Merger Mania.  L’ossessione degli accorpamenti delle Asl

Marco Mariani, Anna Acampora, Gianfranco Damiani

Le evidenze empiriche di beneficio nella performance ed economicità dovute agli accorpamenti sono scarse e l’incremento della dimensione organizzativa produce una maggiore “distanza” tra vertice strategico e linee operative con conseguente aumento di costi di integrazione legati alla necessaria espansione delle funzioni di middle management.


I processi di accorpamento di aziende sanitarie, documentati in letteratura, sono partiti negli anni ‘90 negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Facendo un breve excursus storico, fu il governo laburista di T. Blair (1997-2006) a sostenere un programma radicale di chiusura di strutture sanitarie determinando il loro accorpamento. I processi di accorpamento hanno così portato negli anni ad una modifica radicale delle strutture dell’intero Sistema Sanitario Inglese (NHS)[1]. Negli Stati Uniti il cambiamento di metodo di pagamento del programma Medicare (Prospective Payment System del 1983, vedi introduzione dei DRGs) fu il principale stimolo all’accorpamento di aziende ospedaliere di pari passo alla crescita della Managed Care[2] Anche altri Paesi, come quelli del Nord Europa, Germania, Paesi Bassi, Canada, hanno percorso o stanno procedendo nella stessa direzione, quella che è stata definita mania di accorpamenti o “merger mania”[1, 3, 4].

Lo scenario italiano non è affatto dissimile dagli altri Paesi. Si è passati da un totale di 659 USL nel 1992 a 180 ASL nel 2005 e infine, nel 2017 ne sono previste 104, di cui due cosiddette Aziende Zero – una in Veneto e una in Liguria. In totale le ASL si sono ridotte del 40% dal 2005 al 2017. Andamento simile per quanto concerne i Distretti, che si sono ridotti del 33% dal 2005 al 2017; erano 977 nel 1999, 835 nel 2005 e nel 2017 ne sono previsti 562. Anche gli IRCCS sono diminuiti drasticamente nel corso degli anni: dal 2011 al 2017 sono passati da 82 a 19, mentre le Aziende Ospedaliere e le Aziende Ospedaliere Universitarie, non sono variate complessivamente in maniera consistente dall’anno 2011-2017, passando da 82 a 80 [5-7].

Le principali assunzioni, individuate in letteratura scientifica, che spingono a favorire il processo di fusione sono di tipo economico e politico. Le prime sono il raggiungimento di economie di scala e di scopo, la razionalizzazione dei servizi forniti, la riduzione dell’eccesso di capacità, il miglioramento della qualità clinica conseguente all’aumento di volumi, il miglioramento della qualità della formazione e l’attrazione e fidelizzazione dello staff. Le seconde sostengono che attraverso l’accorpamento sarebbe più semplice procedere alla chiusura di ospedali o di alcuni servizi, sostenere finanziariamente le organizzazioni più piccole, aumentare il potere di contrattazione, ampliare l’organizzazione in risposta a sfide da parte dei committenti, migliorare i servizi per la salute mentale (una singola organizzazione – si ritiene – possa fornire servizi di maggior qualità)[8, 9].

Il nostro gruppo di ricerca ha condotto una revisione estensiva della letteratura scientifica internazionale, di cui si riporta un breve commento, per fornire elementi scientifici ad una riflessione sulle politiche sanitarie orientate agli accorpamenti di aziende sanitarie. Dalla sintesi condotta sulla letteratura scientifica sono emersi quattro focus:

  1. impatto degli accorpamenti di ospedali su processi ed outcome;
  2. correlazione tra popolazione servita e performance di organizzazioni di assistenza primaria;
  3. principali driver;
  4. percezione e soddisfazione del personale delle strutture.

Le evidenze analizzate nel primo focus provengono da due studi, uno inglese (di tipo longitudinale su 102 accorpamenti)[1] ed uno statunitense (di tipo trasversale su 140 accorpamenti)[10]. Gli outcome studiati dagli autori sono stati suddivisi in tre aree: esiti clinici, processi, performance finanziaria e produttività. Nella prima area il confronto tra strutture accorpate e non, effettuato attraverso lo studio trasversale, non evidenzia differenze statisticamente significative per gli indici di mortalità ospedaliera e dimissioni entro 48 ore dei nuovi nati. Analogamente, lo studio longitudinale, non ha mostrato una significativa riduzione di mortalità a 30 giorni per infarto miocardico, in seguito all’accorpamento. Al contrario, aumentano la mortalità a 30 giorni per ictus, il tasso di riammissioni a 28 giorni per ictus e le riammissioni a 90 giorni per infarto miocardico nel periodo successivo all’accorpamento. Nella seconda area, il tempo di attesa medio e la percentuale di pazienti in liste di attesa di durata superiore a 180 giorni, la percentuale di spesa per il management e la percentuale di spesa del personale a tempo determinato sono incrementate dopo l’accorpamento. Il totale dei ricoveri, il totale del personale, dei posti letto e la percentuale di personale qualificato risultano inferiori a seguito dell’accorpamento. Nella terza area, le strutture ospedaliere, nel periodo successivo all’accorpamento, mostrano riduzione della spesa totale nonostante la permanenza del deficit e la non modificazione della produttività.

Dal punto di vista del rapporto tra popolazione servita e performance delle organizzazioni di assistenza primaria, da uno studio trasversale[11] che considera 152 Primary Care Trust, non emerge alcun risultato statisticamente significativo tra strutture accorpate e non per quanto riguarda efficacia clinica, efficacia preventiva, esperienza del paziente, accessibilità, performance finanziaria e coinvolgimento dei dipendenti. Nella survey di Wilkin (2003)[12], emerge che solo due su ventitré indicatori di performance indagati, maggiore probabilità di iniziative per estendere i servizi di assistenza primaria disponibili e maggiore probabilità di iniziative nell’assistenza intermedia, mostrano correlazione positiva con le dimensioni della popolazione servita.

Il terzo focus ha evidenziato che oltre a “driver” di fusione aziendale specificamente esplicitati in documenti aziendali ufficiali pubblicamente accessibili, esistono anche motivazioni non ufficialmente dichiarate che emergono da interviste a top manager delle aziende. Così, alle ragioni dichiarate nei documenti aziendali quali:   voler investire in servizi per pazienti risparmiando da costi derivanti dal management, salvaguardare unità specialistiche, garantire lo sviluppo di servizi e garantire la qualità, migliorare le prospettive delle condizioni e carriera dello staff, supportare lo sviluppo di aziende di assistenza primaria; si aggiungono ragioni non ufficialmente dichiarate, come l’imposizione di nuovi regimi manageriali da parte delle autorità locali e dall’NHS, la contrattazione di riduzioni di deficit e la risposta a lobby di stakeholder[8].

Risultati contrastanti, emergono anche dall’analisi dell’ultimo focus, relativo alla percezione e soddisfazione dello staff, provenienti da due survey[8, 13]. Se, infatti, l’accorpamento di strutture sanitarie sembra portare ad un aumento dell’autonomia del ruolo dei professionisti,  con possibilità di esprimersi in merito a piani d’innovazione e cambiamento, dall’altro lato, esso determina percezione di peggioramento nell’erogazione di servizi a danno del paziente, differente percezione della cultura organizzativa tra le organizzazioni accorpate, una condizione di “under-management” ovvero perdita di controllo manageriale su direzioni strategiche e su operazioni giornaliere con accumulo di ritardi negli incontri operativi tra senior e middle management. Si sottolinea inoltre il rischio che l’accorpamento possa comportare nel personale stress, causato da cambiamenti, incertezze e aumento del carico di lavoro e una interiorizzata percezione di «acquisizione», ovvero sensazione di essere divenuto elemento acquisito da parte di una delle aziende accorpate (la maggior parte dei dirigenti, proveniva da una sola delle aziende costituenti).

Al momento le evidenze sull’impatto degli accorpamenti sono contrastanti e ciò che emerge è che non esiste automatismo tra l’aumento delle dimensioni dei bacini di utenza e miglioramenti nella performance delle aziende o nelle economie di scala e che l’accorpamento in sé non è condizione necessaria né sufficiente per realizzare integrazione dell’assistenza sanitaria[14]. L’integrazione può essere perseguita, infatti, tramite modelli organizzativi che presentano evidenze scientifiche a supporto, come: creazione di reti di assistenza (network di provider che lavorano insieme per fornire assistenza integrata e di alta qualità al fine di ridurre la frammentazione), sviluppo di piani individuali di assistenziali personalizzati, funzione di case management, co-locazione (professionisti appartenenti ad organizzazioni e/o forme contrattuali diverse che lavorano insieme e nello stesso luogo fisico per offrire il loro servizio), disease management, percorsi assistenziali integrati, lavoro in team multiprofessionale-multidisciplinare, virtual wards (combinazione dell’azione di  case management con quella di team multidisciplinari multiprofessionali)[15].

In conclusione, le evidenze empiriche di beneficio nella performance ed economicità dovute agli accorpamenti sono scarse e l’incremento della dimensione organizzativa produce una maggiore “distanza” tra vertice strategico e linee operative con conseguente aumento di costi di integrazione legati alla necessaria espansione delle funzioni di middle management. Procedere in un processo di accorpamento non significa esclusivamente assumere una decisione di politica sanitaria da perpetrarsi “a freddo”, a costo zero e con realizzazione di effetti immediati. Esso richiede un accompagnamento culturale e tecnico dell’organizzazione che consenta la realizzazione dell’integrazione dei processi assistenziali e normo-tecnici in condizioni di maggiore complessità.

Tale intervento tecnico consiste nella duplice azione sulla leva formativa ed informativa, con conseguenti investimenti. La prima azione comporta la qualificazione dei professionisti per operare in condizioni di cambiamento organizzativo e lo sviluppo di funzioni di staff volte al controllo di processi trasversali ampliati. La seconda azione prevede lo sviluppo di infrastrutture informativo-informatizzate per la gestione clinico-assistenziale dei pazienti capillarmente personalizzata.

Inoltre, si rende necessaria l’attivazione di un ciclo di valutazione di una policy che sottende un cambiamento organizzativo così complesso in una prospettiva di accountability dei policy maker. Questi sono tenuti a rendere conto della tutela della salute dei cittadini congiuntamente alla responsabilità dei professionisti, interpretata secondo logiche di clinical governance, e degli assistiti sempre più impegnati in azioni di “engagement” nei processi di assistenza[16, 17].

Marco Mariani, Anna Acampora, Gianfranco Damiani. Istituto di Sanità Pubblica -Sezione di Igiene, Università Cattolica del Sacro Cuore

 

Bibliografia

  1. Gaynor M, Laudicella M,, Propper C. Can governments do it better? Merger mania and hospital outcomes in the English NHS. Journal of Health Economics 2012; 31: 528-543.
  2. Goddard M, Ferguson B. Merger in the NHS, Made in Heaven or Marriage of convenience? Nuffield Occasional Papers Health Economics Series: Paper No. 1, Nuffield Trust 1997.
  3. Berg JE, Grimeland J. Leadership by fragmented destruction after a merger: an example from a facility of acute psychiatry. Mental Illness 2013; 5:e11.
  4. Schmid A, Varkevisser. Hospital merger control in Germany, the Netherlands and England: Experiences and challenges. Health Policy 2016.
  5. «Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale-Ministero della Salute»
  6. Dati Elaborazione Fiaso.
  7. “Agenas 2015” e “Distretti e ASL 1 gennaio 2017” Bellentani DGPROGS Ministero della Salute».
  8. Fulop N, Protopsaltis G, King A, Allen P, Hutchings A, Normanda C. Changing organisations: a study of the context and processes of mergers of health care providers in England. Social Science & Medicine 2005; 60: 119–130.
  9. Fulop N, Protopsaltis G, Hutchings A, King A, Allen P, Normand C, Walters R. Process and impact of mergers of NHS trusts: multicentre case study and management cost analysis.  BMJ 2002; 325(7358):246.
  10. Ho V, Hamilton BH. Hospital mergers and acquisitions: does market consolidation harm patients? Journal Health Economics, 2000.
  11. Greaves F, Millett C, Pape UJ, Soljak M, Majeed A. Association between primary care organisation population size and quality of commissioning in England: an observational study. Br J Gen Pract 2012.
  12. Wilkin D, Bojke C, Coleman A, Gravelle H. The relationship between size and performance of primary care organisations in England. J Health Serv Res Policy 2003;8(1):11-7.
  13. Ovseiko PV, Melham K, Fowler J, Buchan AM. Organisational culture and post-merger integration in an academic health centre: a mixed-methods study. BMC Health Services Research 2015
  14. Wilkin D, Bojke C, Coleman A, Gravelle H. The relationship between size and performance of primary care organisations in England. Journal of Health Services Research & Policy 12003; 8(1): 11–17
  15. Integrating Services Without Structural Change, BMA, Health Policy & Economic Research Unit, June 2012
  16. Ortún V. Primary care at the crossroads. Gac Sanit 2013; 27(3):193–195
  17. Howlett M, Ramesh M. Studying public policy – policy cycles and policy subsystems. Oxford University Press, Toronto, New York, Oxford, 1995.

5 commenti

  1. Ciò che mi piace di più dell’articolo è che il governo politico dovrà rendersi responsabile della salute dei cittadini al pari dei medici e sanitari che ne hanno la diretta responsabilità clinica

  2. Non si potrà mai fare una valutazione seria ed oggettiva dei cambiamenti del nostro sistema sanitario , e soprattutto una comparazione con i sistemi sanitari dei paesi piu’ avanzati, perchè il nostro sistema sanitario ha nella sua strutturazione dirigenziale-organizzativa due caratteristiche “genetiche” immutabili : servire la politica in funzione di postificio ed esaltare la mediocrazia.
    Fino a che non si ristabilisce un rapporto equilibrato e di merito tra la politica (alta) che definisce la linea del progetto sanitario e chi fà concretamente sanità che ne stabilisce le modalità esecutive da un lato ed i posti di responsabilità (dirigenti, capi dipartimento, responsabili di settore etc) vengono assegnati con criteri di chiara competenza ed appropriatezza dall’altro , ogni tentativo di riorganizzazione non avrà prospettiva.
    La Toscana non fa eccezione a quanto sopra. C’è bisogno di pensiero critico e che le nostre coscienze si scuotano.

  3. Insieme con Francesca Camaiani abbiamo redatto una tesi di laurea in scienze infermieristiche sulla valutazione del processo di fusione effettuato dalla Toscana da parte del personale infermieristico e delle quale vi riporto le conclusioni. Due piccole considerazioni da vecchio direttore:
    malgrado che l’esito della ricerca sia stato mandato alla direzione aziendale non se ne è avvertita alcuna risposta nè interesse; la spesa della Toscana per l’anno 2016 soprattutto in tema di personale , invece che diminuire è aumentata dell’0,5%.

    7- Conclusioni

    Preso spunto dal fatto che istituire aziende sempre più grandi è stato uno dei modelli di risposta che sono stati dato nel mondo imprenditoriale per migliorare le performance delle strutture produttive, abbiamo voluto valutare se tale processo, esteso ormai diffusamente anche alle organizzazioni sanitarie, fosse stato recepito positivamente anche nell’esperienza del personale sanitario operante nell’Asl Toscana centro.
    Le esperienze già fatte negli altri paesi del mondo a sistemi sanitari per certi aspetti non corrispondenti come il sistema inglese e quello americano, hanno poco misurato quale sia stato il miglioramento qualitativo delle prestazioni anche se hanno dato come preconcettualmente positivo quello gestionale.
    L’Italia non si è distinta rispetto ai processi in atto e nel corso del tempo, ma ,con un’ accelerazione recente, ha fortemente ridotto il numero delle aziende sanitarie e modificato le leggi regionali di organizzazione.
    Esaminando l’esperienza toscana , che ha fuso le 12 aziende territoriali in solo 3 aziende, abbiamo voluto saggiare la percezione dell’utilità dell’accorpamento da parte delle figure infermieristiche di direzione o coordinamento. Considerando fra l’altro che ,essendo la figura infermieristica presente in tutti gli ambiti, sia ospedalieri che territoriali dell’organizzazione ,la percezione di tale figura professionale poteva essere sufficientemente descrittiva della sensazione diffusa nell’intera azienda .
    La ricerca è stata svolta interpellando le 22 figure infermieristiche dell’ex Asl di Empoli attraverso un questionario costruito secondo il modello di analisi SWOT (conosciuta anche come matrice SWOT)cioè uno strumento di pianificazione strategica usato per valutare i punti di forza (Strengths), i punti di debolezza (Weaknesses), le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats) di un progetto o in un’impresa o in ogni altra situazione in cui un’organizzazione viene a trovarsi .
    Al questionario hanno risposto 18 dei 22 possibili interlocutori. Il personale infermieristico coordinato direttamente da tali figure è di oltre 700 unità.
    Al primo esame della distribuzione delle risposte nei vari campi della matrice ho potuto rilevare come il campo dei punti di forza sia quello che ha avuto la minore concentrazione di risposte (28 su 54 pari al 51,8%) mentre quello che ha raggiunto il risultato più alto è stato quello classificato come minacce ( 53 su 54 pari al 98,1%) Nel complesso le risposte collocate nei quadranti negativi della matrice assommano a 99 ( 58,4 %) mentre quelle dei quadranti positivi sono invece 70( 41,6 %).
    Analizzando però la qualità delle risposte possiamo sicuramente affermare, che, nonostante l’età media piuttosto alta e i tanti anni di servizio maturati nel gruppo preso in esame, sembra sia viva la disponibilità al cambiamento e all’innovazione. Questo allontana quella che è un po’ l’idea generalizzata da parte dell’opinione pubblica, di figure fossilizzate a vecchi ordinamenti, che non sono disposte a rinnovarsi e trovare punti d’accordo. Inoltre se pensiamo che ciò è emerso a dispetto di una piccola realtà come quella di Empoli, abbiamo ragione di pensare che in un’area più vasta questo pensiero possa trovare ancora più credito. La disponibilità a cambiare assetto amministrativo, strutturale, funzionale e organizzativo, dopo tanti anni nei quali tutto è rimasto invariato, sembra non spaventare gli operatori; il riordinamento, a qualunque livello si compia, è accettato se supportato da valide motivazioni e se accompagnato da una riorganizzazione efficiente ed efficace. Questo deve essere considerato molto positivo per la professione stessa: il cambiamento è ben voluto, se supportato da una strategia efficace e condivisa.

    La ricerca di condivisione e partecipazione al progetto è stata invece segnalata come mancante sia a livello decisionale, che a livello puramente pratico di riorganizzazione.
    L’esclusione completa dai vertici decisionali, dall’ideazione della riforma alla creazione nel nuovo assetto, ha reso unanime un sentimento negativo. Gli infermieri in esame, ad esempio, si sono sentiti calati in una realtà a cui non appartengono e che non condividono, almeno come condividevano la realtà precedente ; l’inserimento nel nuovo assetto sembra sia stato “forzato” e non supportato da auspicabili momenti d’incontro, di confronto, di condivisione. Ogni cambiamento radicale, che non riguarda solo strutture, burocrazia e nomine, ma soprattutto persone “vere”, in “carne ed ossa”, ha ragione di essere supportato da una valida preparazione. Quello che emerge è proprio la mancanza di occasioni di formazione, di supporto, di educazione e scambio di pensieri; a dispetto della vastità delle misure di rinnovamento. Se pensiamo che il fine della riforma sanitaria sia quello(tra gli altri) di migliorare la qualità delle cure, quindi il benessere delle persone in quanto utenti, come possiamo credere di poterci riuscire senza lavorare anche sulle persone in quanto personale sanitario?

    Altro spunto è stata la percezione della perdita di una identità aziendale che, evidentemente, era percepita e riconosciuta ,tradotta successivamente anche nella minaccia della possibile perdita di buone pratiche o di eccellenze .

    Un altro punto importante è il timore generalizzato di allontanamento dei vertici direzionali e aziendali dalle strutture, specie quelle più piccole come Empoli, con una serie di conseguenze:
    -in primis la mancanza di feedback da parte degli organi centrali per quanto riguarda gli esiti professionali dei singoli e delle intere strutture. Il rischio è che, privilegiando una visione d’insieme molto ampia, si tenda a marginalizzare le piccole realtà con le loro migliori esperienze che hanno maturato nel tempo e costruite ad hoc per funzionare in quel particolare conteso;
    -un altro timore è l’aumento dei tempi di risoluzione dei problemi interni che normalmente si presentano, a causa dell’allontanarsi della dirigenza aziendale , La percezione è che questa condizione possa provocare un intasamento nei processi di risoluzione e uno stallo burocratico che si ripercuota nella pratica quotidiana di assistenza;
    -per quanto riguarda gli interessi economici, c’è il rischio che gli investimenti su “cose e persone” si spostino e privilegino maggiormente le realtà più grandi nonostante l’integrazione di quelle più piccole nelle cosiddette aree vaste.

    Da non trascurare la concentrazione di risposte sulla sensazione di prevalere nella nuova azienda di visioni burocratico amministrative rispetto a quelle sanitarie.

    Tra le opportunità meritano rilievo l’ avvertita possibilità di modificare pratiche vecchie, la possibilità di estensione delle migliori pratiche, la possibile ripresa di relazioni tra le professioni per il miglioramento dei livelli assistenziali lasciando prevedere che vi sia una disponibilità reale ad attribuire un rilievo particolare al paziente e ai suoi bisogni assistenziali.

    Le impressioni finali che ho tratto dall’analisi delle risposte mi fanno concludere che il problema della percezione degli effetti delle operazioni di fusione da parte del personale, malgrado il tempo che è ormai trascorso, non sia stato analizzato sistematicamente.
    L’analisi condotta, seppur necessariamente limitata, rileva comunque una professione, quella infermieristica, che pur diffidente per difetto di partecipazione alle scelte organizzative e gestionali della nuova azienda ,sarebbe disposta ad utilizzare la fase del cambiamento come una fase di miglioramento della qualità della propria pratica professionale.
    La nuova complessità dell’organizzazione, non viene al tempo stesso avvertita come una facilitazione all’operare.
    Valutati gli elementi positivi presenti nell’attuale condizione congiunturale è tuttavia evidente che vi siano ambiti di lavoro delle strutture dirigenziali utili a ricostruire un senso di appartenenza alla nuova organizzazione e la sensazione che, quale che sia la dimensione dell’organizzazione, questa si sia strutturata per tenere in considerazione ogni suo singolo componente.

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