L’aborto e la società americana

aborto_usaGianna Milano

Negli Usa il diritto delle donne all’aborto (sancito nel 1973 da una sentenza della  Corte Suprema) è sotto assedio. Negli ultimi tre anni c’è stata un’ondata di misure restrittive che in più della metà degli stati ha limitato la possibilità di interrompere la  gravidanza.  Il caso spagnolo.


L’aborto è uno di quei temi che più turba emotivamente la società americana (e non solo) e spesso la discussione pubblica si trasforma in un atto di accusa verso le donne che scelgono di avvalersi di un diritto garantito dalla legge. Per anni, fuori dalle cliniche dello stato del Massachusetts dove si praticano aborti, manifestanti anti-abortisti si sono dati ogni giorno appuntamento nel tentativo di fermare le donne che entravano per interrompere la gravidanza. C’era chi brandiva cartelloni con foto di feti, chi distribuiva volantini, chi agitava il crocefisso impugnandolo come un’arma contro coloro che cercavano di entrare, chi circondava minacciosamente le macchine di medici o pazienti che arrivavano, e chi formava una catena umana per impedire fisicamente la possibilità alle persone di aprirsi un varco. Coloro che difendevano il diritto all’aborto, esponenti del movimento “pro-choice”, si facevano largo tra i manifestanti “pro-life” fuori dalle cliniche col risultato che molte donne, intimidite dalla veemenza degli attivisti, decidevano di non affrontare quella folla e rinunciavano ad abortire. Gli interventi della polizia per placare gli animi a poco servivano e per rispondere a questo problema di ordine pubblico nel 2007 il Massachusetts votò una legge che prevedeva la creazione di una “buffer zone”, ovvero una zona cuscinetto di una decina di metri attorno all’ingresso delle cliniche[1]. In quella zona, delineata da una striscia gialla in terra, solo le pazienti e gli operatori sanitari potevano avere accesso. I manifestanti, che fossero anti-aborto o pro-aborto, dovevano stare fuori da quella zona di sicurezza. Ora, ma questa è cronaca recente, la Corte Suprema americana è chiamata a decidere, nel caso McCullen vs. Coakley, se questa legge viola il diritto alla libertà di espressione sancito dal Primo emendamento.

Ma la vera questione in gioco oggi in Usa è tutelare il diritto delle donne all’aborto (sancito nel 1973 da una sentenza della  Corte Suprema, nota come Roe vs Wade, che concesse la libertà di abortire a Jane Roe) sotto assedio sia dai manifestanti che dai giuristi. Negli ultimi tre anni c’è stata un’ondata di misure restrittive che in più della metà degli stati ha limitato il diritto all’interruzione di gravidanza. A causa di queste restrizioni molte cliniche stanno chiudendo e in diverse zone del paese il ricorso all’aborto è diventato parecchio più difficile. “I sostenitori del diritto all’aborto, confortati dai recenti risultati elettorali in Virginia e Nuovo Messico, che hanno punito i candidati più fortemente antiabortisti, sperano nel 2014 di riuscire a scalzare altri governatori repubblicani e soprattutto di rafforzare la maggioranza democratica al Senato. I gruppi antiabortisti contano invece di consolidare la loro posizione in decine di stati e di spingere il Senato a sostenere una proposta adottata alla Camera dei rappresentanti (a maggioranza repubblicana) per proibire su scala nazionale la maggior parte degli aborti alla ventesima settimana dal concepimento” scrive Erik Eckholm sul New York Times [2].

Ci sono stati, come l’Arkansas e il Nord Dakota, dove leggi vietano l’aborto non appena si manifesta il battito fetale. In nove stati è in vigore il divieto di abortire dopo le venti settimane, e questo in violazione della dottrina costituzionale: la corte suprema ha stabilito nel caso Roe vs Wade e in sentenze successive il diritto di abortire fino a quando il feto non è in grado di sopravvivere fuori dall’utero, attorno alla 24sima settimana. “E le leggi statali non devono gravare di un’ onere ingiustificato’ questo diritto” scrive Eckholm. Secondo quanto riferisce sempre il New York Times, un rapporto del Guttmacher Institute,  un’organizzazione nonprofit impegnata della ricerca sulla salute riproduttiva che sostiene il diritto all’aborto, solo nel 2013 ventidue  stati hanno introdotto 70 misure restrittive[3]. Ventiquattro stati hanno escluso l’aborto dalla copertura assicurativa prevista dai nuovi “exchange” sanitari, i mercati online dove i cittadini privi di copertura possono acquistare polizze con il supporto del governo. Addirittura in nove stati è stata vietata la copertura privata per la maggior parte degli aborti. E oltre dieci stati hanno vietato l’aborto alla ventesima settimana: secondo la teoria basata sulla percezione del dolore del feto, teoria non accettata dalle maggiori associazioni scientifiche, fra cui l’American Medical Association e il Royal College of Obstetricians and Gynecologists. Tutte le restrizioni legali per l’accesso all’aborto violano il limite delle 24 settimane stabilite dalla legge entro le quali è possibile interrompere la gravidanza.

La decisione dello stato del Massachussetts di garantire con la “buffer zone” la sicurezza delle donne che accedono alle cliniche dove si praticano aborti nasce dall’esigenza di proteggerle da indimidazioni e violenze. Del resto la storia dell’aborto in quello stato è stata una delle più travagliate: nel 1994 a Brookline, un quartiere di Boston, un giovane uomo John Salvi III, antiabortista, sparò all’impazzata fuori da due cliniche, uccidendo due impiegati e ferendo altre cinque persone. La “buffer zone” consente ugualmente ai manifestanti antiabortisti di fare picchetti, di distribuire volantini e di apostrofare le donne che si incamminano verso la clinica, e anche se questo avviene all’esterno della zona delimitata ha pur sempre il sapore di un assedio. Eleanor McCullen, querelante nella causa che portò alla sentenza McCullen vs. Coakle, testimoniò che nel suo picchettamento fuori dalla “buffer zone” aveva convinto personalmente più di ottanta donne a non interrompere la gravidanza.

Una scelta sofferta quella di abortire che nessuna donna compie con leggerezza, al contrario di quanto sono convinti gli attivisti antiaborto. “Una pesante decisione  che ogni anno compiono negli Usa un milione e 300 mila donne. Alcune di loro possono pentirsi, ma ciò che a me preme sapere è chi sono e di cosa hanno bisogno. Che succede loro economicamente, psicologicamente e che riflesso ha sugli altri bambini” dice Tracy Weitz, che all’università della California, a San Francisco, ha svolto per almeno un decennio ricerca sull’aborto, intervistata da Nina Martin, per il sito ProPublica, premio Pulitzer nel 2010 per il giornalismo investigativo[4].  L’estate scorsa uno degli studi da lei supervisionato ha persuaso la California a consentire a non-medici addestrati (infermieri, ostetriche, assistenti di dottori) ad eseguire con il metodo dell’aspirazione aborti entro il primo trimestre, una delle maggiori aperture all’aborto dopo che la Food and Drug Administration (FDA) approvò nel 2000 la pillola per abortire. Lo studio ha rilevato come non ci fosse differenza alcuna nelle percentuali di complicazioni negli aborti eseguiti dai non-dottori rispetto ai dottori. Percentuali peraltro molto basse.

Weitz ricorda che il governo federale proibisce qualsiasi finanziamento alla ricerca che abbia a che fare con l’aborto. “Non si ricevono fondi dai National Institutes of Health per studiare tecniche di aborto diciamo più sicure, ma nemmeno per capire quali sono i risvolti emotivi di chi vi si sottopone. La ricerca è finanziata oggi da organizzazioni filantropiche che hanno interesse ad affrontare questioni che vanno dall’assistenza all’aborto alla politica e alla cultura dell’aborto in America” dice Weitz, che è in procinto di lasciare il mondo della ricerca clinica per un incarico in una organizzazione di cui non ha voluto dire il nome. Negli ultimi dieci anni sono stati gli enti filantropici ad affrontare con la ricerca quesiti che vanno dalla salute riproduttiva a temi di carattere sociale (come l’ostacolo del costo dell’aborto per le donne delle classi meno abbienti) o di tipo psicologico (perché alcune donne rimandano l’aborto fino a quando scade il limite in cui la legge consente di farlo) e così via. “Il risvolto della medaglia è che la gente tende a essere sospettosa verso la ricerca finanziata da organizzazioni che hanno certe posizioni ideologiche” dice Weitz. “Se chi esegue aborti può temere per la propria vita, chi fa ricerca in questo ambito viene etichettato come poco attendibile e la sua reputazione accademica intaccata. Per questo noi ci teniamo a pubblicare su riviste in cui una peer-review passa sotto rigoroso scrutinio il nostro lavoro”. Oltre all’indagine che ha portato la California a consentire a non-medici di praticare aborti (lo studio ha coinvolto oltre 20 mila donne ed è uno dei ampi che siano mai stati fatti in Usa), la ricercatrice ha svolto un altro studio a lungo termine, il Turnaway study, con l’intento di verificare cosa succede quando una donna che decide di abortire non ci riesce, vuoi perché si presenta alla clinica troppo tardi vuoi perché viene respinta. Quali sono gli effetti del silenzio e del segreto che di solito avvolge questa scelta e quali le conseguenze delle disuguaglianze sociali.

“Avere un figlio richiede un grande investimento economico. E se non disponi delle risorse per diventare genitore, come aiutare?” si chiede Weitz. E in tempi di crisi economica il problema diventa ancor più pressante. Tra gli altri dati emersi dallo studio vi è quello sulla ecografia obbligatoria prima dell’aborto e quali sono i fattori che contribuiscono a far sentire più in colpa una donna. Spesso, sostiene la ricercatrice, l’ideologia politica prende il posto degli standard oggettivi della scienza, prevalicandoli nelle decisioni giuridiche. “A giudici che non hanno alcuna competenza scientifica viene chiesto di decidere su questioni che attengono alla scienza…Uno dei modi più inquietanti per screditare la ricerca scientifica è quello di creare una controversia. C’è un libro Merchants of Doubt, di Naomi Oreskes e Erik Conway, che lo illustra molto bene. Si parla del tabacco e dell’effetto serra, ma si applica anche all’aborto: insinuare il dubbio per produrre discredito[5].  Dubbi sui medici che praticano l’aborto (non sono medici veri) o sui ricercatori che studiano l’aborto (quanto c’è di ideologico)”. Ci si dimentica la solitudine in cui una donna è spesso lasciata a decidere se avere o non avere un figlio. “Se io posso aiutarla a scegliere, a darle un sostegno una volta che decide di abortire, allora ho raggiunto il mio scopo. Vorrei che chiunque desideri una famiglia possa farlo, e l’aborto è tra le strategie legittime per raggiungere questo scopo”.

Eppure il diritto alla libertà di aborto continua a essere un diritto assai “fragile” e sotto assedio anche in Europa. Il governo spagnolo sta facendo infatti retromarcia sui diritti delle donne. Se con il governo progressista di Luis Rodriguez Zapatero la Spagna era diventata una delle più all’avanguardia in Europa in fatto di regolamentazione dell’aborto, ora con il conservatore Mariano Rajoy rischia di diventare una delle più restrittive, ancor di più rispetto alle norme in vigore dal 1985 e superate nel 2010 dalla nuova legge voluta dal socialista Zapatero. Il quotidiano El Pais ha parlato – non a caso – di un “Regreso al pasado”, un ritorno al passato che sottolinea “l’inaccettabile sottomissione del governo ai settori più retrogradi della Chiesa cattolica”[6]. Oggi in Spagna, come in altri 20 paesi della Unione europea, le donne possono abortire liberamente fino alla 14sima settimana e in determinate circostanze fino alla 22sima.  Il nuovo progetto di legge, che porta il nome del ministro della giustizia, Alberto Ruiz-Gallardon, intende vietare l’aborto come libera decisione della donna e se verrà approvato dal Parlamento, dove il partito popolare di Rajoy ha un’ampia maggioranza, l’interruzione di gravidanza sarebbe consentita fino alla 14sima settimana solo nei casi di violenza sessuale e fino alla 22sima se è in pericolo la salute fisica e psichica della madre. In presenza di grave malformazione del feto, l’aborto è consentito solo se questa è incompatibile con la sua vita. Il diritto alla vita del nascituro prevarica quello della libertà della madre: un orientamento in linea con la legge sull’aborto in vigore in Argentina dove nel 2012 un tentativo di una depenalizzazione più ampia dell’interruzione di gravidanza naufragò. L’opposizione dell’allora arcivescovo di Buenos Aires e presidente della conferenza episcopale argentina fu vigorosissima e chiarissima.

Manifestazioni a sostegno delle donne spagnole si sono tenute davanti alle ambasciate e ai consolati di vari Paesi: in Italia a Roma, Milano, Firenze e numerose altre città. La carovana del  “tren de la liberdad”, partita idealmente dalla Spagna, attraverserà l’Europa, perché il  rischio che quanto accade oggi in Spagna possa avvenire anche in altri paesi è percepito da molti come immanente.

Gianna Milano, giornalista scientifico

Bibliografia

  1. Editorial Board. Abortion Rights:Uphold the Buffer Zones. Abortion Rights: A Good Ruling Stands. New York Times, 13.01.2014.
  2. Erick Eckholm. Access to abortion falling as States Pass Restrictional.  New York Times, 3.01.2014.
  3. Guttmacher Institute:   Abortion
  4. Nina Martin. Amid Abortion Debate, the Pursuit of Science.  ProPublica, 07.01.14
  5. Naomi Oreskes, Erik Conway. Merchants of doubt: How a Handful of Scientists Obscured the issues from Tobacco Smoking to Global Warming. 2011.
  6. Editorial. Regreso al Pasado.  El Pais, 21.12.2013.

 

 

 

Un commento

  1. Non capisco come si possa giudicare “legittimo” permettere a una donna di uccidere il proprio figlio. Piuttosto lo Stato dovrebbe farsi carico di tali situazioni o istituti di beneficenza potrebbero aiutarle invece di spendere soldi per ricerche omicide.

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