Mission Embrace. Il mercato della cronicità
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- 16 Aprile 2019
Gavino Maciocco
Mentre il Servizio sanitario nazionale è sempre più sull’orlo di una crisi, inseguendo un’emergenza dietro l’altra, gli altri – i beneficiari di ritardi e inefficienze del SSN scientemente provocate – si stanno organizzando, coprendo (a loro uso e consumo) il campo d’azione che il SSN sta trascurando: la gestione delle cronicità.
Embrace è la nuova linea commerciale di Novartis, specializzata nella gestione della cronicità. A formarla è una squadra di professionisti che si assume il compito di “abbracciare” (questo è il significato in italiano del nome assegnato al progetto) la rete di player coinvolti, in modo da favorire e ampliare l’accesso alle cure, assicurando la continuità terapeutica per il maggior numero possibile di pazienti. «Tale squadra è composta da un gruppo di 80 giovani laureati in materie scientifiche che avranno il compito di visitare il medico di famiglia per informarlo in merito ad alcune patologie croniche. Quindi non si tratterà di informazione di prodotto ma di informazione di patologia. In questo modo aiuteranno anche il medico di famiglia a formulare una diagnosi più appropriata» ha detto Francesco Barbieri, Head of Embrace franchise di Novartis Italia. «I pazienti che il medico di famiglia individuerà grazie a questo network saranno direttamente in contatto con lo specialista di riferimento, e verranno trattati con farmaci innovativi che vengono somministrati solo in ospedale o nei centri specialistici, per poi tornare a essere gestito dal medico di famiglia» ha aggiunto. «Quindi l’obiettivo finale è proprio quello di riuscire ad avere una gestione a 360 gradi del paziente, avere meno dispersione possibile evitando trattamenti magari non ottimali e quindi dimezzare i tempi sia di diagnosi che di accesso al trattamento» (vedi articolo)[1].
Alla prima lettura della notizia ho pensato che si trattasse di uno scherzo, dato il che il lancio delle agenzie su “Mission Embrace” è avvenuto il 1° di aprile. Ma poi ci sono i video, le interviste, le riprese del convegno – senza dubbio la notizia è vera: nei prossimi mesi 15 mila medici di famiglia saranno avvicinati, “abbracciati”, da giovani laureati che li aiuteranno nella gestione delle malattie croniche. Se la notizia non è uno scherzo, è certamente una proposta indecente, indegna di un sistema sanitario avanzato come il nostro che ha prodotto – almeno sulla carta – un altrettanto avanzato Piano Nazionale della Cronicità[2]. Si tratta di un documento del Ministero della salute del 2016 che fa proprie le parole chiave del Chronic Care Model: empowerment del paziente inteso come abilità a “fare fronte” alla nuova dimensione imposta dalla cronicità e sviluppo della capacità di autogestione (self care); approccio multidimensionale e di team e non solo relazione “medico-paziente”; costruzione condivisa di percorsi integrati, personalizzati e dinamici e superamento dell’assistenza basata unicamente sulla erogazione di prestazioni, occasionale e frammentaria; presa in carico pro-attiva ed empatica e non solo risposta assistenziale all’emergere del bisogno. «In tale concezione – si legge nel documento – le cure primarie costituiscono un sistema che integra, attraverso i Percorsi Diagnostico- Terapeutico-Assistenziali (PDTA), gli attori dell’assistenza primaria e quelli della specialistica ambulatoriale, sia territoriale che ospedaliera e, in una prospettiva più ampia, anche le risorse della comunità (welfare di comunità). La costruzione di PDTA centrati sui pazienti è garanzia di effettiva presa in carico dei bisogni “globali” e di costruzione di una relazione empatica tra il team assistenziale e la persona con cronicità ed i suoi Caregiver di riferimento».
Il Piano Nazionale della Cronicità è rimasto sulla carta per il semplice, banale motivo che il contrasto alle malattie croniche – a partire dalla loro prevenzione – non è stato una priorità dei precedenti governi, tanto meno di quello attuale. Perché come si legge in un paper di Lancet “Le politiche globali e nazionali non sono riuscite a fermare – in molti casi anzi hanno contribuito a diffondere – le malattie croniche”[3]. In Italia poi il processo di progressivo smantellamento del Servizio sanitario nazionale non poteva non avere un impatto negativo sulla gestione delle malattie croniche a livello regionale, come dimostrano i casi della Lombardia e della Toscana.
Il caso Lombardia
Saluteinternazionale ha seguito – soprattutto grazie alle analisi di Aldo Gazzetti – il processo di un anomalo piano della cronicità promosso dalla Regione Lombardia, con i seguenti post:
- Lombardia: i malati cronici al miglior offerente (aprile 2017)
- Sanità lombarda e cronicità: riforma confusa con metodo (maggio 2017)
- Il Piano nazionale cronicità e l’anomalia lombarda (maggio 2017)
- Sanità e mercato in Lombardia. L’assalto alla diligenza (novembre 2017)
- Lombardia: in che mani finiranno i malati cronici? (aprile 2018)
In estrema sintesi, la bizzarra via lombarda alla gestione della cronicità, in aperto contrasto con le linee-guida nazionali, si basa sulla creazione di una fitta rete di organizzazioni pubbliche e private (294 gestori e dei 1072 erogatori) in concorrenza tra loro per accaparrarsi i milioni di pazienti cronici residenti in Lombardia. E così alla vigilia delle ultime elezioni regionali partirono 4 milioni di lettere per invitare i pazienti cronici a scegliersi un “gestore”: ma la risposta è stata un colossale flop, segno della scarsissima fiducia dei pazienti nell’iniziativa regionale. Ad oggi infatti ci sono stati solo 15.000 nuovi arruolamenti, l’80% dei quali hanno riguardato le cooperative dei medici di medicina generale (MMG), più attivi nel proporre e convincere i propri assistiti alla sottoscrizione del patto di cura[4]. Ma i pochi e pur volenterosi MMG lombardi che si impegneranno nella gestione delle malattie croniche avranno le armi spuntate per garantire ai propri pazienti un’assistenza di qualità. Privi di un’organizzazione distrettuale in grado di consentire la formazione di team multiprofessionali e multidisciplinari, i MMG si dovranno affidare ai Centri (privati) di servizi (un’altra ideona della sanità lombarda) per ottenere l’intervento di un infermiere o di uno specialista, sempre in un’ottica prestazionale e non di effettiva presa in carico.
Il caso Toscana
Siamo nell’aprile del 2008 e il Consiglio Regionale della Toscana approva il Piano Sanitario Regionale 2008-2010, che introduce un’inedita priorità: la sanità d’iniziativa – basata sul Chronic Care Model – come strumento di prevenzione e controllo delle malattie croniche, dato che – si legge nel documento di Piano – “l’incremento della prevalenza delle cronicità rappresenta uno dei problemi sanitari e sociali più rilevanti che la nostra società debba affrontare.” Il biennio 2008-2010 servirà per attivare il progetto, per definire le strategie e le linee guida, per la formazione del personale (in particolare medici di medicina generale e infermieri). Le attività partiranno di fatto agli inizi del 2010, con modalità, caratteristiche e risultati descritti nei seguenti post:
- La sanità di iniziativa attraverso gli occhi dei pazienti (novembre 2012)
- La sanità di iniziativa in Toscana. Parte 1 (novembre 2015)
- La sanità di iniziativa in Toscana. Parte 2 (febbraio 2017)
In Toscana, dove più della metà della popolazione è assistita con sanità d’iniziativa,
– si legge nel terzo post della lista che riporta i dati fino al 2015 – il Chronic Care Model ha dimostrato di essere uno strumento efficace nella gestione delle malattie croniche, prevenendo l’aggravamento delle patologie, riducendo il ricorso ai ricoveri ospedalieri e gli accessi al pronto soccorso. Ma i risultati positivi non sono serviti a dare slancio e progressione al progetto, che viceversa negli ultimi 3 anni ha registrato una fase di stallo e in alcune aree della Regione evidenti segni di arretramento: si sono bloccati gli arruolamenti dei nuovi pazienti, si sono ridotte le attività, si è andato sfaldando il lavoro multiprofessionale e multidisciplinare, fondamentale per il successo dell’iniziativa.
I motivi dello stallo sono fondamentalmente tre.
- Lo shock della riforma sanitaria regionale e l’indebolimento dell’organizzazione delle cure primarie. Una delle conseguenze più nefaste della riforma che ha portato alla fusione delle Asl è stata la paralisi delle cure primarie e dei servizi territoriali. Le zone-distretto – anch’esse oggetto di processi di fusione – sono state private di autonomia gestionale e le loro direzioni spogliate di poteri decisionali, essendo questi concentrati a livello aziendale e attribuiti a vari dipartimenti. In un post pubblicato esattamente un anno fa scrivemmo: “In questo buco nero di inefficienza e imprudenza sono finiti programmi di sviluppo del territorio – come la Sanità d’iniziativa e il Chronic care model – che pur avendo dimostrato di poter migliorare la salute della comunità ora rischiano di essere cancellati”. Che si trattasse di un clamoroso errore dell’assetto organizzativo lo ha (tardivamente) compreso la stessa Giunta regionale toscana che con una delibera (n. 269) dello scorso marzo ha deciso di attribuire ai responsabili di zona-distretto funzioni di responsabilità nella gestione dei processi assistenziali e quindi anche nella gestione della sanità d’iniziativa.
- L’assenza della politica. Dieci anni fa la gestione delle malattie croniche e la sanità d’iniziativa erano al top delle priorità della politica sanitaria toscana, da alcuni anni viceversa sono scomparse dall’agenda dei responsabili politici. Aver dissipato un patrimonio di idee, di energie, di professionalità è davvero sorprendente se si considera che l’Assessore alla sanità che lanciò la sanità d’iniziativa (Enrico Rossi) è la stessa persona che poi è diventata (ed è tuttora) Presidente della Giunta regionale.
- L’atteggiamento ostruttivo dei sindacati della medicina generale. Tale atteggiamento nasce dall’insensata pretesa del sindacato di condizionare ogni soluzione organizzativa, ogni scelta manageriale che riguardi le cure primarie, creando continui corto-circuiti tra la dimensione tecnica e scientifica e quella prettamente sindacale. Va detto che la posizione del sindacato – tendenzialmente ostile a ogni forma di collaborazione multi professionale e di lavoro in equipe (come la partecipazione alle Case della salute) – non rispecchia l’atteggiamento e le scelte di tanti medici di famiglia che sul campo sono spesso i primi sostenitori della collaborazione multi professionale e promotori della sanità d’iniziativa.
Conclusioni
“Quindi non si tratterà di informazione di prodotto ma di informazione di patologia”. Con questa breve frase, pronunciata da un dirigente della Novartis, si annuncia un radicale cambiamento nella strategia commerciale di Big Pharma. Il focus non è più (o non solo) sulla vendita del farmaco, ma sull’organizzazione di percorsi diagnostico-terapeutici e sulla costituzione di reti cliniche composte da MMG e specialisti, rigorosamente selezionati e fidelizzati. Tutto il resto, dalla prescrizione di farmaci all’uso di biotecnologie, verrà di conseguenza. Per alcune patologie croniche si costituiranno dei pacchetti assistenziali dal prezzo forfettario (bundled payment) che potranno essere utili nel mercato assicurativo.
Mentre il Servizio sanitario nazionale è sempre più sull’orlo di una crisi, inseguendo un’emergenza dietro l’altra – dalla mancanza di personale agli interminabili tempi di attesa -, gli altri (i beneficiari di ritardi e inefficienze del SSN scientemente provocate) si stanno organizzando, coprendo (a loro uso e consumo) il campo d’azione che il SSN sta trascurando – la gestione delle cronicità.
Bibliografia
- Altri link sull’evento:
Novartis lancia la linea embrace: la sfida della cronicità per il SSN. Affaritaliani.it
Adesso ci sono anche gli embrace account. Fedaiisf.it
Novartis: sfida delle cronicità. Lanciato il progetto embrace. Notizietiscali.it - Ministero della salute (2016), Piano nazionale della cronicità (ultimo accesso aprile 2019).
- Geneau R, et al. Raising the Priority of Preventing Chronic Diseases: a Political Process. The Lancet 2010; 376(9753):1689-98
- Da un post di Aldo Gazzetti in corso di preparazione.
All’origine del flop della Presa in Carico (PiC) lombarda (con numeri un po’ diversi da quelli del post) vi è un equivoco di fondo sulla “natura” della Medicina territoriale: chi esercita questa professione “per vocazione/missione” non si è mai posto il problema di una formale “presa in carico” di questa o quella patologia, per il semplice fatto che si è sempre dato l’obiettivo di entrare in relazione stabile ed assistere con continuità una persona nella sua interezza psicofisica, a prescindere da steccati specialistici ed approcci parcellari. La “presa in carico” dei pazienti cronici è connaturata alla scelta fiduciaria e, direi quasi, codificata nel DNA della medicina del territorio per via delle coordinate spazio-temporali e relazionali del setting.
Lo dimostrano gli ormai 20 anni di pratica dei percorsi diagnostico-terapeutici che hanno catalizzato la “restituzione” al MMG dei pazienti seguiti impropriamente dai centri specialistici fino ai primi anni del secolo. Forse qualche decisore pubblico o qualche collega si era fatto l’immagine delle cure primarie come una sorta di ufficio smistamento pazienti, da “recapitare” a questo o quello specialista per uno scontato passaggio in carico.
Da questa premessa, “naturale” e data per scontata dalla maggioranza dei generalisti, è derivato lo stupore per la proposta di una formale Presa in Carico, con il suo apparato amministrativo farraginoso e ingombrante. Che senso ha l’introduzione di una nuova ed impegnativa prassi burocratica, come il combinato disposto Patto di cura più PAI, quando di routine gli assistiti affetti da una condizione cronica sono seguiti da anni e in modo informale secondo PDTA opportunamente adattati alle esigenze dei singoli pazienti? In molti casi il PAI è semplicemente superfluo perché la cultura dei Percorsi è penetrata da tempo nel repertorio delle buone pratiche sul territorio.
Così si sono posti la stessa domanda anche i diretti interessati che, tirate le somme della contabilità mentale in termini di vantaggi/svantaggi, hanno deciso per il mantenimento dello statu quo. Che senso aveva per assistiti affetti da monopatologia o polipatologie – tipicamente ipertensione e/o diabete tipo II in buon compenso, complianti a cure e controlli, senza complicanze d’organo – il passaggio armi e bagagli dal territorio ad un Gestore nosocomiale anonimo, lontano e orientato da decenni all’acuzie?
Ben diverso è il caso degli assistiti monopatologici o polipatologici complessi, fragili, instabili, con disabilità/inavlidità o non autosufficienza. Qui si il PAI poteva essere lo strumento per ottimizzare i processi assistenziali, nel senso di un migliore coordinamento clinico e soprattutto organizzativo tra primo e secondo livello, anche con un eventuale passaggio in cura per i casi più impegnativi, come peraltro già accade in pratica. Conveniva concentrare risorse umane ed organizzative su questa specifica fetta di bisogni assistenziali complessi; su questo terreno il sistema sconta un deficit di integrazione/continuità, specie per l’assenza di organismi di raccordo e case management tra ospedale e territorio, com’erano gli ex distretti sanitari territoriali, improvvidamente messi in liquidazione. Ma forse se ci si accetta pragmaticamente di imparare dall’esperienza per trarre insegnamento dagli inciampi del reale si può ancora rimediare. In caso contrario i fatti, e non polemiche strumentali, si incaricheranno di presentare il conto!