Il futuro delle cure primarie
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- 27 Aprile 2015
Gavino Maciocco
Il rinnovamento delle cure primarie, da molto tempo proposto e auspicato, procede in mezzo a mille difficoltà e con grande lentezza. Alla base c’è un deficit nella formazione medica. Una formazione che non va incontro ai bisogni dei pazienti e delle comunità, non promuove il lavoro di gruppo, si focalizza su problemi tecnici senza comprendere il contesto più ampio, si concentra sui singoli episodi e tralascia la continuità delle cure, predilige le cure ospedaliere a spese delle cure primarie. E in Italia abbiamo un problema in più.
“I nuovi bisogni della popolazione rendono sempre più importante che gli ospedali siano in grado di erogare assistenza di elevata qualità ai pazienti affetti da condizioni croniche multiple e complessi: per rispondere efficacemente a questi nuovi bisogni, i servizi socio-sanitari devono essere in grado di erogare assistenza e supporto non episodici, al fine di prevenire il deterioramento e l’aggravamento delle condizioni esistenti, e supportare in modo coordinato le molteplici esigenze delle persone. Attualmente, il sistema socio sanitario non è in grado di fare questo, e si presenta ai pazienti ed alle famiglie in modo frammentato e discontinuo”.
Tommaso Langiano nel suo post sull’ospedale del futuro, disegna i possibili, auspicabili cambiamenti dell’assistenza ospedaliera, che dovrà essere fortemente integrata con l’organizzazione delle cure primarie, anch’esse profondamente rinnovate.
Un rinnovamento, questo delle cure primarie, da molto tempo proposto e auspicato, ma che procede in mezzo a mille difficoltà e con grande lentezza. Un percorso in cui – a livello internazionale – si possono distinguere tre diverse fasi storiche:
- La nascita della medicina di famiglia come disciplina accademica (anni sessanta del secolo scorso).
- La Conferenza di Alma Ata e lo sviluppo della Primary Health Care (anni ottanta).
- L’innovazione delle cure primarie per migliorare la gestione delle malattie croniche, ponendo al centro I bisogni del paziente (anni duemila).
1. La nascita della medicina di famiglia
Nel 1961 sul New England Journal of Medicine compare un articolo “The Ecology of Medical Care”, di Kerr White e coll.[1] dove si sostiene che i tradizionali indicatori di sanità pubblica, quali i tassi di mortalità e morbilità, non descrivono adeguatamente il fabbisogno di assistenza di un sistema sanitario. Partendo da questa constatazione gli Autori studiarono un campione di popolazione nel Regno Unito e negli USA per evidenziare l’esperienza di malattia delle persone e i corrispondenti livelli di assistenza medica. I risultati in sintesi furono i seguenti: in un anno su 1000 persone, 720 si rivolgevano alle cure primarie, 100 venivano ricoverate in un ospedale generale, 10 in un ospedale universitario. Gli Autori rilevarono che la formazione universitaria non si faceva carico della vera esperienza di malattia dei pazienti, concludendo che maggiore attenzione andava rivolta alla “primary, continuing medical care”, rispetto alle attività ospedaliere e specialistiche. Negli USA, la nascita delle cure primarie come disciplina accademica, nell’accezione di Family Medicine, deve molto all’articolo di Kerr White. La Family Medicine nasce alla fine degli anni 60 in un periodo storico irripetibile della storia della sanità americana, quello dell’istituzione dei grandi programmi pubblici di copertura sanitaria (Medicare, a favore degli anziani, Medicaid a favore di alcune capegorie di poveri); nasce sotto la spinta di un gruppo di medici visionari convinti della necessità di contrapporre un modello bio-psico-sociale al paradigma dominante della medicina ultra-specialistica. I contenuti della nuova Medicina di famiglia americana furono il frutto del lavoro di tre commissioni, i cui prodotti sono noti come “Folson Report”[2], “Millis Report”[3] e “Willard Report”[4], tutti pubblicati nel 1966.
Una moderna Medicina di famiglia che, in accordo con tali elaborazioni, deve:
- Fornire a ogni paziente un medico personale e garantire che esso rappresenti il punto di entrata nel sistema sanitario.
- Erogare un set completo di servizi: valutativi, preventivi e clinici generali.
- Assicurare una continua responsabilità nei confronti del paziente, incluso il necessario coordinamento dell’assistenza al fine di garantire la continuità delle cure.
- Operare nei confronti degli individui avendo presenti i bisogni e le preoccupazioni della comunità.
- Fornire un’assistenza appropriata ai bisogni fisici, psicologici e sociali del paziente nel contesto della famiglia e della comunità.
Nello stesso periodo vengono istituite nel Regno Unito – prima a Edimburgo (1963), poi a Manchester (1972) – le prime cattedre di General Practice (l’equivalente british di Family Medicine).
2. Alma-Ata. Da Primary Medical Care a Primary Health Care
La Conferenza di Alma Ata del 1978 assegnò alla Primary Health Care il ruolo centrale del sistema sanitario nazionale, costituendo il primo elemento di un processo continuo di protezione sanitaria e sociale. Nei paesi industrializzati tale proposta fu considerata irrilevante. Vari fattori contribuirono a far archiviare nel Nord del mondo le conclusioni di Alma Ata: il contemporaneo forte sviluppo del settore ospedaliero, delle biotecnologie e dell’industria farmaceutica; la minore attrazione della medicina generalista rispetto a quella specialistica; il calo generale di attenzione e di tensione morale verso i valori di giustizia sociale ed equità.
Eppure non mancarono i tentativi di promuovere le ragioni della PHC, vedi l’intervento del medico finlandese Hunnu Vuori, responsabile del settore ricerca e sviluppo dell’OMS, – a nome del Direttore Generale H. Mahler – presentato nel 1986 al congresso del Wonca (l’organizzazione mondiale dei medici di famiglia)[5]. “E’ diventato dolorosamente chiaro, particolarmente nei paesi in via di sviluppo, che è impossibile garantire il diritto alla salute a ogni cittadino – un principio affermato nella costituzione di molti paesi di nuova indipendenza – attraverso una medicina altamente tecnologica. Anche i paesi industrializzati si trovano di fronte a un impasse. Nessun paese è ricco abbastanza per erogare a tutti i cittadini ogni cosa che la medicina moderna può offrire. E’ necessario trovare alternative che siano socialmente accettabili, costo-efficaci ed economicamente sostenibili. La soluzione a portata di mano è la PHC. Questa e l’unica strada per realizzare la giustizia sociale nei confronti delle malattie”.
H. Vuori, sostenendo che la PHC doveva essere considerata una strategia per organizzare l’assistenza sanitaria ed insieme la filosofia che avrebbe dovuto permearla, sottolineò l’importanza di un cambio di paradigma: il passaggio dalla Primary medical care alla Primary health care (Tabella 1).
Tabella 1. Dalla Primary medical care alla Primary health care

3. Patient-centered primary care
Morrison e Smith, in un editoriale del British Medical Journal del 2000, definirono la difficile situazione della medicina di famiglia: “hamster health care”, l’assistenza sanitaria del criceto. “In tutto il mondo i medici sono infelici perchè si sentono come criceti all’interno di una ruota. Devono correre sempre più veloci per rimanere fermi. Ma sistemi che dipendono da persone che devono correre sempre più velocemente non sono sostenibili. La risposta è che questi sistemi devono essere ridisegnati perché il risultato di una ruota che gira sempre più veloce non è solo la perdita della qualità delle cure, ma anche la riduzione della soddisfazione professionale e un aumento del burnout tra i medici”[6].
Nel novembre 2008, la rivista The New England Journal of Medicine, pubblicò una serie di articoli sulle prospettive delle cure primarie[7]. Lo spunto: la crisi delle cure primarie negli USA, le difficoltà di risposta ad un numero crescente di pazienti cronici, in tempi sempre più stretti, e con compensi inferiori agli specialisti. Al capezzale delle cure primarie i principali analisti americani dei sistemi sanitari, da Barbara Starfield della Johns Hopkins University di Baltimora a Thomas Bodenheimer della University of California, San Francisco, che lanciarono questo preciso messaggio: bisogna avere il coraggio di reinventare le cure primarie. “Nuove” cure primarie connotate da due principali caratteristiche essere:
- centrate sui pazienti
- basate su team multidisciplinari.
Il concetto di patient-centered primary care è diventato da tempo la fondamentale linea d’indirizzo per l’innovazione e il miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria[8,9]. Un concetto che include i seguenti corollari:
- facilità di accesso alle cure (tempestività della risposta, facilità di comunicazione con i professionisti, via telefono o e-mail, etc.),
- coinvolgimento del paziente nelle scelte e nella gestione delle cure (supporto all’auto-cura, counselling, facilità di accesso ai propri dati personali, etc.),
- pro-attività degli interventi e il passaggio da una medicina di attesa a una sanità d’iniziativa (focus sulla prevenzione, utilizzazione di registri di patologia, sistemi di programmazione delle visite e di allerta dei pazienti che facilitano il follow-up, etc.),
- il coordinamento delle cure (tra i diversi professionisti) e la continuità dell’assistenza (tra differenti livelli organizzativi, es, tra ospedale e territorio).
Per praticare cure primarie effettivamente centrate sul paziente è necessario modificare radicalmente il tradizionale assetto organizzativo basato – come sostiene T. Bodenheimer – sulla “tirannia” dei 12-15 minuti a visita (“The 15-minuts visit is not possible to do chronic, preventive, acute care, plus building relationship with patients, plus care coordination, all the things we have to do. We have to change that”) . Un medico può visitare 8 pazienti al giorno, come dovrebbe, solo se fa parte di un team multidisciplinare dove ruoli e compiti sono ripartiti tra diversi professionisti, secondo i principi del Chronic Care Model proposti da Ed Wagner[10,11].
Il deficit della formazione medica
Se le ragioni di una profonda innovazione delle cure primarie e della medicina di famiglia sono così forti, perché il cammino verso il necessario cambiamento è così lento e incerto? La risposta sta nel deficit della formazione medica, come ampiamente descritto nel post della Riisg: Ripensare la formazione medica.
Peraltro argomentazioni simili si ritrovano nelle conclusioni della Commissione che nel 2010 la rivista «The Lancet» decise di costituire, con lo scopo di analizzare lo stato della formazione dei professionisti sanitari nel mondo e di fornire raccomandazioni per il futuro. Education on health professionals for the 21st century: a global independent commission, questo il titolo dell’iniziativa che coinvolse venti esperti provenienti da ogni parte del mondo[12]. L’occasione era data da un anniversario: era trascorso un secolo da quando negli Usa era stato pubblicato il Flexner report, un documento che avrebbe rivoluzionato la formazione medica negli Stati uniti (e non solo) integrando il tradizionale curriculum delle scuole di medicina con il metodo scientifico. Si trattò di una riforma che consentì ai professionisti sanitari di allargare la loro conoscenza, aprendo le porte a una serie impressionante di scoperte scientifiche e di innovazioni tecnologiche, che contribuiranno – si legge – a raddoppiare la speranza di vita nel corso del ventesimo secolo. “Ma all’inizio del ventunesimo secolo – afferma la Commissione – le cose non stanno andando affatto bene. Clamorose diseguaglianze nella salute persistono sia all’interno dei paesi, che tra paesi, evidenziando il nostro fallimento collettivo nel distribuire in maniera equa gli straordinari progressi della medicina. Contemporaneamente ci troviamo di fronte a nuove sfide. Nuove infezioni, rischi ambientali e comportamentali, insieme alla rapida transizione demografica ed epidemiologica, minacciano la salute di tutti. In tutto il mondo i sistemi sanitari faticano a restare al passo e diventano sempre più complessi e costosi, richiedendo un impegno sempre maggiore agli operatori sanitari”. La formazione dei professionisti, in tutto il mondo, sembra aver ignorato tutto ciò: i programmi didattici delle università sono “frammentari, antiquati, statici che producono dei laureati poco attrezzati […] I problemi – continua il documento – sono sistemici: la formazione non va incontro ai bisogni dei pazienti e delle comunità; non promuove il lavoro di gruppo, e mantiene un’ingiusta stratificazione di genere; si focalizza su problemi tecnici senza comprendere il contesto più ampio, si concentra sui singoli episodi e tralascia la continuità delle cure; predilige le cure ospedaliere a spese delle cure primarie e la quantità piuttosto che la qualità, con scarso interesse verso le performance del sistema sanitario”.
L’Italia, va detto, ha un problema in più, che consiste nel non avere neppure il riconoscimento della medicina di famiglia e delle cure primarie come disciplina accademica. L’Italia è tra le poche nazioni industrializzate a trovarsi in questa condizione, con tutte le conseguenze negative del caso sia a livello under-graduate che post-graduate. Un tema su cui non si discute e che qui solo accenniamo per aprire la discussione.
- White K, et al. The Ecology of Medical Care. New England Journal of Medicine 1961.
- National Commission on Community Health Service. Health is a Community Affair. Cambridge. Mass: Harvard University Press; 1966:26.
- Citizens Commission on Graduate Medical Education. The Graduate Education of Physicians. Chicago. American Medical Association; 1966.
- Ad Hoc Committee on Education for Family Practice. Meeting the Challenge of Family Practice. Chicago. American Medical Association; 1966.
- Vuori H. Health for All, Primary Health Care and General Practitioners. Journal of the Royal College of General Practitioner, 1986, 36, 398-402.
- Morrison I, Smith R. Hamster health care: time to stop running faster and redesign health care. BMJ 2000; 321: 1541-42.
- Lee TH, et al. Redesigning Primary Care. NEJM 2008, 359:e29.
- The Advanced Medical Home. A Patient-Centered, Physician-Guided Model of Health Care. Policy Monograph of the American College of Physicians, 2006.
- Davis K, Schoenbaum SC, Audet AM. A 2020 vision of patient-centered primary care. J Gen Intern Med 2005, 20:953-957.
- Bodenheimer T, Wagner EH, Grumbach K. Improving primary care for patients with chronic illness. JAMA 2002; 288:1775-79.
- Bodenheimer T, Wagner EH, Grumbach K. Improving primary care for patients with chronic illness. The Chronic Care Model, Part 2, JAMA 2002; 288:1909-14.
- Frenk J. et al. Health professionals for a new century: transforming education to strengthen health systems in an interdipendent world. The Lancet 2010; 376 (9756): pp. 1923-58.
Il recente DM di riordino delle Specializzazioni (DIM 4 febbraio 2015) prevede nell’area medica la Specializzazione di Medicina di Comunità e delle Cure Primarie. In altre parole riconosce una Specializzazione dedicata al Sistema delle Cure Primarie, in ampio sviluppo in Europa ed in Italia
La Specializzazione è attivata in UNIMORE dal 2000 e in UNIPD dal 1998 e forma medici specialisti con competenze cliniche e gestionali nell’area delle Cure Primarie.
Sia in UNIMORE che in UNIPD vengono inseganti gli aspetti culturali, i metodi e gli strumenti della Primary Health Care del WHO.
Purtroppo fino ad ora la Specializzazione è stata volutamente identificata con la Specializzazione di Igiene e Sanità pubblica. Bloccata e ostacolata da lobbies accademiche e da lobbies sindacali della medicina generale, per puro e cieco conservatorismo.
Questa Specializzazione dovrebbe invece partire in tutte le Università, almeno 1 per Regione, così da formare medici competenti per curare e prendersi cura dei pazienti nella rete delle cure primarie, al bisogno integrata con l’Ospedale.
Questa Specializzazione dovrebbe poi diventare la Specializzazione dei MMG, attraverso sinergie fra Regioni e Università, ma ci sono forti opposizioni da parte delle lobbies sindacali della MG.
Così è l’Italia!!!
Per quanto riguarda UNIMORE e UNIPD abbiamo continuato a lottare per la sopravvivenza di una Specializzazione sicuramente innovativa e che non può mancare nel panorama culturale e assistenziale del SSN
Cari saluti
Angela Becchi
Ho una sola domanda per Angela: la specialità da te menzionata prevede un percorso dal MMG? Giusto per sapere se davvero ha una formazione sul campo…è vero, la teoria serve, ma è la pratica quella che poi i pazienti richiedono..:-)
Caro Matteo, i medici in formazione specialistica di Medicina di Comunità e Cure Primarie frequentano gli Studi dei MMG per circa 8 mesi e gli studi del PLS per 1 mese.
Se sei interessato ad approfondire l’argomento ti rimando al sito UNIMORE della Scuola di Specializzazione di Medicina di Comunità e Cure Primarie (sopra indicato)da me diretta in UNIMORE
E i medici di famiglia che esistono secondo te hanno bisogno dello specialista delle cure primarie? Ma davvero nessuno guarda l’esistente ma è una gara a trovare lavoro su altri.
Alla completa e chiara disamina della questione “futuro delle cure primarie” di Gavino, a cui rinnovo i miei complimenti, mi sentirei di aggiungere alcune osservazioni. Forse è il momento di riconoscere ad altre professionalità, oltre che al medico di famiglia, il ruolo che possono e devono rivestire nell’area della PHC. Mi riferisco come è facile intuire all’infermiere. L’esperienza dell’azienda sanitaria in cui ho lavorato da anni (Bassa Friulana) in tal senso può essere d’aiuto. In questo territorio è ormai consolidata l’esperienza dell’infermiere di comunità che è divenuto un interlocutore stabile (longitudinality) dei cittadini, in aggiunta (mai alternativa) al medico di famiglia. L’infermiere, anche nel corso dell’esecuzione delle proprie prestazioni, è un terminale dell’Azienda Sanitaria e quindi un nodo strategico della Rete d’Accesso (sistema PUA) (first contact). E’ altresì vettore di informazione/educazione/promozione utile allo sviluppo di empowerment dei cittadini e della comunità. potrebbe diventare in futuro uno dei principali agenti, in collaborazione con i medici di famiglia, delle gestione dei pazienti con malattie croniche. In buona sostanza è secondo me giunto il tempo di identificare i componenti del team multiprofessionale assegnando a ciascuno di essi la dignità di ruolo che meritano. Un ulteriore sviluppo possibile è quello della funzione di attivatore di comportamenti salutari (facilitatore di health community) svolgendo un ruolo di coaching nella comunità servita.
Integrando quanto sopra, c’è da sottolineare che la funzione di infermieristica di comunità si avolge in un contesto organizzato, che è, ovviamente, quello del distretto. Non ci può essere un offerta sistematica, sia a livello di case management che di disease management, secondo me, se non ad un livello organizzativo della PHC che può essere realizzato in una struttura organizzativa aziendale, coem è il distretto.
Caro Luciano, sono completamente d’accordo con te. La PHC si fonda da sempre su team multidisciplinari, a maggior ragione se l’ambito principale di gestione è rappresentato dalle malattie croniche: quindi mmg, infermieri, fisioterapisti, specialisti, etc. e non possono certamente mancare i medici di sanità pubblica….