Palestina. Neo-liberismo in Paese occupato

Angelo Stefanini

Come successo all’African National Congress (ANC) in Sudafrica e ai paesi dell’ex-blocco sovietico, anche la Palestina occupata è rimasta vittima dell’irresistibile “logica” della globalizzazione neoliberista attraverso una shock therapy che l’ha vista improvvisamente divenire, all’insaputa della maggioranza della sua popolazione, un caso emblematico di neoliberismo autoritario. La Palestina occupata raffigura uno spazio geo-politico e simbolico in cui si intersecano dinamiche globali come salute pubblica, diritti umani e diritto internazionale umanitario.


Discutere di Salute Globale nella Palestina occupata[1] significa toccare con mano temi cruciali evocati da questa nuova visione della salute di notevole rilevanza per una regione geo-politica che da oltre cinquant’anni è occupata militarmente, progressivamente colonizzata e violata nei suoi diritti fondamentali.[2]

La Salute Globale può essere definita come uno “spazio-critico riflessivo” che adotta una lettura dei processi transnazionali di salute e malattia “fortemente orientata al sociale e all’insegna del paradigma della complessità (dunque necessariamente interdisciplinare)”.[3]  Non sorprende quindi che l’attuale pervasiva cultura bio-medica che insiste a definirsi a-politica trovi notevole difficoltà a riconoscere questo percorso di determinazione sociale della salute.

Per capire perché ciò che succede nella Palestina occupata e alla salute della sua popolazione riguardi la salute del mondo intero è necessario situare la lotta di liberazione locale in rapporto a una serie di processi globali che, direttamente o indirettamente, influiscono sulla vita quotidiana di tutte le persone.

Neo-liberismo come Liberazione Nazionale (ovvero “Mercato libero in Paese occupato”)

Un primo fenomeno globale vissuto in forma diversa da grande parte della popolazione mondiale e che ha diretta rilevanza al caso palestinese è la progressiva perdita di diritti (alla salute, all’istruzione, al lavoro, ecc.) che accompagna il processo di globalizzazione neo-liberista.

Nonostante alla sua nascita il movimento palestinese di liberazione nazionale fosse stato parte integrante di un più ampio progetto politico di lotta anticoloniale e di creazione di un ordine mondiale giusto, una volta al potere come Autorità Nazionale Palestinese non ha mantenuto le proprie promesse finendo per garantire i privilegi della borghesia nazionale e degli investitori internazionali.

Come successo all’African National Congress (ANC) in Sudafrica e ai paesi dell’ex-blocco sovietico, anche la Palestina occupata è rimasta vittima dell’irresistibile “logica” della globalizzazione neoliberista attraverso una shock therapy[4] che l’ha vista improvvisamente divenire, all’insaputa della maggioranza della sua popolazione, un caso emblematico di neoliberismo autoritario.

Il documento programmatico del 2009 per la creazione dello stato palestinese,[5] comprensibilmente elogiato da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale (FMI), assicura che “la Palestina si baserà sui principi di un’economia di libero mercato”. Nel contesto di una crisi storica di legittimità del movimento nazionale palestinese con divisioni politiche interne senza precedenti, il programma, redatto da un governo non eletto e guidato da un primo ministro, Salam Fayad, espressione diretta del FMI, delinea una strategia apparentemente autonoma per raggiungere la forma di stato fondato sulla ortodossia neoliberista fatta di tagli delle spese pubbliche, liberalizzazione del commercio, privatizzazione delle imprese statali. Di fronte allo scontato riconoscimento internazionale, questa emancipazione nazionale attraverso il neoliberismo ridefinisce in effetti un tipo lotta di liberazione palestinese finora sconosciuto: “Neo-liberismo come Liberazione nazionale”.[6]

In realtà la Palestina occupata offre un esempio paradossale di come un regime economico neoliberista sotto il giogo coloniale finisca per dar luogo a una captive economy.[7] Un complesso sistema di leggi e regolamenti militari e civili dettati dalla potenza occupante, infatti, fa sì che nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza il “libero mercato”, in cui verosimilmente l’industria farmaceutica palestinese avrebbe i titoli per giocarsi un ruolo, è in pratica “prigioniero” e rimane succube della concorrenza israeliana e internazionale con effetti deleteri sul prezzo dei farmaci e sull’accesso alla salute della popolazione palestinese.[8]

Modello di “stato di eccezione”[9]

Un secondo processo globale con effetti diretti e indiretti sulla salute nel mondo è il progressivo indebolimento della cornice giuridica internazionale creata al termine della 2a guerra mondiale, rappresentata dalla legislazione internazionale umanitaria e dei diritti umani con l’Organizzazione dalle Nazioni Unite (ONU) come sua garante. Questa infelice tendenza è accompagnata dalla presa d’atto quasi rassegnata di trovarsi in uno “stato di eccezione”, caratterizzato dalla sospensione legalizzata del diritto e conseguente emanazione di leggi liberticide come condizione ordinaria per condurre la “guerra al terrorismo”. In un tale contesto la costruzione di muri, reali e simbolici, è la logica risposta all’inarrestabile fenomeno migratorio e alla fuga di masse disperate da guerre, disastri naturali e miseria.

Se questa è la condizione che sembra ormai attendere nel prossimo futuro il mondo occidentale, essa costituisce da anni la vita quotidiana della Palestina occupata. Il muro che Israele ha costruito non tanto per rinchiudere i palestinesi nella loro terra ma come nuovo confine che sposta vaste aree di quella terra dalla parte israeliana, è il simbolo della natura violenta e sopraffattrice di chi costruisce muri ovunque con il falso pretesto della sicurezza.

Ogni anno uno Special Rapporteur con formale mandato delle Nazioni Unite, a cui Israele immancabilmente vieta l’ingresso nel territorio che ha il compito di documentare, produce un rapporto di pubblico dominio che descrive in dettaglio le violazioni dei diritti umani palestinesi compiute dallo stato di Israele.[10]

Decine di risoluzioni e richieste delle Nazioni Unite di porre fine all’occupazione prolungata di Israele e consentire al popolo palestinese di esercitare il diritto di autodeterminarsi sono cadute inascoltate. La mancata risposta da parte della comunità internazionale a tale arbitrario comportamento ha portato alla formazione di una vera e propria cultura dell’impunità che consente a Israele di sentirsi autorizzato a qualsiasi crimine.

Di fronte alle innumerevoli esecuzione sommarie di giovani palestinesi armati di semplici coltelli, soltanto giornalisti coraggiosi come l’israeliana Amira Hass[11] osano chiedere come è possibile che i soldati meglio addestrati al mondo nelle tecniche di auto-difesa non abbiano altra scelta che uccidere sistematicamente giovani assalitori armati di coltello mossi dalla rabbia di chi è quotidianamente umiliato. L’“eccezionalismo” israeliano non soltanto è divenuto normalità ma sta fornendo un precedente che altri paesi non esitano a seguire nella loro “guerra al terrorismo”.

Parallelamente, lo stesso oppressore, il colono israeliano che si è appropriato illegalmente[12] della terra palestinese in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, sta operando un surreale ribaltamento di significato del principio di diritto umano[13] e delle categorie di vittima, di colpevole e di abuso. È così nato il diritto dei coloni a espropriare, il diritto alla guerra legalizzata con i droni, il diritto agli omicidi mirati e alle esecuzioni sommarie.

Laboratorio di Guerra Globale

La Palestina occupata rappresenta l’espressione inquietante di come le potenze occidentali intendano la guerra globalizzata. Si tratta di una guerra subliminale di sorveglianza che l’antropologo israeliano Jeff Halper chiama “guerra securocratica”, travestita da “guerra al terrorismo”, che alimenta la paura tra la popolazione, in questo modo giustificando la militarizzazione della vita quotidiana e dell’intera società. Per condurre questa guerra sono necessarie non solo raffinate armi convenzionali, ma nuovi apparati militari, sistemi di sorveglianza, di controllo della folla e di raccolta di dati biometrici. Questo sistema di repressione e di controllo è stato, e continua a essere progettato e testato in Israele e nei territori occupati in decenni di “contro-insurrezione” contro la popolazione palestinese. La Palestina occupata rappresenta, infatti, il laboratorio umano in cui Israele ha potuto sviluppare le competenze e le tecnologie che gli permettono di presentarsi al mondo esterno come securityland.[14]

L’importanza di questo modello di controllo sta nel fatto che risponde alla preoccupazione sempre più pressante del capitalismo globale di mantenere un ordine sociale favorevole di fronte alle situazioni intollerabili da esso create, come le crescenti disuguaglianze, guerre civili e migrazioni forzate di popolazioni senza speranza.

Dalla “israelificazione” della polizia statunitense[15] alla “palestinizzazione” della rivolta afro-americana a Ferguson,[16] dell’Iraq[17] e del problema dei rifugiati del Medio Oriente,[18] le ramificazioni globali del caso palestinese sono molteplici.

La Palestina occupata come laboratorio globale dell’avanzante egemonia dello stato securitario è inoltre funzionale alla progressiva normalizzazione e istituzionalizzazione della cosiddetta “emergenza cronica”, ossimoro che ormai fa parte del linguaggio umanitario.  Accettare questa condizione di cronicità come inevitabile e necessaria significa, infatti, legittimare uno stato-nazione che sull’altare della “sicurezza” ha fondato le regole della sua esistenza, che tutto giustifica, anche l’ingiustificabile, come “diritto alla difesa” e su tale diritto costruisce le proprie argomentazioni di impunibilità.

Come ha affermato lo storico israeliano Avi Shlaim a seguito dell’attacco israeliano su Gaza nel 2009: “Il fine non dichiarato [della guerra] è che i palestinesi di Gaza siano visti dal mondo semplicemente come un problema umanitario sviando in questo modo la loro lotta per l’indipendenza e per la nascita di uno stato.”[19] Finché una situazione è definita come “emergenza”, sollecitando quindi interventi puntuali a breve termine, le cause strutturali che stanno alla radice del problema rimarranno inevitabilmente sullo sfondo e lasciate a un momento lontano nel tempo.

Il caso della Palestina occupata e di Gaza in particolare come problema umanitario è evidentemente espressione di una crisi globale dell’umanitarismo estendibile a un numero di altre aree geo-politiche che per ovvi, anche se imbarazzati interessi il mondo intero preferisce vedere come semplici crisi umanitarie e dove sono proprio questi nobili sforzi umanitari a impedire, più o meno inconsapevolmente, una soluzione politica.

Conclusione

La Palestina occupata raffigura uno spazio geo-politico e simbolico in cui si intersecano dinamiche globali come salute pubblica, diritti umani e diritto internazionale umanitario. Lungi dall’essere semplicemente influenzata da questi processi, la Palestina serve da lente attraverso cui verificare la serietà dell’impegno nei confronti di norme e principi che l’intera umanità si è data per proteggere la propria sopravvivenza. Nelson Mandela ne era certamente convinto quando affermava che “La Palestina è la più grande questione morale del nostro tempo”.

 

Bibliografia

  1. Le osservazioni che seguono sono frutto delle discussioni che hanno vivacizzato un altrimenti probabilmente noioso corso di formazione dal titolo “An Introduction to Global Health and Its Relevance to Palestine” tenuto dal 10 al 13 luglio u.s. all’università di Birzeit (nei pressi di Ramallah, Cisgiordania occupata).  Ringrazio i partecipanti al corso per il loro pur inconsapevole contributo a questo scritto.
  2. Israel: 50 Years of Occupation Abuses. HRW, 04.06.2017
  3. Stefanini A, Bodini C. (2016) Salute Globale: Uno Scenario Conflittuale, in (a cura di) Alcindo Antônio Ferla, Angelo Stefanini, Ardigò Martino, SALUTE GLOBALE IN UNA PROSPETTIVA COMPARATA TRA BRASILE E ITALIA, 1° Edizione Porto Alegre, Brasile/Bologna, Italia – 2016 Rede UNIDA/CSI-Unibo. PP: 13-34.
  4. Debito e salute. SaluteInternazionale.info, 04.07.2012
  5. Ending the Occupation, Establishing the State (Ramallah: Palestinian National Authority, 2009).
  6. Khalidi R, Samour S. Neoliberalism as liberation: The statehood program and the remaking of the Palestinian national movement. Journal of Palestine Studies 2011; 40(2), 6-25.
  7. Captive Economy. The Pharmaceutical Industy and the Israeli Occupation [PDF: 700 Kb]. The Coalition of Women for Peace / Who Profits, March 2012.
  8. Industria farmaceutica e occupazione israeliana della Palestina: neo-colonialismo all’opera. SaluteInternazionale.info, 17 settembre 2012.
  9. Agamben G. Stato di eccezione. Torino: Bollati Boringhieri, 2003.
  10. The Mandate of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian Territory occupied since 1967. ohchr.org
  11. Israel’s Cloned Security Guards, Haaretz.com, 26.07.2017
  12. Resolution 2334 (2016) Adopted by the Security Council at its 7853rd meeting, 23.12.2016 [PDF: 100 Kb]
  13. Libri: Il diritto umano di dominare. Nena-news.it,  29.05.2015
  14. Jeff Halper: “Questa guerra è contro di noi”.  Nena-news.it, 08.12.2015
  15. America’s Militarized Police. Made in Israel? Globalresearch.ca, 25.07.2017
  16. From Ferguson to Palestine, We See Us.  Huffingtonpost.com, 10.16.2015
  17. Collins J. Global Palestine: A collision for our time. Critique: Critical Middle Eastern Studies 2007, 16(1), 3-18.
  18. Isotalo R. Fear of Palestinization: Managing Refugees in the Middle East. Managing Muslim Mobilities: Between Spiritual Geographies and the Global Security Regime, 59. 2014
  19. Feldman I. Gaza’s Humanitarianism Problem. Journal of Palestine Studies 2009; 38(3), 22-37.

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