Il conflitto tra razionalità e umanità in Medicina

medico-pazienteAndrea Lopes Pegna

“I medici devono ascoltare e vedere i loro pazienti nella completezza della loro umanità allo scopo di diminuire le loro paure, di dare spazio alla speranza (anche se limitata), di spiegare i sintomi e le diagnosi in un linguaggio adatto al particolare paziente, per testimoniargli coraggio e resistenza e per accompagnarlo nella sofferenza”.


L’ascolto del malato

“A me spettava il compito di dare le diagnosi e sapevo già quanto fosse importante la chiarezza. Ora, da paziente, ne ho una consapevolezza ancora più profonda”, così ha scritto Maria Silvia Sfondrini, radiologa, responsabile dell’Unità di Senologia Diagnostica della Mangiagalli di Milano, da due anni malata di leucemia mieloide acuta che conclude “Spero di tornare a fare il medico, di saltare di nuovo dall’altra parte della barricata, e portarmi quanto ho imparato”[1]. Alla stessa conclusione di affrontare in modo diverso la relazione con l’ammalato come se fossero dall’altra parte della barricata sono arrivati anche altri medici proprio perché hanno superato una grave malattia. Ricordo tra i più noti l’oncologo Gianni Bonadonna, il cardiochirurgo Sandro Bartoccini e il chirurgo toracico Francesco Sartori, autori del famoso libro Dall’Altra Parte[2], che, grazie alla loro malattia, hanno capito che non è sufficiente per l’ammalato una medicina anche se ad alto livello come è stata la loro, che segua correttamente le linee guida; è indispensabile instaurare una relazione di ascolto e di empatia con i loro ammalati. Sono passati ormai quasi quindici anni dalla pubblicazione dello studio di W. Langewitz[3] eseguito su 331 pazienti ambulatoriali che stabiliva che il tempo medio che veniva loro concesso di parlare senza essere interrotti era di appena 92 secondi e che il 78% dei pazienti completava quanto aveva da dire in soli due minuti (Figura 1). Purtroppo questo scenario non è migliorato, se non addirittura peggiorato, negli anni e si è così sentito l’esigenza di rinforzare l’importanza dell’ascolto con la Carta dell’ascolto e della partecipazione del paziente[4], documento programmatico presentato al Senato della Repubblica, che ha visto uniti Istituzioni, Comunità Scientifica e Associazioni Pazienti e che ribadisce la necessità di integrare la Medicina Basata sulle Evidenze con la Medicina Narrativa, che afferma appunto quanto sia indispensabile la dimensione dell’ascolto nell’ambito della relazione medico-paziente.

Figura 1. Tempi di ascolto del medico

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Fonte: [3]

“I medici devono ascoltare e vedere i loro pazienti nella completezza della loro umanità allo scopo di diminuire le loro paure, di dare spazio alla speranza (anche se limitata), di spiegare i sintomi e le diagnosi in un linguaggio adatto al particolare paziente, per testimoniargli coraggio e resistenza e per accompagnarlo nella sofferenza”. Con queste parole la Iona Heath, che ha presieduto dal 2009 al 2012 l’Associazione dei Medici di Medicina Generale del Regno Unito (Royal College of General Practitioners), introduce e incentra il suo recente saggio del BMJHow medicine has exploited rationality at the expense of humanity[5], che sottolinea come la medicina abbia sempre attinto alla razionalità a spese dell’umanità. Nessuna evidenza biomedica aiuta in questo importante ruolo nell’ascolto da parte del medico; si viene così si creare una frattura nel momento della visita col malato tra la medicina delle evidenze priva di errori e il ruolo considerevole dell’umanità. È compito dei medici quello di colmare questa frattura che esiste in fondo tra la malattia vista nella sua oggettività (in inglese disease) e della sua soggettività come persona ammalata (in inglese illness); A. Kleinman scrive a questo proposito “i medici sono posti nell’interfaccia tra la cultura della scienza e la cultura della laicità”[6].

Le altre fratture

Heath prende poi in esame tutte le altre fratture che si possono presentare nel colloquio tra l’ammalato e il medico e il ruolo di quest’ultimo è considerato fondamentale per creare dei ponti per superare queste separazioni (Tabella 1).

Tabella 1. Gli aspetti del colloquio tra medico e paziente

I due lati del colloquio
•        Malattia oggettiva (Disease) contro malattia soggettiva (Illness)
•        Obiettività contro Soggettività
•        Tecnico contro esistenziale
•        Popolazione contro individuo
•        Utilitarismo contro deontologia
•        Normativo contro descrittivo
•        La mappa contro il territorio
•        I numeri contro le parole
•        Quantitativo contro qualitativo
•        Razionalità contro emozione
•        Scienza contro poesia

Fonte: [5]

Così avviene per la distinzione tra il corpo visto come oggetto e vissuto come soggetto; si può così determinare una nuova frattura che tenta la medicina nell’offrire facili soluzioni tecniche per scontri esistenziali insolubili come l’invecchiamento, la morte, la perdita.

Le politiche sanitarie in generale e la medicina basata sulle evidenze in particolare, si basano sul principio dell’utilitarismo (cercare di realizzare il più grande beneficio per il numero maggiore di persone) e dell’egualitarismo (riconoscere uguali diritti di salute a tutti all’interno della società). Il compito del medico, primariamente deontologico, è quello però di impegnarsi per le necessità e per i valori del singolo paziente. Senza questo principio del medico, i pazienti non potranno instaurare un legame col loro curante perché incapaci di avere fiducia in lui; come conseguenza di questo si avrà però anche minore efficienza della sanità a livello sociale. Tra questi due aspetti della salute, salute della società e salute dell’individuo, si viene così a creare una nuova frattura; a livello societario i nostri concetti di salute sono visti nel loro aspetto generale e quindi sono grossolani, riduttivi e normativi, mentre a livello del singolo ammalato il medico ha necessità di porre attenzione al dettaglio e alla descrizione del particolare.

Heath sottolinea poi che tutti i medici conoscono bene quelle che sono le cause di sofferenza che incontrano nella loro professione (tra queste la morte o la sofferenza di una persona cara, la perdita della vita lavorativa e la perdita delle forze con conseguente impossibilità a fare, l’isolamento, la solitudine, la perdita della memoria, la paura continua e la perdita di speranza, l’agonia fisica); questi tipi di sofferenza sono però largamente assenti nella mappa della scienza biomedica. Possiamo superare questo tipo di frattura solo con l’aiuto di diversi ambiti di conoscenza e comprensione (etnografia, biografia, storia, psicoterapia) che, come dice ancora Kleinman[6], “ci consentono di capire, al di là dei semplici suoni del dolore del corpo e dei sintomi psichiatrici, l’interno complesso linguaggio del dolore, della disperazione, della sofferenza morale (e anche vittoria) di una vita nella malattia”.

Altra frattura è quella che esiste tra i numeri che hanno bellezza seduttiva e purezza, che suggerisce solidità e certezza, e le parole, che sono infinitamente malleabili e adattabili, ma che possono comunicare molto di più. A. R. Feinstein[7] ricorda a questo proposito che “la maggior parte della ricerca rivolta alla cura del paziente è stata più matematica che clinica”. Abbiamo invece necessità delle parole per conoscere e per rispondere alle emozioni, che sono egualmente importanti quando ci si prende cura del paziente. Questo è il motivo per cui i medici necessitano sempre di conoscenze che scaturiscono da ricerche non solo quantitative ma anche qualitative e che quindi affrontino entrambi gli aspetti.

H. Auden[8] ha scritto molti anni fa “la poesia non si preoccupa di indicare alle persone cosa fare, ma di aumentare la loro conoscenza tra il bene e il male… solo portandoci al punto dove ci è possibile fare una scelta morale razionale”. Questo Autore offre così un altro ponte per colmare la frattura esistente tra la scienza e la poesia, che rappresenta però anche una difesa contro la maggior parte di coloro che vogliono dire al paziente e ai professionisti cosa devono fare. Le poesie ci chiedono di pensare e molti di noi, quando siamo malati, vogliamo proprio un medico che sia abituato a pensare. Health afferma che vorrebbe vedere un giorno in cui i medici, invece di offrire linee guida, diano semplicemente il sommario delle evidenze, con chiare indicazioni e limiti, parlando anche delle incertezze e facendo sempre conoscere i possibili pericoli. Questo incoraggia i clinici a pensare, senza dire loro cosa devono fare.

Health conclude dicendo che oggi la medicina basata sulle evidenze è utilizzata per indirizzare decisioni di qualità clinica, ma solleva dubbi in modo insufficiente proprio perché questi vengono ritenuti futili. Non di meno tali mezzi unidimensionali di valutazione vanno considerati dannosi perché affrontano solo il punto di vista normativo e oggettivo di ciò che significa la salute e non ciò che dovrebbero essere la vita dell’uomo e la sua assistenza sanitaria. Abbiamo necessità di una sanità che sia a più dimensioni, con bilanciamento e con più dubbi e solo allora i nostri colloqui con l’ammalato saranno aderenti alla realtà.

Nella mia pratica quotidiana di specialista d’organo mi capita spesso che ritorni a parlare da me un ammalato di cancro, dopo che la malattia è stata diagnosticata con un percorso che non ho solo condiviso ma anche vissuto insieme a lui, e al quale ho comunicato per primo la diagnosi, cercando di parlare anche delle sue paure e delle sue prospettive future e che ho infine affidato a un collega per le necessarie cure specialistiche. Ritorna però da me magari solo per parlare di come si sente più che per farmi vedere e valutare insieme i risultati della terapia, spesso dicendomi che ha avuto difficoltà a parlare con l’oncologo che può anche cambiare di persona ai vari controlli. Sicuramente nel nostro Sistema Sanitario esistono quotidiane difficoltà oggettive per potere instaurare un rapporto di relazione medico-paziente che privilegi l’ascolto, ma finché questi ammalati continueranno a tornare da me evidentemente qualcosa non va. La qualità della relazione tra medico e paziente non è mai stata valutata come dovrebbe ed è sempre stata considerata quale risultato di una iniziativa del singolo medico. D’altro lato l’università non ha quasi mai considerato la comunicazione tra il medico e il paziente argomento di insegnamento ritenendo che la corretta relazione scaturisca solo dalla pratica medica. Il saggio di Iona Heath afferma invece l’importanza per l’ammalato di avere una relazione col medico che privilegi la più ampia comunicazione che possa essergli veramente di aiuto e che possa essere il cardine di una sanità che si basi non solo sulle scelte di politica sanitaria, sulle linee guida, sui percorsi diagnostico terapeutico-assistenziali, e anche sulla medicina basata sulle evidenze in ambito clinico, ma soprattutto sulle esigenze del singolo soggetto che possono essere affrontate solo se chi si prende cura di lui gli è veramente vicino.

Andrea Lopes Pegna, Pneumologo e bioeticista

Bibliografia

  1. Gabaglio L, Moriconi T. Dottore, ascoltami se capisco mi curo meglio. La Repubblica, 27.10.2016
  2. Bartoccini S, Bonadonna G, Sartori F. Dall’altra parte. Tre grandi medici raccontano la loro malattia. Ed. Biblioteca Universale Rizzoli, 2006
  3. Langewitz W, Denz M, Keller A, et al. Spontaneous talking time at start of consultation in outpatient clinic: cohort study. BMJ 2002;325(7366):682-3
  4. Carta dell’ascolto e della partecipazione del paziente
  5. Heath I. How medicine has exploited rationality at the expense of humanity: an essay by Iona  Heath. BMJ 2016;355:i5705
  6. Kleinman A. The illness narratives: suffering, healing and the human condition. Basic Books, 1988.
  7. Feinstein AR. “Clinical judgment” revisited: the distraction of quantitative models. An Intern Med 1994; 120:799-805
  8. Auden WH, Garrett J. The poet’s tongue. G Bell & Sons, 1938.

 

 

 

 

 

 

6 commenti

  1. Ottimo articolo.
    Quello che mi viene spontaneo chiedere all’autore è come vede il rapporto della medicina basata sulle evidenze rispetto alle cosiddette medicine alternative. Personalmente credo che le medicine alternative trovino oggi molto spazio in quanto pongono un forte accento sulla dimensione individuale e soggettiva della malattia, in cui la persona malata si sente presa in cura o non solo sbattuta fra una infinità di visite multispecialistiche e attese agli sportelli.

    1. penso che sia proprio così; sono convinto che vivere con empatia i problemi dell’ammalato svolga già di per sé il suo ruolo terapeutico. Vivere anche una malattia seria da soli è molto deprimente, viverla insieme a chi ti aiuta a risolvere i problemi o ti aiuta a sdrammatizzarne altri sia di grande aiuto; questo però richiede disponibilità anche di tempo perché le paure del malato non hanno orario né giorno della settimana. Come esempio io adotto, quando posso, il metodo di agire di iniziativa; prima che l’ammalato mi cerchi per darmi una risposta, spesso sono io a cercarlo per primo, magari cercando di avere prima di lui la risposta di una Tc ad esempio. credo che questo dovrebbe essere insegnato insieme alle necessarie informazioni scientifiche, che, necessariamente, devono essere sempre aggiornate, altrimenti perdi subito della tua credibilità, a presto Andrea

  2. Condivido in pieno! E’ dunque necessario un grande impegno culturale per ridefinire i concetti di malattia e di salute ed il ruolo che la persona ha, o dovrebbe avere, nelle decisioni sulle scelte di cura che la riguardano direttamente. Tutto questo assume rilevanza particolare e crescente nell’ambito delle malattie croniche, la cui incidenza e prevalenza stanno raggiungendo livelli impensabili anche soltanto pochi anni fa. A queste non possiamo continuare a rispondere con modelli tarati sulle malattie acute, con interventi sempre più tecnologici e costosi, non solo economicamente, la cui utilità è sempre più marginale. Si creano così le tante fratture elencate da Iona Heath, delle quali una, quella fra numeri e parole, trova un preciso riscontro in Einstein: “Non tutto ciò che può essere contato conta, e non tutto ciò che conta può essere contato”.

  3. Condividiamo in pieno questa analisi presso il mio Istituto che si occupa di malattie oncologiche sta nel nordest. Da anni lavoriamo, per fare in modo che poesia e scienza si parlino utilizzando aspetti delle discipline umanistiche per migliorare la medicina. Per cercare di istituzionalizzare questo, è stato anche sviluppato sviluppato un progetto multicentrico volto ad aumentare le competenze informative e comunicative dei pazienti tramite il loro coinvolgimento nelle attività informativo-comunicative e di organizzazione dei servizi loro destinati. Dalla partecipazione dei pazienti, la necessità di lavorare sulle competenze relazionali degli operatori è emersa ampiamente. E’stato sviluppato un programma di formazione continua degli operatori che utilizza ampiamente le narrazioni (modello Charon) come spunto per aumentare la capacità di riflessione, le competenze relazionali e le capacità empatiche. Un concorso artistico letterario per opere inedite rivolto a pazienti, operatori e caregivers, è stato attivato e ora siamo alla 5.a edizione. Parallelamente, in un Istituto fondamentalmente Evidence Based, abbiamo fatto formazione alla ricerca qualitativa per meglio apprendere dai racconti ciò che i numeri non dicono. La nostra lezione appresa è che EBM e narrazioni devono andare a braccetto sempre perchè i due approcci da soli sono monchi. Ma abbiamo anche appreso che, per essere efficaci con chi è EBM inside ed è diffidente nei confronti di ciò che sembra essere “non provato”, bisogna far emergere i limiti dalle cose – approccio “verba rerum”-come la Heath ha magistralmente dimostrato.

  4. Carissimi è così vero e fondamentale ciò che è scritto che anche in Terapia Intensiva Neonatale l’ascolto e l’accoglienza del nucleo familiare ci sostiene nel miglioramento delle Cure. La Care in Neonatologia si basa sulla Famiglia ed il “prendersi cura” anche del piccolo ed indifeso neonato passa attraverso l’ascolto dei suoi bisogni ( anche i neonati ci parlano ma con un linguaggio che a volte non riusciamo a capire ed interpretare perché troppo impegnati in azioni mediche o perché persi nelle nostre attività accessorie) ed attraverso l’ascolto dei bisogni dei suoi cari. Essere empatici non vuol dire non essere sanitari anzi non esserlo vuol dire che ci releghiamo nella tecnica per non essere coinvolti emotivamente, forse abbiamo paura ed allora ascoltando il nostro Soggetto di Cura possiamo trasferire in modo bidirezionale l’Energia e l’Amore che ci serve per continuare in una vita piena di Energia e Positività nonostante la Malattia. Anche questa è Equità!

  5. Condivido pienamente quanto è detto nell’articolo. L’analisi di Iona Healt è profondamente vera e l’articolo che ne deriva assolutamente esaustivo. Concordo pienamente nell’affermazione “che oggi la medicina basata sulle evidenze è utilizzata per indirizzare decisioni di qualità clinica, ma solleva dubbi in modo insufficiente proprio perché questi vengono ritenuti futili.”
    Forse dovremmo provarci a rendere utili valutazioni, pensieri, opinioni di chi sta male.
    Marilena Bongiovanni
    Associazione ANGOLO

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