Come si diventa medici di famiglia

medicinaGeneraleGavino Maciocco

In Italia Medicina generale e Università non si sono mai parlati. L’Università ha così rinunciato alla conoscenza di una parte fondamentale della salute della popolazione e del sistema sanitario, la Medicina generale da parte sua ha rinunciato a confrontarsi con il livello accademico della ricerca e della didattica, preferendo rinchiudersi in un comodo, ma sterile, recinto autoreferenziale. È evidente che le responsabilità sono ben bilanciate, ma è del tutto inutile recriminare sul passato. Quel che è certo è che questo sistema non funziona e sta provocando enormi danni al servizio sanitario nazionale.


La nascita della Medicina di famiglia come disciplina accademica (Family medicine) avviene negli USA alla fine degli anni 60 del secolo scorso sotto la spinta di un gruppo di medici visionari convinti della necessità di contrapporre un modello bio-psico-sociale al paradigma dominante della medicina ultra-specialistica (vedi post Il futuro delle cure primarie).

Nello stesso periodo vengono istituite nel Regno Unito – prima a Edimburgo, poi a Manchester – le prime cattedre di General Practice (l’equivalente british di Family Medicine). Nel 1986 erano già stati istituiti 24 dipartimenti di General Practice, frutto della collaborazione e dell’integrazione tra Università e organizzazione dei medici di famiglia (General Practitioners, GPs), raggruppati in associazioni di 4-6 medici (Practice), con il supporto “politico” del Royal College of General Practitioner e con il supporto finanziario del National Health Service. In quell’anno viene pubblicato uno storico documento “The Mackenzie Report” che – come commenta il BMJ – “looks at the past, present, and future of academic general practice in Britain[1]” (vedi Risorse).

Un’integrazione e una collaborazione, quella tra Accademia e GPs tutt’altro che semplice e scontata, perché, come osserva il Rapporto, “Academic general practice belongs to two institutions – universities and general medical practice – which are very different in style. The universities are hierarchical organisations, whereas general practice is strongly egalitarian; universities emphasise research and theory, whereas general practice has evolved from experience and instinct”. L’Università portano in dote la capacità di organizzare l’attività didattica e di stimolare e produrre la ricerca, i GPs contribuiscono con la loro esperienza e la loro organizzazione assistenziale. Vengono selezionate le Practice “migliori” per lo svolgimento dei tirocini sia per gli studenti, che per gli specializzandi, così come vengono selezionati i GP che entreranno a far parte del Dipartimento di General practice, in qualità di docenti, inizialmente a tempo parziale potendo così continuare a mantenere un rapporto diretto con la practice di origine.

Il Rapporto indica anche quale deve essere la specificità concettuale della General practice:

“Problemi come la continuità delle cure, la individualità dei pazienti, le conseguenze delle malattie sulle famiglie, l’influenza dei fattori sociali sulla percezione della salute e della malattia, e il contributo di altre agenzie sanitarie e sociali all’assistenza del paziente fanno parte dell’insegnamento di altre materie accademiche. Tuttavia la General practice sembra essere la disciplina che meglio consente agli studenti di apprezzare il significato di questi concetti.”

Oggi dipartimenti di General practice sono presenti in tutte le facoltà di medicina, il più delle volte il termine General practice è associato a Primary Care, come nel caso dell’Università di Glasgow, dove nella home page del Department of General practice and Primary care si legge:

“Il nostro personale, sia clinico che non-clinico, è dedicato a portare avanti attività di ricerca e d’insegnamento che affrontano i problemi posti da bisogni assistenziali complessi e da diseguaglianze, particolarmente in relazione a malattie croniche e multimorbosità, a popolazioni emarginate, come i migranti e come le persone che vivono in aree particolarmente deprivate. Noi abbiamo una forte attenzione ad approcci proattivi e all’implementazione di interventi innovativi e insieme crediamo nel ruolo delle politiche per la salute nel plasmare le esperienze dei pazienti e dei professionisti. Noi portiamo avanti la ricerca interdisciplinare con altri colleghi dell’Università, con il personale del NHS, con organizzazioni e agenzie di volontariato, a livello locale, nazionale e internazionale. Il nostro scopo è quello di promuovere un’assistenza di qualità, centrata sulla persona, con un particolare focus sul ruolo delle cure primarie come veicolo per una assistenza migliore, più continua e più coordinata”.

Nel Regno Unito si diventa medici di famiglia dopo aver frequentato la specializzazione accademica in General practice, della durata di 5 anni, di cui i primi due (Foundation years) comuni a tutte le specializzazioni mediche e i tre successivi (Specialty registrar) suddivisi equamente in attività ospedaliere e in attività di medicina di famiglia e cure primarie.

Oggi “quasi” ovunque si diventa medici di famiglia attraverso una specializzazione accademica[2]. Wonca Europe (The European Society of General Practice/Family Medicine), l’organizzazione che raccoglie i medici di famiglia europei (e che fa parte dell’organizzazione mondiale), ha individuato le competenze fondamentali (core competencies) che le università devono fornire ai futuri medici di famiglia (Figura 1) – vedi Risorse:

  1. Primary care management. Saper lavorare all’interno di un team multiprofessionale. Svolgere attività di coordinamento e supervisione. Predisporre percorsi appropriati di cura per i propri pazienti. Essere in grado di monitorare e valutare la qualità e l’efficacia dell’attività assistenziale.
  2. Person-centred Care. Stabilire una relazione efficace con paziente, nel rispetto della sua autonomia. Promuovere l’empowerment del paziente. Valutare i bisogni del paziente e garantire la continuità dell’assistenza e il coordinamento dei vari interventi.
  3. Specific problem solving skills. Coinvolgere il paziente nelle decisioni. Intervenire tempestivamente, e con urgenza quando necessario. Gestire le situazioni in maniera proattiva. Fare un uso efficace e efficiente delle procedure diagnostiche e terapeutiche.
  4. Comprehensive approach. Gestire simultaneamente molteplici disturbi e patologie, sia acute che croniche. Promuovere la salute e il benessere utilizzando efficaci strategie di prevenzione. Coordinare promozione della salute, prevenzione, cura, assistenza, riabilitazione e palliazione.
  5. Community orientation. Conciliare i bisogni di salute degli individui e i bisogni della comunità in cui essi vivono per rendere equilibrato l’utilizzo delle risorse.
  6. Holistic approach. Utilizzare un approccio bio-psico-sociale tenendo conto delle dimensioni culturali e esistenziali del paziente.

A ciò vanno aggiunte tre caratteristiche che devono essere considerate essenziali nell’applicazione delle competenze fondamentali:

  1. Contextual aspects. La comprensione del contesto socio-economico e culturale in cui lavora il medico e in cui si trovano i suoi pazienti. La comprensione del sistema sanitario in cui opera il medico, le opportunità e i vincoli.
  2. Attitudinal aspects. Essere consapevole delle proprie capacità e dei propri valori, identificando gli aspetti etici della pratica clinica. Fare chiarezza sulla propria etica personale. Essere consapevole della reciproca interazione tra lavoro e vita privata e ricercare un buon equilibrio tra loro.
  3. Scientific aspects. Avere familiarità con i principi generali, i metodi, i concetti della ricerca scientifica e dei fondamentali di statistica (incidenza, prevalenza, valore predittivo, etc). Avere un accesso continuo alla lettura della letteratura medica. Sviluppare e mantenere un apprendimento continuo e un miglioramento della qualità della professione.

 

Figura 1.

Medicina Generale
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E in Italia?

In Italia riguardo alla formazione dei medici di famiglia siamo all’età della pietra. E’ come se il dibattito, le sperimentazioni avvenute, i risultati ottenuti negli ultimi 30-40 anni nel mondo – dagli USA al Regno Unito, dalla Norvegia alla Spagna, dall’Australia, al Canada, al Brasile – non avessero lasciato traccia nella realtà italiana. Come fossero avvenuti in un mondo estraneo e lontanissimo. Certamente l’Italia si è adeguata alla direttiva europea del 1986 che obbliga i paesi a istituire un tirocinio vocazionale per i futuri medici di medicina generale, e nel 1999 è stato pubblicato il curriculum della formazione specifica in medicina generale, basato prevalentemente su attività cliniche specialistiche, con un tirocinio di 6 mesi presso un ambulatorio di medicina generale e 4 mesi presso una struttura distrettuale[3]. Il tirocinio vocazionale c’è ma non è una specializzazione accademica, essendo gestito in proprio dai medici di medicina generale e non c’è neppure una formazione pre-laurea di medicina generale.

Medicina generale e Università non si sono mai parlati. L’Università ha così rinunciato alla conoscenza di una parte fondamentale della salute della popolazione e del sistema sanitario, la Medicina generale da parte sua ha rinunciato a confrontarsi con il livello accademico della ricerca e della didattica, preferendo rinchiudersi in un comodo, ma sterile, recinto autoreferenziale. E’ evidente che le responsabilità sono ben bilanciate, ma è del tutto inutile recriminare sul passato. Quel che è certo è che questo sistema non funziona e sta provocando enormi danni al servizio sanitario italiano che – soprattutto a causa dell’impasse nei processi di formazione dei professionisti – non riesce a costruire un sistema di cure primarie e di medicina generale su scala nazionale all’altezza dei bisogni dei cittadini.

Come uscire dall’impasse lo ha suggerito Maria Angela Becchi (vedi post L’Università nella formazione delle Cure Primarie e della Medicina Generale) di cui condivido la conclusione: “Si potrebbe iniziare con sperimentazioni regionali per formare nuove generazioni di mmg con specializzazione universitaria, basato su accordi fra i Ministeri della Università e della Salute, sentite le Regioni, con l’obiettivo di formare mmg con competenze cliniche per accedere alla convenzione, competenze di coordinamento e di governo clinico per garantire appropriatezza delle cure, lavorare in team ed attuare l’associazionismo medico, nonché con competenze di gestione per assumere ruoli di dirigenza nelle UO Complesse di Cure Primarie”.

Aggiungo che tale processo dovrebbe vedere il pieno coinvolgimento della Medicina generale, dei colleghi che sono impegnati a vario titolo nelle attività di formazione, che dovrebbero rappresentare i partner fondamentali nelle attività didattiche accademiche e di tutoraggio nei tirocini sul campo. È la stessa sfida a cui si aprì con successo la General practice britannica negli anni ottanta. Oggi sono innumerevoli i GPs che sono diventati lecturer, senior lecturer, professori e direttori di Dipartimento. Perché no, anche in Italia?

Risorse

  1. Howie GR, Hannay DR, Stevenson SK. The Mackenzie report: General practice in the medical schools of the United Kingdom-1986 [PDF: 3 Mb]. BMJ 1986; 292:1567-71
  2. European Academy of Teachers in General Practice (Network within WONCA Europe). The european definition of General Practice/Family Medicine short version. EURACT, 2005 [PDF: 120 Kb]

Bibliografia

  1. Howie GR, Hannay DR, Stevenson SK. The Mackenzie report: General practice in the medical schools of the United Kingdom-1986. BMJ 1986; 292:1567-71
  2. Maciocco G, Passerini GL, Stefanini A. La medicina generale in Europa, in Geddes M. Rapporto sulla salute in Europa. EDIESSE, 1995. Pp. 137-174
  3. Decreto Legislativo 17 agosto 1999, n. 368.

2 commenti

  1. Buon giorno Dr. Maciocco, sono uno psicologo umbro di 59 anni.
    L’articolo è ben impostato e di avvincente lettura come sempre quando si fa riferimento a Salute Internazionale. Tuttavia -sulla base di 18 mesi di lavoro tra il 2009 e il 2011 nel SSN inglese come responsabile di un piccolo programma di prevenzione/educazione alla salute in persone adulte sovrappeso, vorrei dire che anche in UK non sono tutte rose e fiori quando si va direttamente a toccare con mano il corporativismo e l’arroganza di una parte molto cospicua dei medici di medicina generale, soprattutto in aree un po’ “fuori mano” come quella in cui ho operato in East Anglia. Al di là dell’ironia, forse si potrebbe provare a creare un gruppo di lavoro misto a livello europeo in cui esperienze avanzate sotto il profilo organizzativo e legislativo-formale come quella inglese (ma abbastanza “povere” sotto il profilo del rapporto interpersonale medico-paziente od in quello tra colleghi di aree diverse, per loro stessa ammissione) vengano “umanizzate” se così si può dire, attraverso l’integrazione con modelli relazionali interpersonali significativi come quello della medicina di base italiana, che ho potuto imparare a conoscere (e ad apprezzare grandemente) nel corso di un’attività trentennale di psicologo clinico militante “di base” come mi piace definirmi, nonostante abbia operato quasi sempre in regime di libera-professione.
    Grazie per l’attenzione e un saluto un po’ accaldato da Maui dove sono in ferie cona la famiglia tramite un sistema consolidato di scambi di case tra privati.
    Fabio Arditi, Perugia

  2. Caro Gavino,
    due osservazioni a proposito del tuo quanto mai necessario e ben focalizzato intervento sulla formazione per la medicina generale.
    (1) Comincio con una citazione che complementa la tua analisi : ‘Il problema della formazione per la medicina di base , ed in particolare del medico di base, e’ in Italia debolmente riconosciuto e poco o punto impostato in termini di possibili soluzioni concrete che non siano i meritori ma completamente insufficienti pannicelli caldi di qualche breve corso di aggiornamento.Mentre un numero largo e crescent di paesi europei ed extra-europei esistono e si sviluppano insegnamenti formali, universitari e soprattutto post-universitari, e opportunita’ di apprendimento pratico (‘on the job’) della medicina di base , il concetto che sembra dominare in Italia e’ quello secondo cui la formazione universitaria attuale, corredata da alcuni mesi di pratica ospedaliera, e’ piu’ o meno quanto basta al medico generico. E’ anche sottointeso che i medici piu’ motivati professionalmente resteranno comunque in ospedale (o nelle cliniche universitarie) o diverranno degli specialisti destinati a praticare la medicina migliore, cioe’ quell ache ha a che fare con i casi piu’ complessi dal punto di vista delle possibilita’ di indagine morfo- e fisio-patologica. Questo stato di cose si presta a due commenti . Primo , che la medicina di base sia semplicemente una medicina piu’ facile e di secondo ordine rispetto a quella specialistica esprime una visione rudimentale ed antiquata della realta’ epidemiologica e sanitaria , incapace di ricercare quali sono le caratteristiche scientifiche e tecniche richieste oggi per un esercizio efficace ed efficiente della medicina di base , intesa come un livello di un sistema integrato a piu’livelli e non come uno scalo di smistamento di malati e pratiche burocratiche. In secondo luogo se corrisponde a verita’ che la massima concentrazione di medici preparati ed aggiornati si riscontra nella medicina specialistica, in particolare ospedaliera, e’ anche vero che questo e’ il risultato di una situazione circolare che si autoperpetua e che puo’ solo interrompersi quando la medicina di base venga a pieno titolo riconosciuta come una branca medica ben individuata (e non come il residuo che resta una volta tolte le specialita’) richiedente cognizioni dottrinali e pratiche specifiche, acquisibili con una formazione anch’essa specifica e prolungata nel tempo. Le modalita’ di questa formazione e’ urgente discutere e delineare tenendo soprattutto presente che la strada da percorrere,con uno sforzo di lunga lena, e’ quella che mira a suscitare e creare tra i medici di base di base gli insegnanti cui affidare la parte principale della formazione.In caso contrario di ripeterebbe ancora una volta la situazione per cui una materia finisce nelle mani di chi ne ha scarsa o nessuna esperienza diretta’. Chiedo scusa perche’ si tratta di una auto-citazione il cui interesse essenziale e’ la data : 1979, trentasei anni fa !
    [1]. Da allora, al tempo dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale(1978) largamente concepito con la medicina di base come suo fondamento, cosa e’ cambiato ? Sicuramente il concetto, gia’ di per se’ discutibile, che la medicina piu’ complessa (e quindi piu’ intellettualmente ‘challenging’ e attraente professionalmente) sia quella specialistica ‘avanzata’ e’ divenuto da quegli anni a oggi sempre meno fondato. Con l’allungamento della vita la complessita’ a livello clinico, inclusa la modulazione individuale dei trattamenti, delle polipatologie nelle persone della terza e quarta eta’ non e’ inferiore a quella di gran parte delle specialita’. E per la formazione ? A parte
    iniziative come quelle della Societa’Italiana di Medicina Generale un programma accademico organico che ponga la formazione in Medicina Generale sullo stesso piano, con le stesse esigenze e adeguati investimenti didattici, delle altre specialta’ resta di fatto ancora ‘dietro l’angolo’ (di un metro o di un chilometro ?).
    (2) Durante questi quasi quaranta anni il SSN e’ evoluto, e’ stato riformato a piu’ riprese e con orientamenti diversi. Nel complesso ha funzionato onorevolmente e per quanto opinabili siano i criteri delle classifiche internazionali e’ positivo il fatto che vi figuri nella pattuglia dei migliori. Nel momento dei tagli alle risorse del SSN la preoccupazione e la domanda se il SSN potra’ mantenere lo stesso livello di funzionamento e di risultati ripropongono la questione del ruolo della Medicina Generale e quindi della relativa formazione.Dopo tutto durante circa quaranta anni il SSN ha svolto complessivamente in modo corretto le sue funzioni anche senza l’esistenza di un programmo organico di formazione dei medici di medicina generale : e’ pensabile (anche se non necessariamente condivisibile) che tale tipo di formazione sia un elemento di scarsa influenza e che potra’ continuare a essere cosi’ anche in futuro. A meno che……A meno che una parte non marginale delle funzioni finora svolte in ambito ospedaliero vengano trasferite ad una medicina di territorio sufficientemente sostenuta sul piano delle risorse, nel qual caso la formazione necessaria al medico generico (e piu’ in generale agli operatori sanitari del territorio) diviene un elemento sicuramente influente e non piu’ eludibile. Questo trasferimento di funzioni appare a molti (me incluso) come il fattore indispensabile e probabilmente il solo capace di garantire la sostenibilita’ del SSN nel medio e lungo periodo : cio’ che mette in luce un serio problema di ‘scala di tempo’. Articolare un trasferimento di funzioni avendo formato almeno dei nuclei di personale appropriatamente collaudato si misura alla scala delle decadi piu’ che dei quinquenni : se non si comincia domani mattina si rischia di arrivare quando il SSN, quale oggi lo conosciamo (universale, egualirario, solidaristico) sara’ gia’ stato deformato dalla morsa delle ondate successive di misure dettate unicamente o prioritariamente in chiave economica.

    [1] Saracci R.Introduzione al convegno ‘Il medico pratico e l’epidemiologia delle malattie cronico-degenerative’ (San Marino, 6-7 Aprile 1979). Milano : Centro G.Zambon, 1979.

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