Umanità in alto mare

Chiara Boninsegna

È una società, la nostra, con lo sguardo corto e basso e con il cuore chiuso che non esita a distinguere in modo assolutamente categorico i migranti “economici” dai richiedenti protezione internazionale, ritenendo che i primi non abbiano alcun diritto di arrivare nel nostro paese. Ma davvero qualcuno può pensare che il “problema immigrazione” si possa risolvere chiudendo i porti, pattugliando le frontiere di terra e le coste, respingendo o riportando in Libia chi viene intercettato in mare? In questi mesi non si è sentito praticamente nessuno fare ragionamenti seri sulle cause profonde del fenomeno delle migrazioni, sulle politiche nazionali e internazionali che si possono attivare per ridurre la necessità per tanta gente di lasciare il proprio paese.


UMANITÀ IN ALTO MARE. È quella formata da uomini, donne e bambini che cercano di attraversare un mare che può essere bellissimo, ma che può essere anche luogo di paura e morte. Sono persone ricche solo di coraggio e di speranza. Si allontanano (spesso anche con i figli piccoli) da contesti che, per la guerra, la violenza, la povertà, non possono offrire un futuro a nessuno. Per chi la compie, è una scelta difficile. Difficile perché comporta dei costi importanti; perché spesso si sa che l’unico modo per partire è affidarsi a gente senza scrupoli; perché partire, in molti casi, significa recidere (magari per tempi lunghi) i legami con la famiglia, con gli amici, con la propria terra (ma tra di noi c’è chi si lamenta perché “questa gente” ha un cellulare e staziona a lungo nei punti della città dove c’è un accesso wifi gratis); perché l’esito del viaggio non è sicuro; perché si sa che, forse, nel luogo dove si arriverà non ci si sentirà bene, non si sarà trattati bene; perché non è detto che, dopo, la vita sarà più facile; … .

Ma partire è una decisione umana, umanissima, che da sempre caratterizza la storia del genere umano. Anche i nostri parenti sono partiti quando hanno ritenuto che in Italia non ci fossero le condizioni per crescere i figli e costruire un futuro. E anche queste donne e questi uomini coraggiosi partono. E partono perché, in un bilancio tra costi e benefici, sperano che, nonostante tutto, i benefici per sé e per la propria famiglia possano essere maggiori dei costi. Ma molte di queste persone muoiono in mare e il loro corpo che racchiudeva la loro vita e la loro storia resta lì, in alto mare.

UMANITÀ IN ALTO MARE. È l’umanità formata da chi si trova in alto mare per scelta, per soccorrere chi rischia di morire. Sono gli operatori della marina militare e delle Organizzazioni Non Governative (ONG), sono militari e sono civili, sono uomini e donne che soccorrono altri uomini e altre donne; che li soccorrono uno per volta perché ritengono che ognuno debba poter vivere. Fanno parte di organizzazioni con caratteristiche e mandati diversi, ma, all’atto pratico, dalle immagini che possiamo vedere, sono uomini e donne pronti a lavorare con grande professionalità e in condizioni difficili, anche mettendo a repentaglio la propria vita, per soccorrere e salvare altre vite.

Ci rattrista vedere che in questi mesi per le ONG è diventato difficile, quasi impossibile lavorare. Sono state messe sotto accusa, “in blocco”, a prescindere da tutto, senza distinzioni. Vengono presentate come “traghettatrici interessate”, come organizzazioni colluse con i trafficanti, come soggetti che favoriscono l’immigrazione clandestina. Non ci riconosciamo in questo atteggiamento. Non conosciamo tutti i retroterra, ma, se qualcuno commette dei reati, lo Stato ha gli strumenti per perseguirlo. Detto questo, ci chiediamo se davvero qualcuno può pensare che ostacolando il lavoro d’intervento e di soccorso in mare delle ONG si possa risolvere il “problema immigrazione”.

UMANITÀ IN ALTO MARE. È quella formata da una parte della nostra società, da chi governa il nostro paese, da chi governa e gestisce l’informazione, ma anche da parte della gente comune. Ogni giorno di più molte persone sembrano impegnate a ignorare le norme della buona educazione, della moderazione e dell’equilibrio nel giudicare. Sembrano sempre più diffusi e considerati accettabili e normali atteggiamenti, azioni, linguaggi, comportamenti violenti, denigranti, irridenti, irrispettosi, arroganti nei confronti di chi la pensa diversamente, di chi fa parte di una minoranza e anche delle persone straniere.

Sembra normale (e sembra non provocare alcun disagio) che, in televisione, nel giro di mezz’ora, si senta parlare di “invasione di clandestini”, di morti in mare con le magliette rosse, di porti chiusi, e poi, magari, di ingaggi milionari di un calciatore e, se si aspetta solo un po’, di cibo per gatti che ingrassano.

Le nostre società sembrano sempre di più caratterizzate da un individualismo (o egoismo?) Concentrico. Prima vengo io, poi la mia famiglia, i miei amici, il mio gruppo (anche politico), la mia città, la mia regione, il mio paese, … e tutto il resto, semmai, viene dopo o, addirittura, non m’interessa. Il senso di corresponsabilità e d’interesse per il bene comune sono merce rara.  Non ci si preoccupa di verificare le informazioni che circolano “a tweet” sul tema migrazioni. Quanti sanno realmente quante sono le persone di origine straniera e, di queste, quante sono quelle europee, o quanti sono i richiedenti protezione internazionale, o come vengono spesi i famosi 35 € giornalieri, … . Spesso si ha l’impressione che i giudizi espressi e le scelte fatte o condivise non siano (e, drammaticamente, non possano) minimamente essere condizionate da dati di realtà.

Sembra che sia sempre più considerata legittima, giustificabile, addirittura apprezzabile, la discriminazione, cioè l’azione di discriminare, di escludere gruppi di persone sulla base di categorie e criteri che collocano quei gruppi di persone su un gradino più basso nella scala degli aventi diritto a dignità e rispetto.

È una società con lo sguardo corto e basso e con il cuore chiuso che non esita a distinguere in modo assolutamente categorico i migranti “economici” dai richiedenti protezione internazionale, ritenendo che i primi non abbiano alcun diritto di arrivare nel nostro paese. Ma davvero qualcuno può pensare che il “problema immigrazione” si possa risolvere chiudendo i porti, pattugliando le frontiere di terra e le coste, respingendo o riportando in Libia (nelle “strutture di accoglienza” libiche) chi viene intercettato in mare? In questi mesi, a parte la formula magica “aiutiamoli a casa loro” (sì ma quando? E come? Fornendo motovedette all’esercito libico? Riducendo i fondi per la cooperazione internazionale? Costruendo centri di “identificazione” sulle frontiere a sud della Libia?) non si è sentito praticamente nessuno fare ragionamenti seri sulle cause profonde del fenomeno delle migrazioni, sulle politiche nazionali e internazionali che si possono attivare per ridurre la necessità per tanta gente di lasciare il proprio paese, e si sente solo qualche sparuta voce sostenere che, per esempio, per ridurre il numero degli ingressi irregolari è necessario attivare canali e modalità regolari di arrivo.

E invece, a parole, si tende a semplificare tutto in maniera assoluta. Ma nessuno come chi lavora da anni in questo ambito sa che la “questione migrazioni” è una questione complessa, dalle mille implicazioni e sfaccettature, e che è bene diffidare di chiunque neghi o semplifichi troppo tale complessità e di chiunque proponga soluzioni prêt-à-porter.

UMANITÀ IN ALTO MARE. È quella rappresentata da chi, come anche noi di OIKOS, da anni incontra persone straniere e che oggi si sente lontano da molte cose che stanno avvenendo.  Nel linguaggio corrente probabilmente anche noi saremmo catalogati tra i “buonisti” (ma poi, cosa vuol dire? E cos’è il ”buonismo”? Il contrario del “cattivismo”?). Siamo preoccupati e nello stesso tempo rattristati e un po’ indignati per quello che sta succedendo e per quello che e le generazioni più giovani stanno vedendo e magari assimilando.

Qualche volta ci viene il dubbio che quello che stiamo facendo abbia poco senso. Ma, in fondo, noi pensiamo sia importante continuare a fare ciò che ci ha visto impegnati negli ultimi 24 anni. Non siamo ingenui, né sprovveduti, né idealisti (beh, questo forse sì un po’!). Sappiamo che affrontare il fenomeno migratorio non è semplice, che ci sono dei problemi e che sono necessari intelligenza, risorse e collaborazione per affrontalo seriamente. Solo, noi continuiamo a credere che a ogni persona, in ogni momento vada riconosciuta la stessa dignità che ognuno di noi rivendica per sé.

Forse è proprio questo il senso del nostro lavorare, la direzione che noi, con il nostro impegno vogliamo continuare a indicare.  Anche il nostro ambulatorio è un po’ come un porto: le persone arrivano, cercano aiuto e, quando stanno meglio, proseguono il loro percorso. Noi facciamo questo: offriamo una chance a chi, con la salute, potrebbe perdere anche la speranza.

E, in ogni caso, noi il nostro “porto” non lo chiudiamo!

Chiara Boninsegna, Associazione OIKOS di Bergamo e del GrIS Lombardia.

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