La verità sulla morte di Ibrahim Manneh
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- 18 Luglio 2017
È dal 10 luglio che Napoli vive una costante e crescente mobilitazione, un grido di dolore e di rabbia che stenta a raggiungere il resto del paese, silenziato dai media nazionali, perché è evidentemente intollerabile o pericoloso che anche i dannati della terra, anche gli “ultimi” di questa società, alzino la testa e chiedano diritti, giustizia, uguaglianza. Non è un paese civile quello che accetta che razzismo e malasanità possano mietere vittime impunemente. Un appello da firmare.
Ibrahim aveva 24 anni, era nato in Costa d’Avorio, cresciuto in Gambia e da 10 anni viveva in Italia. Ibrahim è morto nella notte tra il 9 e il 10 Luglio di malasanità e di razzismo. I suoi amici, i suoi familiari, i suoi compagni, non sanno ancora come sia stato possibile morire così. Eppure, ciò che ha ucciso Ibrahim non è frutto del caso: il semplice racconto delle sue ultime 24 ore di vita è esemplare dello stato attuale di questo Paese, del clima di odio e di indifferenza all’interno del quale vogliono gettarci, di un sistema ingiusto e spietato dove i diritti più elementari vengono negati.
Ibrahim se n’è andato tra sofferenze indicibili. Il suo calvario è iniziato la mattina del 9 luglio, quando ha cominciato ad accusare forti dolori addominali e si è recato all’ospedale Loreto Mare di Napoli. In Pronto Soccorso ha ricevuto una semplice iniezione e senza alcun accertamento diagnostico, senza una visita medica, è stato rimandato a casa. Immediatamente dopo essere uscito, le condizioni di Ibrahim sono peggiorate.
È rimasto nella sua abitazione tutto il giorno aspettando fiducioso che le “cure” mediche riservategli facessero effetto, allertando i suoi amici e familiari in serata, quando i dolori erano ormai insostenibili e le condizioni peggioravano sempre più chiaramente. Da questo momento in poi è iniziata una vera e propria odissea, che si concluderà con la sua morte, una lunga e cruenta storia di razzismo, pregiudizi e malasanità.
Gli amici accorsi per aiutare Ibrahim si sono rivolti insieme a lui alla prima farmacia di turno aperta nei pressi dell’abitazione, a Piazza Garibaldi. Il farmacista non ha aperto nemmeno la porta, ma rendendosi conto della gravità della situazione, ha chiamato un’autoambulanza che non è mai giunta mai sul posto. Ibrahim si è allora accasciato a terra fra atroci dolori ed i suoi amici si sono rivolti ad una pattuglia dei Carabinieri che si trovava nei paraggi chiedendo aiuto. Gli agenti in servizio gli hanno intimato semplicemente di allontanarsi, nonostante fosse palese la gravità della situazione. Riverso sulla strada, Ibrahim chiedeva aiuto.
Dell’autoambulanza, nel frattempo nessuna notizia. Dopo più di un’ora di attesa, gli amici hanno provato a portarlo in ospedale in taxi: sono giunti presso lo stazionamento più vicino, chiedendo di poter essere accompagnati e specificando più volte di poter pagare la corsa. Il tassista ha voltato loro le spalle: “non ho l’autorizzazione della Polizia”. Non poteva far niente per loro, perché per accompagnare un “negro” visibilmente in condizioni gravi in ospedale, bisogna essere autorizzati dalle forze dell’ordine!
I ragazzi si sono rivolti dunque ad una seconda farmacia e qui è stato loro suggerito di acquistare dei farmaci, in seguito alla cui assunzione Ibrahim ha cominciato anche a vomitare. A circa 1 ora e mezza dall’inizio di questo calvario saranno in tanti a sollecitare l’intervento di un’autoambulanza presso la sua abitazione. Eppure, dalla centrale operativa, la risposta era secca: non si muove un’ambulanza “per un ragazzo che vomita”, bisogna rivolgersi alla Guardia Medica, che anche in questo caso negherà la visita domiciliare, nonostante fosse stato specificato che Ibrahim non era più in grado di muoversi. Davanti a tutti questi rifiuti e al precipitare della situazione è proprio sulle sue gambe, o per meglio dire trascinato e portato a spalla dagli amici, che Ibrahim ha raggiunto la Guardia Medica di Piazza Nazionale, ormai in stato di incoscienza. Durante il tragitto, per una seconda volta, hanno incontrato una volante dei Carabinieri. Hanno chiesto nuovamente aiuto, ma ancora una volta la volante li ha evitati, rifiutando di prestare soccorso.
Raggiunta la Guardia Medica, l’operatore di turno, rendendosi conto delle gravissime condizioni in cui versava il ventiquattrenne, ha chiamato nuovamente il 118 e solo così un’ambulanza è finalmente arrivata sul posto, trasportandolo nello stesso Pronto Soccorso al quale il ragazzo si era rivolto la mattina precedente.
Alle 2.30 del mattino del 10 luglio Ibrahim giungeva in ospedale in condizioni ormai critiche. È stato trasportato in sala operatoria e da quel momento in poi nessuno, neanche il fratello, sarà più informato delle sue condizioni fino alle 11, quando ne sarà comunicata la morte.
I medici si rifiuteranno sempre, anche il giorno dopo, di parlare con i familiari. Ibrahim non è mai stato operato perché in sala operatoria è arrivato troppo tardi: è morto poco dopo l’accesso in ospedale. Eppure nessuno sa nulla di più su cosa sia successo durante quelle 10 ore.
Il cortile antistante il Pronto Soccorso, nel frattempo, si è via via riempito: i suoi familiari, un numero sempre maggiore di amici, i volontari dell’ex-OPG “Je so pazzo”, comunità presso cui il giovane prestava assistenza gratuita agli immigrati, i loro legali, sono tutti accorsi per seguire da vicino la vicenda. E sono accorse anche le forze dell’ordine, sollecitate proprio dai vertici dell’ospedale: tensioni, minacce, l’invito secco ad andarsene nonostante i familiari chiedessero semplicemente di poter vedere il corpo del ragazzo e capire cosa fosse successo, l’identificazione dell’avvocato che provava a raccogliere gli estremi per poter depositare la denuncia, un odioso rimpallo di responsabilità fra il drappello delle forze dell’ordine del nosocomio e la questura centrale, tradottosi in una perdita di tempo che ha differito il sequestro delle cartelle cliniche e del corpo, che ha dilatato i tempi di una macchinosa giustizia, peraltro già vilipesa e offesa, che è costata la vita a un ragazzo di 24 anni.
Il diritto alla salute, in questo paese, è sempre più un miraggio per una fascia di popolazione in costante aumento, quella più povera e bisognosa che non riesce a permettersi cure adeguate. Ibrahim, senza ombra di dubbio, è stato vittima di malasanità ma anche e soprattutto del razzismo più subdolo e invisibile di questa società, quello che si esercita tra le file della burocrazia e degli uffici pubblici. Perché era nero, povero, senza qualcuno che potesse garantire, intercedere, per lui. Ibrahim rischia ancora, da morto, di essere nuovamente vittima di un’ingiustizia, del tentativo di insabbiare la verità.
Scriviamo questo appello per mandare un messaggio chiaro: non possiamo far finta di niente, riteniamo sia doveroso far emergere tutta la verità sulle ultime ore di vita di Ibrahim e che venga fatta giustizia perché quanto successo non accada più.
È dal 10 luglio che Napoli vive una costante e crescente mobilitazione, un grido di dolore e di rabbia che stenta a raggiungere il resto del paese, silenziato dai media nazionali, perché è evidentemente intollerabile o pericoloso che anche i dannati della terra, anche gli “ultimi” di questa società, alzino la testa e chiedano diritti, giustizia, uguaglianza.
Dalla morte di Ibrahim tante cose sono successe: un presidio spontaneo ha animato il cortile dell’Ospedale Loreto Mare fin dalle prime ore dopo il decesso, per vigliare sulle prime fasi delle indagini e supportare amici e familiari. Un corteo di oltre 1000 persone ha affiancato le comunità migranti di Napoli e la comunità dell’ex-OPG “Je so pazzo!”, attraversando le strade della città e inchiodando la Prefettura ad una presa di responsabilità netta sulla vicenda. Alla denuncia legale è seguita la pubblicazione di questo appello pubblico, che trasformi la triste storia di Ibrahim in un momento di riflessione, di partecipazione aperta e corale da parte di tutti coloro i quali vogliano unirsi a questa battaglia di civiltà per chiedere verità e giustizia.
Ibrahim non aveva santi in paradiso ed è per questo che dobbiamo mobilitarci noi! La sua storia non fa gola, e anzi rischia di mettere in pericolo, di gettare ombre su ruoli di responsabilità e dirigenza. È difficile, ma dobbiamo provarci. Non solo perché lo dobbiamo a lui e ai suoi cari, ma perché dobbiamo pretendere che il destino che gli è toccato non colpisca più nessuno. Per farlo abbiamo bisogno della parte della società più integra e sana, quella che ancora non si sente assuefatta al generale clima di sfiducia e depressione del paese, che ha a cuore la verità, che cerca di restare umana.
Vi chiediamo di sottoscrivere questo appello .
Vi chiediamo di diffondere l’appello, di schierarvi.
Chiediamo con forza che la storia di Ibra non venga dimenticata, che le Istituzioni preposte si preoccupino di fare emergere la dinamica in cui Ibrahim se n’è andato, le responsabilità, le mancanze. Non è un paese civile quello che accetta che razzismo e malasanità possano mietere vittime impunemente.
Non si può morire così, di razzismo, fra atroci dolori, pur avendo tutta la vita davanti!
Novella Formisani – Specializzanda in Psichiatria (Università Federico II Napoli).
Comunità ex-OPG “Je so pazzo!” (Sportello Medico Popolare)
Da denunciare tutti i responsabili e chi tenterà d’insabbiare la cosa
sono annichilita
sono d’accordo con l’appello Andrea Lopes Pegna
Con la speranza che tutto ci’ non accada mai piu.
Il razzismo cresce e ho paura non tanto dei razzisti ma di quelli indifferenti!!!
Episodio incredibile, ma credibile. Un ragazzo morto per negligenza generale di chi poteva fare qualcosa, disprezzo, e sottovalutazione delle sue condizioni.
Sono stato personalmente vittima di un episodio simile nel corso di un soggiorno a Barcellona più di 20 anni orsono in occasione di un Convengo Internazionale nel quale mia moglie era stata invitata come Relatrice, ed io svolgevo il programma accompagnatori (facevo le gite con le mogli dei relatori).
Meno di un ora dopo aver mangiato a pranzo in un fast-food un pomodorino con ripieno di tonno ed un tocco di maionese, mia moglie ha iniziato a vomitare in metropolitana.
Invece di fermarci a visitare la Sagrada Familia come previsto, abbiamo proseguito per l’albergo.
Arrivata in albergo, mia moglie ha iniziato a presentare anche diarrea acquosa. Gli episodi sono diventati sempre più ravvicinati ed abbondanti tanto che nelle ore seguenti si è disidratata e shoccata.
Ho iniziato allora un calvario simile a quello subito dal povero ragazzo.
Chiamo l’ambulanza, in spagnolo, che parlo correntemente, con il telefono della camera d’albergo, l’ambulanza non viene, richiamo, non viene, richiamo la terza volta e non ri-viene, sono passate un paio d’ore e la moglie è oramai grigia e raggrinzita dalla disidratazione. Scendo e faccio richiamare l’ambulanza dal Concierge. L’ambulanza non viene. Vado alla farmacia più vicina per comperare alcuni litri di soluzione fisiologica da somministrare endovena alla moglie. La farmacia ha appena chiuso ed il personale all’interno mi vede, sente le mie richieste urlate attraverso le vetrate chiuse, non mi considera, e se ne va dal retro. Svanisce la speranza di poter reidratare la moglie fai-da-te.
Torno in albergo, l’ambulanza non è venuta, ed il Concierge dice che non verrà mai per un semplice vomito.
Mi incazzo come una jena, dal bancone del Concierge telefono direttamente all’ospedale più vicino dove il Collega di guardia fa il gentile ma mi spiega che di casi simili di tossinfezione alimentare ne avrebbero a centinaia ogni giorno e non li ammettono al Pronto Soccorso.
Continuo ad essere incazzato, e chiamo un taxi. Mentre che arriva il taxi, porto la moglie, in pigiama ed avvolta dal lenzuolo fracido, in braccio dalla stanza fino nella hall, dove continua a vomitare e scaricare diarrea acquosa, accasciata sul divano.
Il taxista si ferma davanti alla vetrata dell’ingresso dell’Albergo, dalla macchina vede mia moglie, capisce le mie intenzioni, e riparte sgommando.
Chi mi conosce riuscirà ad immaginare la mia incazzatura. Chiamo la Polizia dal telefono del Concierge, la Polizia arriva, manco scende dalla macchina, vede la scena, e se ne riparte sgommando tale quale i tassista.
Il lago di fluidi messo dalla moglie nella Hall si allarga. La moglie sempre più shoccata.
Il Concierge, terrorizzato dalla mia incazzatura, chiama gli Organizzatori del Congresso, che arrivano accompagnati da un Collega Italiano che, venendo a sapere che ero incazzato, dato che mi conosce bene e conosce anche la distruttività della mia furia, temette per l’integrità dei presenti nella Hall, dei Barcellonesi tutti, e financo dei monumenti di Barcellona.
Appena li vedo entrare, requisisco la macchina degli organizzatori lasciandoli imbambolati nella Hall, e porto la moglie al Pronto Soccorso.
Veniamo rifiutati dal Pronto Soccorso come preannunciato dl Collega per telefono, cago zero chiunque mi si pari davanti, mi dirigo con una certa decisione verso il deposito dei farmaci, mi presento con tono non sereno ma a volume sommesso, sfondo la porta del deposito a calci, requisisco 3 litri di fisiologica ed in kit per flebo, incannulo una vena alla moglie sdraiata in stato di shock su una panca in sala d’aspetto, ed inizio la terapia infusionale reidratante.
Io muto, Pronto Soccorso terrorizzato, personale terrorizzato, pazienti terrorizzati.
Il Collega si insospettisce sul fatto che mia moglie potesse veramente essere in pericolo di vita, esce dal Pronto Soccorso, le dà un’occhiata, capisce che era veramente in pericolo di vita, e la fa trasportare, flebo e tutto, in una tenda di degenza, predisponendo il Ricovero in osservazione.
Non cago nessuno, reidrato mia moglie con quasi 5 litri di fisiologica a tutta randa, e, nel giro di due ore, la rimetto operativa, chiamo un taxi, ed inizio a rilassarmi.
Mando affan’culo il Collega che pretendeva di ricoverarla, e me la riporto in albergo non senza aver fregato un bel po’ di fisiologica per continuare la terapia fai-da-te.
Morale: se io non fossi stato io, e se io non fossi stato anche un Medico, mia moglie sarebbe probabilmente andata in coma per una cazzata simile.
Non ho denunciato nessuno, sono stato contento di esser stato utile alla moglie.
Mi sento molto vicino al ragazzo che ha subito la sorte di mia moglie. Probabilmente è deceduto per un’ulcera duodenale perforata e non trattata.
Vedremo….