malattie acute, secondo il quale il medico attende che il paziente giunga da lui sottoponendogli un disturbo o una malattia che il più delle volte potrà essere risolta, anche ricorrendo a tecnologie sofisticate, in un lasso di tempo breve.
Una buona gestione delle malattie croniche prevede invece che il medico si prenda cura in maniera attiva delle persone, invitandole a sottoporsi ai controlli e offrendo loro un insieme di interventi personalizzati che, iniziando prima dell’insorgere della malattia, o prima che essa si manifesti o si aggravi, possano curarla nel corso degli anni e rallentarne l’evoluzione.
La gestione di una malattia cronica prevede inoltre che tutti i settori del sistema sanitario e in certi casi di quello socio-assistenziale si integrino e si coordino in maniera predefinita e condivisa, disegnando dei percorsi diagnostico-terapeutici, affinché i pazienti possano essere seguiti, al livello più appropriato, lungo tutto il decorso della malattia, a secondo del tipo di necessità.
Il modello della medicina di iniziativa si basa anche sulla predisposizione di alcuni strumenti organizzativi, come per esempio:
- sistemi di primo invito e di richiamo che agevolino l’avanzamento lungo i percorsi di cura,
- un insieme di indicatori che permetta di verificare qualità degli interventi e risultati di salute,
- un sistema informativo che registri i percorsi del paziente e permetta l’attività di valutazione.
La messa in pratica di un tale modello é molto impegnativa e pone diversi problemi.
Innanzitutto richiede l’uso di risorse pubbliche e l’investimento di molte energie, anche economiche e parte dal presupposto che rappresenti un vantaggio per la salute dei cittadini ma anche per la sostenibilità del sistema sanitario (riduzione degli interventi e dei costi legati a eventi gravi o invalidanti).
È, dunque, necessario che il tipo di interventi proposti al cittadino riguardi patologie con una alta frequenza nella popolazione, che abbiano una prognosi severa se non trattate e per le quali sia disponibile un intervento efficace, e, soprattutto, che la gestione attiva nel tempo sia capace di portare un concreto beneficio, maggiore di quanto farebbe una gestione ‘ordinaria’ non programmata, la cui misura in termini di anni di vita liberi da malattia e da inabilità si basi su evidenze oggettive.
Quest’ultimo punto è estremamente importante anche da un punto di vista etico: infatti, contrariamente a quanto avviene solitamente, non é il cittadino che, con una sua decisione spontanea, chiede di accedere ad un servizio sanitario, ma é il sistema sanitario che attiva una serie coordinata di iniziative rivolte ad una patologia che può essere ancora inavvertita o inespressa.
Pertanto l’assunzione di responsabilità del servizio è molto alta in quanto, per il cittadino, essere inserito in un sistema di diagnosi e cura significa comunque essere ‘medicalizzato’, subire un atto clinico non privo di implicazioni importanti e non tutte positive.
Quindi prima di tutto é necessario che il cittadino sia informato e consapevole di ciò e sia messo veramente in grado di valutarne la personale accettabilità, evitando atteggiamenti paternalistici basati sulla asimmetria informativa (‘fidati di me che conosco la materia’).
In secondo luogo va evitato che un modello di questo tipo induca (o si confonda con) una rincorsa di richieste di prestazioni o contribuisca a una falsa consapevolezza un po’ ossessiva dei rischi, verso una cultura salutistica costosa ed inefficace.
Quest’ultima preoccupazione è molto attuale, in quanto uno dei problemi che i sistemi sanitari devono contrastare é proprio lo spreco di risorse dovuto alla forte pressione esercitata dall’industria farmaceutica e biomedicale, sia nei confronti dei consumatori, sia nei confronti dei medici, sia nei confronti delle istituzioni, perché aumentino i consumi sanitari, al di là di criteri di appropriatezza. Tale fenomeno é noto come marketing della salute o come ‘disease mongering’.
Il disease mongering é infatti il tentativo di convincere persone sostanzialmente sane di essere ammalate oppure persone con un disturbo lieve di essere seriamente ammalate[1].
L’effetto finale del disease mongering é trasformare persone sane in pazienti, sprecare risorse preziose e procurare danni iatrogeni[2].
Lo scopo é principalmente economico, cioè allargare a dismisura il mercato dei farmaci e dei prodotti medicali, ma la sua conseguenza é anche culturale, perché crea una medicalizzazione spinta della vita quotidiana, facendo intendere alle persone che nel ‘sistema medico farmaceutico’ é sempre possibile trovare una risposta ai propri malesseri.
Diverse sono le strategie e le modalità di applicazione del disease mongering: alcune agiscono inventando vere e proprie malattie altre rivedendo le soglie diagnostiche o i target terapeutici delle malattie ‘vere’.
Tra le prime vi é la trasformazione in condizioni patologiche (per le quali vi é la promessa di terapie efficaci) di situazioni che nella maggior parte dei casi fanno parte della normale variabilità della condizione umana. L’obiettivo é quello di abbassare la soglia della tolleranza individuale e dell’accettabilità sociale della differenza da un presunto standard ottimale di riferimento.
Tra le condizioni sulle quali, nel corso degli ultimi anni, c’é stato maggior battage troviamo:
- la sindrome delle gambe senza riposo,
- il disturbo d’ansia sociale (timidezza),
- la “female sexual disfunction” (scarso desiderio sessuale),
- la stipsi,
- la calvizie,
- la cellulite,
- la flatulenza.
Tra le strategie di tipo quantitativo, vi sono quelle che intervengono abbassando le soglie diagnostiche o decisionali delle patologie.
Riporto di seguito alcuni sintetici esempi inerenti le patologie croniche che solitamente rientrano nei programmi di medicina di iniziativa.
Ipertensione arteriosa
Nel 2003 le linee guida degli USA (JNC VII)[3] sull’ipertensione arteriosa ne rivoluzionarono la classificazione, istituendo la ‘pre-ipertensione’ dove rientravano i soggetti con pressione tra 120/139 e 80/89.
Il razionale della creazione di tale nuovo stadio avrebbe dovuto essere la riduzione di morbidità e mortalità derivante da un trattamento aggressivo. Due revisioni sistematiche Cochrane successivamente pubblicate sostengono il contrario: “nell’ipertensione arteriosa mirare ad un obiettivo inferiore a 140/90 non é vantaggioso” (2009)[4] e “i farmaci antipertensivi utilizzati nel trattamento in prevenzione primaria dell’ipertensione lieve (140/159 e 90/99) non hanno dimostrato di abbassare morbidità e mortalità” (2012)[5].
Diabete
Un altro esempio di abbassamento delle soglie diagnostiche e degli indici di compenso é il diabete. Nel corso degli anni il valore della glicemia che porta alla diagnosi è stata abbassata da 140 mg/dl a 126 mg/dl; inoltre le linee guida dell’American Diabetes Association hanno definito una nuova condizione, l’alterata glicemia a digiuno (in altre parole, il pre-diabete), ponendo la sua soglia diagnostica a 100mg/dl e nel 2011[6] hanno proposto di utilizzare un nuovo parametro come criterio diagnostico del diabete, l’emoglobina glicosilata, ponendo la soglia al valore di 6,5 %.
Questo stesso parametro é da tempo utilizzato come indice di compenso metabolico, cioé di quanto funziona la terapia nei pazienti diabetici nel tenere bassa la glicemia, e in questo caso il suo valore ottimale é considerato il 7%.
L’abbassamento costante delle soglie diagnostiche e degli indici di compenso dovrebbe permettere di curare prima e più intensivamente i pazienti diabetici al fine di evitare loro le complicazioni della malattia (retinopatia, nefropatia, eventi cardiovascolari).
Uno studio del 2008 ha voluto verificare quale vantaggio ci fosse nell’attuare una terapia intensiva ed ha paragonato due gruppi di diabetici (con un valore medio dell’emoglobina glicata 8,1) con le medesime caratteristiche, sottoponendone uno ad un trattamento intensivo e l’altro ad un trattamento standard; dopo un anno nel primo gruppo si raggiunse un valore medio di emoglobina glicata del 6,4%, nel secondo del 7,5%. Sorprendentemente nel gruppo con il valore più basso si ebbe un eccesso di mortalità e non l’attesa diminuzione degli eventi cardiovascolari.
Ipercolesterolemia
Un ultimo esempio è dato dall’enfasi posta sulla necessità di abbassare la colesterolemia in prevenzione primaria, cioè in persone sane che non hanno avuto eventi cardiovascolari.
Le linee guida internazionali[7] e, nel nostro Paese, le indicazioni dell’ente regolatorio sui farmaci (AIFA)[8], inducono al trattamento farmacologico di una percentuale molto alta della popolazione, arrivando a proporre statine per la maggioranza degli adulti e quasi tutti gli anziani.
Mentre sembra esserci consenso sulla necessità di ridurre i valori di colesterolo nel caso di persone che hanno subito eventi cardiovascolari o soffrono di diabete (prevenzione secondaria), essendo questi ad alto rischio cardiovascolare, forti dubbi[9] emergono sull’opportunità di trattare i soggetti a basso e medio rischio (effettuando cioè un presupposto intervento di prevenzione primaria).
Una recente ricerca[10] effettuata in Corea correla bassi valori di colesterolemia con l’aumento della mortalità cardiovascolare e un’osservazione simile era già stata pubblicata su Lancet nel 2001[11].
Per dare un’idea di cosa significa in termini quantitativi l’abbassamento delle soglie di ipertensione arteriosa, diabete, ipercolesterolemia, Kaplan[12] nel 2007 ha calcolato che il 100% degli adulti americani rientrava, almeno per un parametro, tra i soggetti patologici, per i quali era proponibile un intervento sanitario, il più delle volte un farmaco.
Altre forme del disease mongering
Senza entrare nel dettaglio, ricordo alcune altre modalità di induzione della domanda perché sono interrelate con le precedenti e quindi possono interferire con programmi di medicina d’iniziativa.
Una é la proposta di accertamenti precoci (presentati come prevenzione) volti a scoprire i primi segni di malattia; in realtà il più delle volte ciò che si scopre sono delle anomalie inconsistenti e che non daranno problemi nel corso della vita[13].
Un altro modo per enfatizzare genericamente la necessità che le persone si sottopongano a controlli è quello di indire la giornata o la settimana: dell’osteoporosi, della menopausa, del polmone, della prostata, dell’obesità, della psoriasi, dell’herpes e così via. Non solo é stato riempito tutto l’anno, ma alcune patologie sono in condominio avendo il calendario solo 365 giorni disponibili.
Concludo questa parte descrittiva citando quanto sta avvenendo negli Stati Uniti.
La necessità di porre un freno a questo insieme di strategie promozionali che minano la sostenibilità del sistema sanitario e l’appropriatezza degli interventi é alla base dell’iniziativa di nove società medico-scientifiche statunitensi, definita ‘Choosing wisely'[14], volta a eliminare dalla pratica corrente gli interventi di provata inefficacia. Questa proposta é stata ripresa in Italia dal movimento Slow medicine[15] vedi post Fare di più non significa fare meglio.
Proposta per una medicina di iniziativa essenziale, appropriata e non discriminante.
Il terzo principio della Carta Europea di Etica Medica, “il medico, senza discriminazione alcuna, fornisce al paziente le cure più essenziali ed appropriate”, può essere applicato anche nell’ambito della medicina di iniziativa.
Questo significa individuare le patologie croniche che, sulla base dei criteri di frequenza, severità, modificabilità possano beneficiare di un intervento pro-attivo.
Oltre a quelle citate sopra, si potrebbe pensare ad alcuni tumori per programmare e garantire il loro follow up. In quest’ultimo caso la motivazione é che la adesione ai programmi di controllo nel tempo si abbassa con la diminuzione dello stato sociale[16].
Per ciascuna patologia vanno poi discussi i dati della letteratura inerenti le soglie diagnostiche e di intervento e i target terapeutici.
Dovranno essere scelti quelli che permettono il miglior rapporto tra i costi e i benefici, avendo a mente le risorse disponibili e la necessità di intensificare gli interventi nei confronti di particolari gruppi di popolazione svantaggiati.
È verosimile che in un momento di riduzione della disponibilità finanziaria per la sanità sarà opportuno scegliere soglie di intervento prudenzialmente più alte, rivedendo l’utilità marginale di ciascun intervento. Dobbiamo, cioè, saper rispondere a domande del tipo: trattare gli ipertesi con PA < 160/100 quanti ictus evita e a quale costo in confronto al non trattamento?
Sulla base di queste scelte, si potranno poi disegnare percorsi diagnostico terapeutici realistici e sostenibili, validi per tutti i livelli del sistema, dove possano essere inserite anche delle raccomandazioni sulla scelta delle terapie meno costose. Una recente presa di posizione dei bollettini italiani indipendenti sui farmaci[17] stima in oltre 1 miliardo di euro il risparmio possibile nel campo della terapia per ipertensione e ipercolesterolemia con una scelta farmacologica avveduta.
La responsabilità di decisioni così delicate come la scelta di iniziare o non iniziare una terapia in presenza di dati della letteratura contrastanti o non univoci non può certo essere lasciata al singolo medico.
È necessario costituire dei gruppi di consenso sull’esempio di altre esperienze come per esempio quella che ha permesso di definire i criteri con i quali proporre alle donne in menopausa la terapia ormonale sostitutiva[18].
Dovrebbero fare parte di questi gruppi almeno 4 componenti: i cittadini, i professionisti (e le loro associazioni sindacali, professionali e ordinistiche), gli enti gestori (le ASL nelle articolazioni ritenute più appropriate), la Regione come ente di tutela e di programmazione.
Guido Giustetto, Medico di famiglia, Pino Torinese. Vicepresidente Ordine dei Medici di Torino.
- Payer L. Disease-mongers: How doctors, drug companies, and insurers are making you feel sick. New York: Wiley & Sons, 1992 (292 p).
- Moynihan R, Henry D. The Fight against Disease Mongering: Generating Knowledge for Action. PLoS Med 2006; 3(4): e191. doi:10.1371/journal.pmed.0030191
- The Seventh Report of the Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure. Complete Report JNC 7 Complete Report: The Science Behind the New Guidelines
- Arguedas JA, Perez MI, Wright JM. Aiming for blood pressure targets lower than 140/90 mmHg is not beneficial. Summary . Cochrane Library. DOI: 10.1002/14651858.CD004349.pub2.
- Diao D, e al. Pharmacotherapy for mild hypertension. Cochrane Database Syst Rev 2012; 8:CD006742. doi: 10.1002/14651858.CD006742.pub2.
- American Diabetes Association. Position Statement. Diagnosis and classification of diabetes mellitus. Diabetes Care 2010;33:S62-9.
- Third Report of the Expert Panel on Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Cholesterol in Adults (Adult Treatment Panel III)
- Modifica alla Nota 13 di cui alla Determina del 14 novembre 2012. Nota 13 | AIFA Agenzia Italiana del Farmaco
- Donzelli A, Statine inefficaci sulla mortalità totale in pazienti a rischio basso o medio. Dialogo sui farmaci 2012; 4
- Jong-Myon Bae, Yeong-Ja Yang, Zhong-Min Li, Yoon-Ok Ahn. Low Cholesterol is Associated with Mortality from Cardiovascular Diseases: A Dynamic Cohort Study in Korean Adults. J Korean Med Sci. 2012 Jan;27(1):58-63.
- Schatz IJ, Masaki K, Yano K, et al. Cholesterol and all-cause mortality in elderly people from the Honolulu Heart Program: a cohort study. The Lancet 2001;358(9279):351-5.
- Kaplan RM, Ong M. Annu. Rev. Public Health (2007) Vol. 28: 321-44
- Gianfranco Domenighetti: Medicalizzazione della società e durabilità dei sistemi sanitari. Slide della conferenza data al Convegno “Sanità e Socialità: Quo Vadis”.
- Choosing Wisely
- Slow Medicine. Cure adeguate e appropriate
- Faggiano F, Zanetti R, Rosso S, Costa G. Differenze sociali nell’incidenza, letalità , mortalità per tumori a Torino. Epidemiologia & Prevenzione 1999; 23: 294-299.
- Informare sui farmaci sembra essere solo un costo, non un investimento. Ricerca e Pratica, 2012; 28:279.
- Consensus conference TOS: documento definitivo. Partecipa Salute, 02.07.2008
Condivido l’intero discorso. Mi interessa conoscere la vostra opinione su argomenti con evidenza scientifica ancora più bassa e che tanto scatenano l’opinione pubblica: dal siero di Bonifacio a Stamina, passando per la cura Di Bella. Grazie
come al solito, eccellente! Una sola osservazione a proposito di quanto di seguito: “Quindi prima di tutto é necessario che il cittadino sia informato e consapevole di ciò e sia messo veramente in grado di valutarne la personale accettabilità, evitando atteggiamenti paternalistici basati sulla asimmetria informativa (‘fidati di me che conosco la materia’).” Va sottolineato che solo il cittadino ha titolo di dare il peso ai rischi e ai vantaggi associati alle varie alternative in gioco. Quindi, non solo non è accettabile dire: “fidati di me che conosco la materia”, ma anche dire “al tuo posto io farei così” perchè non è detto che si dia lo stesso peso alle alternative in gioco.
Gentile Collega, condivido pienamente il messaggio generale del post. Tuttavia mi permetto di fare una precisazione riguardo all’interpretazione dei risultati dello studio ACCORD, citato a proposito della più alta mortalità riscontrata nei pazienti diabetici trattati con regimi terapeutici intensivi. Si trattava di un sottogruppo di pazienti particolarmente fragili, con storia di malattia di lunga data e fortemente scompensati, nei quali una modifica brusca degli indici metabolici, dovuta all’intensività del regime terapeutico, ha paradossalmente fatto precipitare la prognosi. Quanto accaduto è stato attribuito alla cosiddetta “memoria metabolica”, che controindica atteggiamenti terapeutici aggressivi nei pazienti cronicamente scompensati. Ma sono proprio questi risultati che sostengono la necessità di intervenire nelle fasi precoci delle malattie croniche, con un atteggiamento proattivo non necessariamente sbilanciato sull’uso precoce dei farmaci ma soprattutto attento alla prevenzione e alla modifica degli stili di vita, laddove possibile. Mi sento anche di dire, ma è solo una mia modesta opinione, che nel caso delle malattie cardiovascolari (ma credo non solo di queste) la valutazione del rischio di malattia, e quindi dell’opportunità o meno di intervenire, anche farmacologicamente, debba basarsi su un insieme di criteri utili a formulare un giudizio complessivo che tenga conto del paziente nella sua globalità e non solo dello scostamento del valore di singoli esami di laboratorio.
Sono d’accordo sulla precisazione e in particolare sulla necessità di modulare e individualizzare gli obiettivi terapeutici.
Nel caso del trattamento del diabete, di cui peraltro non sono un esperto (se non per essere un medico di famiglia con circa 100 pazienti diabetici), mi sembra molto convincente il consiglio proposto sul Drug and therapeutics bulletin: gli obiettivi più stringenti potrebbero essere appropriati per le persone con una breve durata di malattia, lunga aspettativa di vita, assenza di co-morbilità, un basso rischio di ipoglicemia, un sistema di supporto adeguato e alta motivazione. Gli obiettivi meno intensivi potrebbero essere appropriati per i pazienti più anziani con una lunga storia di diabete, più o gravi complicazioni o
comorbidità, scarsi supporto, capacità di auto-cura e motivazione.
http://dtb.bmj.com/content/51/4/42.short?g=w_dtb_currentissue_tab