Medici di famiglia. Medici della complessità

medicidifamigliaSaffi Giustini e Paola Mandelli

Sta emergendo un generale consenso internazionale sul fatto che per migliorare l’assistenza alle persone con condizioni croniche è necessario un approccio più ampio. Bisogna sollevare l’orizzonte del sistema sanitario dalla malattia alla persona e alla popolazione.


Ci viene detto e raccontato che i «medici della complessità per definizione sono quelli che si prendono cura della persona nella sua globalità e sono capaci di giungere a una diagnosi, anche la più complessa, grazie alla padronanza di conoscenze che spaziano in quasi tutte le discipline mediche»(*).

Perbacco ci siamo detti eccoci qua, noi Medici di Medicina Generale (MMG) o medici di famiglia, considerando che i malati cronici e l’invecchiamento della popolazione costringono ogni sistema a rimodulare l’assetto organizzativo territoriale anche se con notevoli difficoltà, dato il momento di crisi generale.

Le malattie croniche hanno sostituito quelle acute come problema dominante per la salute, consumando il 78% dell’intera spesa sanitaria. Hanno cambiato il ruolo del medico (di famiglia), che da “unico” gestore della cura, diventa membro di un team multiprofessionale, in grado di elaborare il piano di cura e di assistenza che tenga conto della molteplicità dei bisogni, così come di garantire la continuità dell’assistenza.

Hanno cambiato il ruolo del paziente, che da soggetto passivo, diventa protagonista attivo della gestione del proprio stato di salute, assumendo comportamenti e stili di vita adeguati.

Il medico di famiglia non può più lavorare attraverso interventi “puntuali e tra loro scoordinati”, ma ha bisogno di chiedersi e di sapere, per esempio, quanti sono i pazienti con particolari patologie, le loro comorbilità, come essi sono trattati, se hanno raggiunto determinati obiettivi di salute, se hanno criticità gestionali (e quindi se corrono particolari rischi clinici) e tra essi quali sottogruppi generano costi elevati eo comprimibili con una migliore strategia assistenziale.

Dal 2008 la Regione Toscana ha scelto il Chronic Care Model (CCM) come modello per una organizzazione della rete di assistenza primaria, affidando all’interno delle cure primarie, al team multidisciplinare di MMG, infermieri, specialisti, il compito di educazione terapeutica del paziente e della famiglia, poiché maggiore è il bisogno di assistenza, maggiore deve essere lo sforzo fatto nell’aiutare il paziente ad essere “esperto” della propria salute e della gestione della propria patologia.

Nella logica di una gestione globale e non per patologia del cittadino affetto da comorbosità nel sistema di assistenza primaria attraverso la sanità di iniziativa e il CCM si deve passare da un sistema assistenziale puntiforme e “passivo” ad uno costruito su forme di aggregazione territoriale di “proattive” che si facciano carico dei malati cronici cioè affetti da diabete, bronchite cronica, scompenso, ipertensione arteriosa in modo integrato con altre figure professionali all’uopo formate come infermieri, dietisti, fisioterapisti ed alcuni specialisti.

Questo modo di lavorare e di approcciare il malato nel suo contesto sociale, va a cercare in modo particolare quei malati più fragili anche a causa di disuguaglianze prodotte da vari determinanti sociali di salute (reddito, classe sociale, istruzione, etc).

Inoltre sposta il focus dell’assistenza dal personale medico a quello infermieristico, ovviamente appositamente formato. Ma è da tempo che nei paesi nordeuropei, come in nord America, nell’ambito delle cure primarie, la figura infermieristica sta diventando sempre più rilevante, soprattutto per le complesse modalità organizzative necessarie per la gestione delle malattie croniche. Tali condizioni richiedono infatti l’individuazione di percorsi prevedibili della storia naturale e quindi un approccio programmato, secondo una logica prevalentemente prognostica e preventiva, anziché sintomatica e attendista, come accade abitualmente.

Un recente documento del Canadian Academy of Health Sciences,Transforming care for Canadians with chronic health conditions”[1], rappresenta un contributo importante e originale nella letteratura scientifica interessata alla gestione delle malattie croniche.

Per almeno due motivi.

  1. Sta emergendo un generale consenso internazionale sul fatto che per migliorare l’assistenza alle persone con condizioni croniche è necessario un approccio più ampio (a more comprehensive approach). “E’ necessario sollevare l’orizzonte del sistema sanitario dalla malattia alla persona e alla popolazione”.
  2. Altro elemento è la composizione del panel di esperti incaricati di fornire al governo canadese le raccomandazioni sul tema: oltre a un nutrito e qualificato gruppo di esponenti canadesi, figurano nel panel i più importanti innovatori nel campo delle cure primarie: da Ed Wagner (MacColl Institute for Healthcare Innovation) a Raymond J. Baxter (Kaiser Permanente), con un contributo speciale di Barbara Starfield.

L’assistenza centrata sul paziente ha ormai dimostrato di funzionare anche in termini di risultati di salute.

Un’ampia letteratura raccolta nell’arco di oltre venti anni dimostra che questo approccio migliora la percezione di benessere del paziente, sia direttamente riducendo l’ansietà e la depressione, sia indirettamente promuovendo la fiducia e la coesione sociale.

Tutto ciò aumenta la capacità del paziente di affrontare le avversità legate alla malattia, di gestire meglio le emozioni e di navigare più efficacemente nei meandri del sistema sanitario[2]. I risultati di una più intensa comunicazione tra paziente e team assistenziale –sono stati studiati in una serie di ricerche che hanno dimostrato il raggiungimento di una serie di outcome, come il miglioramento della qualità della vita, una più lunga sopravvivenza, il contenimento dei costi assistenziali (es: minori accertamenti diagnostici, minori ricoveri ospedalieri[3] e la riduzione nelle diseguaglianze nella salute[4].

Guardando alla realtà regionale toscana in cui operiamo, la nostra preoccupazione – in vista dell’apertura di nuovi ospedali (si passa da 700 a 400 posti letto), che dovrebbero funzionare per intensità di cura – è la carenza dei servizi territoriali, nella loro complessa filiera: AFT (le Aggregazioni Funzionali Territoriali dei mmg), case della salute, cure intermedie, integrazione socio-sanitaria, infrastruttura organizzativa distrettuale.

Infatti, l’analisi delle richieste dei cittadini (siamo passati per un medico con mille assistiti da 7mila contatti/anno del 2001 e oltre 11mila nel 2010) se da una parte evidenzia il ruolo sempre più strategico delle cure primarie all’interno del sistema sanitario, dall’altra ha avuto effetti pesanti sul carico di lavoro e di responsabilità che si è abbattuto sugli operatori di prima linea, in particolare i medici di famiglia.

Tutto questo e altro ancora ci offre l’opportunità di conquistare la leadership in una sanità che ancora non riesce a trovare una ricetta efficace, credibile in quanto spendibile e realizzabile nella lotta contro le malattie croniche. Una leadership necessariamente fatta di alleanze (con un ampio ventaglio di figure professionali e, prima ancora, con i propri assistiti) e della capacità di rendere conto con dati alla mano, in ogni momento, dei risultati del proprio lavoro (accountability).

Anche sulla spinta delle numerose riflessioni di B. Starfield, l’American College of Physicians ha approvato nel 2007 un Manifesto etico dal titolo “Pay- for-performance principles that promote patient-centered care” dove si legge:

Le misure di qualità dovrebbero rendere riconoscibile l’assistenza globale d’eccellenza. Esse devono premiare l’efficace gestione delle forme complesse di comorbosità, venendo incontro ai bisogni di supporto e di comunicazione dei pazienti, garantendo la continuità dell’assistenza e gli altri elementi distintivi dell’assistenza globale. Tutti gli indicatori devono sostenere e valorizzare un’appropriata assistenza al paziente e la relazione medico-paziente”.

I medici della “complessità” (attrezzandoli) volendo ci sono.

 

Saffi Giustini e Paola Mandelli, medici di famiglia ASL n. 3 Pistoia. Modulo CCM Montale.

Autori – con Luigi Santoiemma e Lucio Zinni – di VobisNewSLetter,  Collage di notizie, spigolature sul farmaco e nei dintorni della medicina generale
Nota
(*)  Rapporto Congresso SIMI 2013. In Quotidianosanita.it

Bibliografia

  1. Nasmith L, Ballem P, Baxter R, et al. Transforming care for Canadians with chronic health conditions: Put people first, expect the best, manage for results Ottawa, ON, Canada: Canadian Academy of Health Sciences, 2010.
  2. Jr Street RL , Makoul G, Arora NK,  Epstein RM. How does communication heal? Pathways linking clinician-patient communication to health outcomes. Patient Educ Couns 2009;74(3):295-301.
  3. Kate R et Al. Evidence Suggesting That a ChronicDiseaseSelf-Management Program Can Improve Health Status While Reducing Hospitalization. Medical Care 1999; 37 (1): 5-14.
  4. Levinson W, Lesser CS, Epstein RM. Developing Physician Communication Skills For Patient-Centered Care. Health Affairs 2010; 29:7, 1310-17.
  5. Snyder L, Neubauer RL, American College of Physicians Ethics, Professionalism and Human Rights Committee. Pay-for-performance principles that promote patient-centered care: an ethics manifesto. Ann Intern Med 2007;147(11):792–4.

Un commento

  1. Condivido la necessità di affrontare tutti insieme, tutti noi che ci occupiamo di politiche sociosanitarie, la sfida della nuova riorganizzazione della Medicina sul territorio (AFT UCCP), partendo dalle cure dedicate alle persone con patologie croniche, in continuità anche con le prestazioni ospedaliere. Tengo a precisare che questa nuova modalità di lavorare in squadra richiederà a tutti, partendo da Medici ed Infermieri, di essere in gruppo, gruppo di lavoro che sappia mettere insieme pensieri e competenze differenti, sguardi sulle persone di cui ci prendiamo cura, specifici dei percorsi formativi di ciascuno. Siamo certi che possiamo affrontare da soli questo passaggio che trasforma strutturalmente il modo di essere gruppo di lavoro? Credo che potremmo, forse dovremmo, riflettere rispetto a quale figura professionale possa facilitare questa trasformazione. Io avrei un’idea, idea promossa da me da tempo e condivisa con i Medici, credo che sia giunto il tempo in cui gli Psicologi che intendano proporsi in logica sinergica col territorio possano collocarsi non solo come specialisti dediti alla salute mentale ma anche come specialisti rivolti alla promozione della qualità di vita ed al benessere, alla facilitazione della qualità del lavoro di cura, all’implementazione della Psicologia di cure primarie, che sia risorsa per chi opera sul territorio!!!

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