Tra il medico e l’infermiera non mettere il comma
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- 20 Maggio 2015
Marcella Gostinelli e Andrea Vannucci
Il comma 566 della legge di stabilità, volendo ridefinire ruoli e competenze delle professioni sanitarie, ha suscitato un dibattito in cui sono venuti alla luce i peggiori istinti corporativi. Ne parlano un medico e un’infermiera, che si trovano d’accordo: Predefinire rischia di escludere tutto quello che s’impara lavorando e quanto si può cambiare lavorando. Non si tratta solo di più esperienza, anche di nuove e diverse esperienze. Predefinire ostacola ogni innovazione e non aiuta a porsi come dovremmo di fronte alla complessità del malato.
– Buongiorno!
– Ciao!
– Allora, tutto il mondo vuol definire chi siamo o mi sbaglio?
– Sembra proprio di sì. Ci metteranno addirittura nella legge di Stabilità! Lo chiamano comma 566 e dice… leggi qui “ ferme restando le competenze dei laureati in medicina e chirurgia in materia di atti complessi e specialistici di prevenzione, diagnosi, cura e terapia, con accordo tra Governo e Regioni, previa concertazione con le rappresentanze scientifiche, professionali e sindacali dei profili sanitari interessati, sono definiti i ruoli, le competenze, le relazioni professionali e le responsabilità individuali e di equipe su compiti, funzioni e obiettivi delle professioni sanitarie… ”
– Ho sentito che molti infermieri ne sono contenti e molti medici scontenti. Che succede? Gli infermieri hanno una crisi d’identità? E i medici… forse una crisi di maturità?
– Sì, una crisi d’identità che sembra una crisi di crescita, ma forse non lo è. Hai visto invece che reazione hanno avuto i medici? E che dire della proposta di legge sull’atto medico?
– Sinceramente a me non sembra utile normare i rispettivi ambiti professionali. Mi sembra quasi una regressione, una fuga dalla complessità del vivere e lavorare oggi. E poi non mi piace perché definire è sempre confinare. Non ne ho mai visto venire un arricchimento per nessuno.
– È vero, però connotare l’identità può servire. Fosse solo a far sapere chi sono e a sapere cosa devo fare. Però non credo si connoti l’identità definendo l’atto medico o un profilo infermieristico. La prospettiva utile a mio avviso è un’altra. Va evitato l’approccio che guarda ai ruoli professionali come un prodotto di una razionalità oggettiva, un insieme di compiti da eseguire in una logica ottimizzante. Quella che conta invece è la logica della situazione che è frutto di una razionalità contestuale. Il lavoro, così, l’unico modo utile di lavorare, non è un insieme di compiti strutturati oggettivamente, dell’uno o dell’altro professionista, ma viene contestualizzato entro situazioni e fenomeni.
– Sì, perché poi “predefinire” ti limita, come ti dicevo. Rischia di escludere tutto quello che s’impara lavorando e quanto si può cambiare lavorando. Non si tratta solo di più esperienza, anche di nuove e diverse esperienze. Predefinire ostacola ogni innovazione e non aiuta a porsi come dovremmo di fronte alla complessità del malato.
– Infatti, conoscere non è sempre definire. A me piacerebbe che si partisse dalla comprensione dei malati. Per farlo servono sopratutto organizzazioni aperte, poco strutturate, organizzate con i setting giusti che vengono attraversati in modo appropriato dai malati e dai team dei sanitari che li curano.
– Dobbiamo anche ricordarci, prima di ogni altra premura, di valorizzare le relazioni umane, lavorare in e per ”organizzazioni relazionali”.
– Che intendi?
– Primo, che la relazione non riguarda solo i rapporti pazienti – curanti, ma quelli tra tutte le persone che stanno o che hanno a che fare con una comunità lavorativa. La struttura sanitaria ha alcune specificità che non vanno viste come difficoltà e ostacoli, ma opportunità e ricchezza: l’autonomia medica, le forme di cooperazione, in genere contingenti e flessibili, modalità di relazioni più caratterizzate da lateralità che da linee gerarchiche.
– Prova a confinare tutto ciò in una legge, vedrai che deserto!
– Ah, se riuscissimo a far capire a chi legifera che “L’umana esperienza, intesa come cultura, e la cultura, intesa come esperienza”, come scrive Richardson, è il presupposto cognitivo ed emotivo per ricercare nuove competenze e imparare a gestire quella che sarebbe la più utile caratteristica di un organizzazione di servizio: un giusto grado di polimorfismo !
– Hai ragione, ma medici e infermieri dovrebbero essere abili nel muoversi in una contemporaneità di modelli di lavoro diversi e variegati, funzionali al malato, al processo e all’organizzazione. Senza solide relazioni quotidiane e riconoscimento reciproco sul campo non sarà possibile. Fra atto medico e profilo, generalismi e incertezze , la vedo davvero dura!
– Bisognerebbe che Ordini e Collegi si parlassero di più. Dopo tutto non sarebbe difficile. È la flessibilità nell’uso dei modelli che aiuterebbe a rendere l’intera organizzazione capace di rispondere ai fenomeni che via via si determinano, senza relegarli in rigidità mentali e di processo che penalizzano i risultati cui sia i malati sia i professionisti aspirano.
– Hai detto niente! Fondamentale per apprendere le necessità organizzative non predefinite è sapere con chiarezza chi siamo come persone e perché facciamo una “professione di servizio”.
– Sì, non potrai saperlo attraverso l’atto medico o il profilo. Le professioni come le nostre, di servizio appunto, richiedono a chi vuole esercitarle aver compreso che la diversità viene dalla molteplicità dell’esperienza relazionale e dall’ambiente nel quale operiamo. Tale diversità è inscritta nei nostri sistemi neuronali, è la nostra memoria implicita.
– Quindi, anche se definissimo l’atto medico o l’infermiere specialista, bisognerebbe onestamente riconoscere e affermare anche che esiste una naturale diversità degli operatori sanitari che deve essere gestita con la stessa determinazione e convinzione che si mette nel gestire l’essere malato e la sua complessità ontologica.
-Certamente. Ricordi cosa dice Tatlietal ? “ La gestione della diversità deve essere riconosciuta come un nuovo e importante processo aziendale, che ha come obiettivo la valorizzazione e l’utilizzo completo del contributo, unico, che ciascuno può portare per il raggiungimento degli obiettivi aziendali”. Il medico e l’infermiere, i molteplici professionisti che operano in campo sanitario, dal canto loro, dovrebbero imparare a liberarsi dai loro condizionamenti per accogliere ogni volta una nuova presenza ed essere di aiuto in un nuovo fenomeno, creando nuove forme organizzative, adeguate ad ogni occasione e a contesti variabili.
– Continuo a pensare che sia necessario imparare a essere fedeli alla nostra originarietà, ai fenomeni e riscoprire un’intenzione di cura libera da pregiudizi, retaggi culturali e incrostazioni intellettuali.
– Sì, ma non è facile come dirlo. Il medico tornerà a essere tale se ritroverà una coscienza nuova, non dico giacobina , ma nemmeno cosi silenziosa.
– E l’infermiere “sarà”, se saprà orientarsi, anche insieme al medico, verso azioni e conoscenze che derivano dalla dinamica delle interazioni.
– Credo che sia il caso di dire come Muyr Graig. Cambiamo le abitudini, i cambiamenti culturali poi seguiranno. Le leggi servono a poco.
– Dai, andiamo. Si è fatta l’ora di cominciare a lavorare. Pare che di là ci sia chi ha bisogno di noi.
Marcella Gostinelli, infermiera
Andrea Vannucci, medico
Se non vengono assunti obiettivi di salute misurabili (con opportuni indicatori di esito, di risultato e di processo) a livello di comunità, alla quale si applica un definito sistema di servizi socio-sanitari, ogni configurazione normativa del tipo “comma 566” rappresenta la logica di governare un toro prendendolo per la coda. Gli aspetti relazionali, tra professionisti e persone sono sicuramente i fattori determinanti fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi. E le relazioni non possono essere “normate” perché si costruiscono nei contesti specifici. Solo la valutazione continua degli esiti (sempre a livello di comunità), quindi dei risultati e dei processi e il conseguente aggiornamento dei professionisti e dei programmi operativi rappresenta una logica di governo del toro prendendolo per le corna. Se il sistema non è messo in “tensione” dall’attenzione al raggiungimento degli obiettivi di comunità le degenerazioni corporative (autoreferenziali) sono inevitabili e favoriscono sempre lo sviluppo disastroso del mercato della salute. Fare mercato della salute è in contraddizione radicale con l’esistenza di un servizio sanitario nazionale pubblico universale basato sulla tassazione progressiva, in quanto non sostenibile. Lo sviluppo del mercato della salute nel produrre più spesa determina inevitabilmente peggiori esiti di salute per tutte le stratificazioni sociali, dai “worst off” ai “better off”, anche in seguito all’esplosione delle patologie iatrogene, perché tutto quello che è inutile o inappropriato è sempre danno. Per mettere in tensione il sistema con la volontà di perseguire esiti di salute a livello di comunità ( a livello individuale, non essendo disponibile la prova controfattuale, si può accertare solo il livello di soddisfazione e gli errori banali di imperizia, di trascuratezza e di dolo, in cui gli aspetti relazionali sono decisivi) è fondamentale che tra tutti gli stakeholder al “tavolo” della valutazione abbia un ruolo determinante la comunità con la consapevolezza della “Public health literacy” come viene definita nell’articolo: Freedman DA, Bess KD, Tucker HA, Boyd DL, Tuchman AM, Wallston KA. Public health literacy defined. Am J Prev Med 2009 May; 36 (5): 446-51.
E’ inutile voler ammantare di risvolti pseudoscientifici la tendenza tutta politica di voler assoggettare professioni e saperi alla logica aziendalistica che sta facendo passare l’autoritarismo della logica dei tagli al sistema pubblico.”Non si può ricondurre la logica gestionale a una pura logica economica e finanziaria”.La qualità ha un significato ordinario ed uno molto più restrittivo di ordine puramente ragioneristico. (Vedi “Perché disobbedire in democrazia?” di Albert Ogien e Sandra Laugier, 2014