L’insostenibile inutilità dei Cie

cieAlberto Barbieri

I Centri di identificazione ed espulsione (Cie) sono strutture congenitamente incapaci a garantire in modo adeguato la dignità umana, l’accesso alle cure e gli altri diritti fondamentali. Sono anche inefficaci nel contrasto dell’immigrazione irregolare.


Il governo ha avviato una riflessione sui Cie per valutare condizioni e utilità delle strutture”. Lo ha dichiarato qualche giorno fa il ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge. La notizia è sicuramente positiva e c’è da augurarsi che alle dichiarazioni il governo faccia seguire qualche atto concreto nella direzione del superamento nel nostro paese dei centri di identificazione ed espulsione per gli immigrati in condizione di irregolarità. I drammatici avvenimenti di questa estate – la morte di un giovane migrante nel Cie di Crotone, la conseguente rivolta e la chiusura della struttura, le rivolte che si sono susseguite nel Cie di Gradisca d’Isonzo con numerosi feriti, anche gravi – non hanno fatto che confermare l’insostenibilità del sistema della detenzione amministrativa per i migranti: inefficace e dai costi umani inaccettabili.

Una riflessione seria sui Cie da parte del governo, a quindici anni dalla loro istituzione, è, dunque, quanto mai urgente ed è ciò che, tra l’altro, auspica nelle sue conclusioni il rapporto di Medici per i Diritti Umani (MEDU) Arcipelago Cie[1] pubblicato quest’anno dopo un’indagine di dodici mesi che ha portato gli operatori di MEDU a visitare in modo sistematico tutti i centri operativi in Italia.
Lo studio si è posto alcune semplici domande.

  1. I centri di identificazione ed espulsione sono in grado di tutelare i diritti umani dei trattenuti?
  2. Questi centri sono realmente utili nel contrasto dell’immigrazione irregolare?

Ebbene, le evidenze acquisite dimostrano che i Cie sono strutture congenitamente incapaci a garantire in modo adeguato la dignità  umana, l’accesso alle cure e gli altri diritti fondamentali. Le innumerevoli criticità rilevate in modo maggiore o minore in tutti i Cie sono tali da rendere oltremodo degradanti le condizioni di vita dei migranti al loro interno: strutture spesso fatiscenti e assimilabili a grandi gabbie, servizi alla persona non omogenei e nel complesso insoddisfacenti, assenza del servizio sanitario nazionale al loro interno, fornitura di beni essenziali insufficiente in alcuni centri, norme che regolano la vita interna particolarmente rigide e restrittive, frequenti atti di autolesionismo, disagio psichico intenso e drammaticamente diffuso.
La testimonianza di una giovane donna reclusa in un Cie, raccolta dagli operatori di MEDU, è senz’altro ancora più eloquente
: “Le condizioni qui nel centro sono brutte perché la dignità di una donna non esiste. Nel bagno non c’è una porta. Un pettine non esiste e dobbiamo pettinarci con le forchette. Fa un freddo cane perché il riscaldamento è rotto e l’acqua calda spesso manca. Uno può avere sbagliato, avere i documenti o no, ma non è giusto stare in queste condizioni, trattati come bestie, vivendo nella sporcizia perché qui non c’è igiene. Durante il giorno non sappiamo cosa fare, non c’è niente da fare”.

Dopo l’aspetto dei diritti veniamo ora ad analizzare la questione dei Cie da un punto di vista che potremmo definire utilitaristico. Anche qui i dati ufficiali parlano chiaro. A fronte di un prezzo così alto da pagare in termini di tutela dei valori essenziali per la vita civile di un paese, i centri di identificazione ed espulsione si dimostrano fallimentari nel contrasto dell’immigrazione irregolare in quanto scarsamente rilevanti e poco efficaci. Lo scopo dichiarato dei Cie è infatti quello di identificare e rimpatriare gli immigrati sprovvisti di un titolo valido per il soggiorno. Ebbene, nel corso del 2012, solo la metà dei circa 8.000 migranti trattenuti nei centri sono stati effettivamente espulsi[2] e questi rappresentano solo un centesimo dei 326.000 stranieri in condizione di irregolarità che l’ISMU stimava essere presenti sul territorio italiano al primo gennaio 2012[3]. Il prolungamento dei tempi massimi di trattenimento da 60 a 180 giorni (2009) e successivamente addirittura a diciotto mesi (2011) non ha poi sortito alcun effetto significativo in termini di efficacia nei rimpatri ma ha senz’altro contribuito a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita dei trattenuti e ad aggravare il clima di tensione e la conflittualità all’interno dei centri.

Sembra allora emergere un’evidente contrapposizione tra le finalità che hanno motivato la creazione dei Cie e il ruolo effettivo svolto da queste strutture. In effetti dietro le sbarre dei Cie si trovano a dover convivere fianco a fianco persone con status giuridico e percorsi migratori molto diversi: migranti appena giunti in Italia, richiedenti asilo, cittadini comunitari, stranieri presenti da molti anni in Italia, spesso con famiglia, ma senza un contratto di lavoro regolare, immigrati con il permesso di soggiorno scaduto. Molto numerosi sono poi i migranti provenienti dal carcere, la cui identificazione sarebbe dovuta avvenire durante il periodo di reclusione e che si trovano invece a dover scontare una sorta di “estensione della pena” all’interno dei Cie. Nel corso dell’indagine, inoltre, gli operatori di MEDU hanno incontrato un mondo sconcertante di vulnerabilità: donne vittime di tratta, vittime di violenze e abusi, disabili, malati con patologie gravi, persone con disturbi mentali e in stato di grave emarginazione sociale. Nei fatti, i Cie hanno dunque assunto al contempo il ruolo di strutture punitive e quello di contenitori impropri della marginalità, una sorta di “inferno degli esclusi” come lo erano una volta i manicomi.

Del resto, il disagio nei Cie non riguarda solo i migranti. Le condizioni di lavoro degli operatori degli enti – per lo più privati – che amministrano i centri e degli agenti di pubblica sicurezza sono apparse assai critiche, per la difficoltà a gestire quelle che uno stesso funzionario di polizia ha definito “delle polveriere pronte ad esplodere”. E l’introduzione dal 2012 dei bandi di gara al massimo ribasso sembra essere stata la miccia accesa in una santabarbara. Da circa un anno il governo ha infatti adottato come unico criterio per l’assegnazione della gestione dei centri, quello dell’offerta economica minima, indipendentemente dalla qualità dei beni e dei servizi garantiti. Ciò ha inevitabilmente determinato un ulteriore e insostenibile scadimento delle strutture e dei servizi e un aumento delle rivolte e delle proteste da parte dei trattenuti.

A testimoniare il logoramento del “sistema Cie” vi sono le chiusure di vari centri negli ultimi mesi. Attualmente solo sette dei tredici Cie sparsi sul territorio nazionale sono effettivamente funzionanti. I Cie di Trapani (Serraino Vulpitta) e quello di Brindisi sono chiusi da oltre un anno, il centro di Lamezia Terme è stato chiuso nello scorso novembre dopo che anche MEDU ne aveva denunciato le gravi carenze. I CIE dell’Emilia Romagna sono stati chiusi a febbraio (Bologna) e ad agosto (Modena) per lavori di ristrutturazione, dopo che le Prefetture, di fronte a esiti disastrosi sia per le condizioni di vita dei trattenuti sia dal punto di vista della gestione complessiva, avevano revocato gli appalti dei centri all’ente che se li era aggiudicati con gare al ribasso. Il Cie di Crotone è stato chiuso al principio di agosto dopo la morte di un giovane migrante e la successiva rivolta dei trattenuti. Allo stato dei fatti tutte queste chiusure dovrebbero essere comunque transitorie anche se non si conoscono ad oggi i tempi di riapertura.

Ma c’è dell’altro; la maggior parte dei centri attualmente operativi funziona a scartamento ridotto per ragioni di sicurezza o perché molti settori sono inagibili o danneggiati. Stiamo dunque parlando di un sistema già in piena crisi che funziona ben al di sotto del 50% della sua capienza teorica. Un sistema che – al di là delle riduzioni di budget a disposizione degli enti gestori – deve sostenere ingenti spese legate sia alla manutenzione e riparazione delle strutture  sia al personale di sicurezza. E’ quasi superfluo dire che tali costi appaiono del tutto non commisurati ai modesti risultati conseguiti.

Tornando agli aspetti sanitari, è evidente che parlare di tutela della salute – intesa come benessere fisico, psichico e sociale – all’interno di quelle nuove istituzioni totali che sono i Cie rappresenta una contraddizione in termini. Tra gli aspetti più preoccupanti  rilevati dall’indagine di MEDU vi è tra l’altro la drastica compromissione del rapporto di fiducia medico-paziente, tra i pazienti trattenuti e i sanitari degli enti gestori.

È dunque possibile fare a meno dei Cie? Certamente sì, partendo da quanto stabilito dalla Direttiva rimpatri dell’Unione europea che conferisce un carattere residuale e di extrema ratio al trattenimento dello straniero ai fini del suo rimpatrio.
Certamente sì, adottando strategie di gestione dell’immigrazione irregolare più efficaci e rispettose della dignità umana, basate su:

  • la diversificazione di risposte per categorie di migranti (ad esempio, con la protezione per le vittime di tratta e per le categorie vulnerabili oppure con l’identificazione in carcere per chi sta scontando una pena);
  • la gradualità e proporzionalità delle misure d’intervento (ad esempio con il rimpatrio volontario e con le misure di limitazione della libertà personale alternative alla detenzione);
  • l’incentivazione della collaborazione tra lo straniero e l’autorità (ad esempio con il potenziamento del ritorno assistito).

Per chi si occupa di salute, la parabola dei Cie ricorda sotto vari aspetti la storia di un’altra istituzione totale che l’Italia ha saputo superare: l’ospedale psichiatrico. Del resto, come il manicomio non curava la follia, il Cie non è certo la “medicina” contro l’immigrazione irregolare.

Alberto Barbieri.  Coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani*

*Medici per i Diritti Umani (MEDU) onlus, organizzazione umanitaria indipendente, porta avanti dal 2004 il programma “Osservatorio sull’assistenza socio-sanitaria per la popolazione migrante nei CPTA/CIE”. MEDU aderisce alla campagna LasciateCIEntrare. Il rapporto Arcipalago CIE (2013) è stato realizzato con il contributo di Open Society Foundations.

Bibliografia

  1. Medici per i Diritti Umani Arcipelago Cie. Indagine sui centri di identificazione ed espulsione italiani. Infinito Edizioni, 2013.
  2. Dati della polizia di Stato.
  3. Fondazione ISMU. Diciottesimo rapporto sulle migrazioni 2012. Franco Angeli, 2012.

3 commenti

  1. Grazie mille per l’articolo! Aggiungerei solo che la condizione di irregolarità è principalmente frutto dell’attuale sistema di regolamentazione dell’immigrazione, introdotto dalla legge Bossi-Fini. Prioritario dunque, prima ancora che gestire l’immigrazione irregolare, sarebbe prevenirla garantendo un sistema trasparente ed efficace di mobilità in entrata e di tutela dei diritti dei lavoratori stranieri. A questo proposito, i migranti stessi si mobilitano il 28 settembre a Brescia. Per maggiori info: http://coordinamentomigranti.org/2013/09/08/28-settembre-manifestazione-a-brescia-bastabossifini/

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