Cure primarie in Senegal
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- 3 Giugno 2019
Jacopo Bianchi e Chiara Milani
Il privilegio di poter frequentare le strutture sanitarie osservandone il funzionamento dall’interno e di ascoltare e far emergere il punto di vista del personale che vi lavora, ci ha permesso di mettere in discussione e ridefinire i nostri punti di riferimento sconfinando ampiamente dagli obiettivi scientifici che avevamo previsto.
Un progetto di ricerca inserito in un partenariato di cooperazione tra Italia e Senegal è stato l’occasione per noi, medici in formazione specialistica in Igiene e Medicina Preventiva, di svolgere un periodo del nostro percorso in un paese dell’Africa Occidentale. Da Agosto a Dicembre 2018 abbiamo trascorso cinque mesi in tre differenti regioni del Senegal: Dakar, Kaolack e Sedhiou (Figura 1).
Figura 1. Senegal. Dakar, Kaolack e Sedhiou.
Senegal
Abitanti: 15.851.000
Speranza di vita alla nascita m/f: 65/69
Mortalità bambini < 5 anni: 45/1.000 nati vivi.
Mortalità materna: 315/100.000 nati vivi.
Spesa sanitaria pro-capite ($): 53
Il nostro compito era di recarci quotidianamente in strutture sanitarie territoriali, Poste e Centre de Santé, per analizzare le barriere d’accesso alle cure, i bisogni formativi del personale sanitario e le condizioni delle strutture. Inevitabilmente, è stato necessario triangolare dati epidemiologici con informazioni provenienti da interviste ai professionisti, focus group con la popolazione e osservazione partecipante. Il privilegio di poter frequentare le strutture sanitarie osservandone il funzionamento dall’interno e di ascoltare e far emergere il punto di vista del personale che vi lavora, ci ha permesso di mettere in discussione e ridefinire i nostri punti di riferimento sconfinando ampiamente dagli obiettivi scientifici che avevamo previsto. I confini tra ricerca, formazione e coinvolgimento emotivo apparivano di giorno in giorno impossibili da stabilire e anzi superflui: al lavoro di ricerca si associava inevitabilmente una co-costruzione di senso e di riflessione che ha portato a situare le riflessioni nel nostro contesto di provenienza. Al termine dell’esperienza, con uno sguardo a tratti distaccato, a tratti sognante, a tratti semplicemente nostalgico, ci siamo resi conto di aver collezionato molti pezzi di un puzzle il cui significato complessivo rimane sfuggente. E così quei pezzi appaiono rientrare in un disegno più grande di globalizzazione che crea disuguaglianze e asimmetrie di potere, di tensione verso lo sviluppo e di retaggi della colonizzazione.
È difficile riordinare in un flusso strutturato i pensieri che ci hanno investito durante e dopo l’esperienza. Nel provare a ripercorrere il percorso a ritroso, proveremo ad affrontare le riflessioni ascrivendole ai seguenti ambiti: la tensione di percepirsi bianchi in un contesto altro, la conoscenza dell’organizzazione delle cure primarie, le assonanze con le recenti indicazioni internazionali e il tentativo di apprendere alcuni elementi di quel “fare salute” per attualizzarlo nel nostro Paese. Trasversalmente a questo, la certezza dell’interconnessione delle vite e delle storie tra l’al di là e l’al di qua del Mediterraneo.
Ora accendiamo la cassa che ci ha seguito fedele, e suona “Il mio nemico” di Silvestri, ricordandoci quel potere e interesse economico nella cui ombra ci muovevamo anche noi, fra contraddizioni e dubbi:
“Finché sei in tempo tira
e non sbagliare mira
probabilmente il bersaglio che vedi
è solo l’abbaglio
di chi da dietro spera
che tu ci provi ancora
perché poi gira e rigira
gli serve solo una scusa… ”
La quotidianità in Senegal era spesso tesa tra la difficoltà di accettare e coniugare le notizie che rimbalzavano dall’Italia con i racconti delle persone con cui trascorrevamo le giornate. In Italia e in Europa, in un clima di crescente intolleranza e razzismo, si parlava di esternalizzazione delle frontiere e di blocco degli sbarchi attraverso la criminalizzazione delle ONG. La costruzione di un immaginario di migrante responsabile della povertà e della crisi economica rispondeva ad un disegno di distrazione di massa che vuole mettere i penultimi contro gli ultimi. Parallelamente, ogni giorno sentivamo le storie di chi sognava quel (nostro) Paese razzista, di chi voleva partire o raccontava di un fratello, un amico, un figlio che aveva intrapreso un viaggio, morendo in Libia o ritrovandosi ora da due anni in “attesa” –o imprigionato?– in un “Centro di Accoglienza” italiano. In questa dissonante realtà ascoltavamo anche gli stranianti punti di vista del personale sanitario che non raramente sosteneva la tesi del “mica l’Europa può accogliere tutti!” e l’importanza di non criminalizzare tali politiche, forse anche in soggezione nel parlare con noi, Toubab, europei, chiara (non solo in senso figurato) immagine di quel mondo.
“… la dittatura c’è ma non si sa dove sta
non si vede da qua, non si vede da qua… ”
Per quanto riguarda l’organizzazione del sistema socio-sanitario a livello territoriale, abbiamo osservato come da un lato esso rappresenti una dimensione primaria, dall’altro sia supportato in maniera ambivalente e contraddittoria. Infatti, benché l’organizzazione sia centrata sulla prossimità e sulla vicinanza alla comunità attraverso piccole strutture sanitarie e dispensari distribuiti in modo abbastanza capillare sul territorio, tali servizi risultano poco finanziati e dotati di scarse risorse (sia materiali che umane), insufficienti per rispondere realmente sia in termini quantitativi che qualitativi ai bisogni della popolazione. In questo contesto, nei confronti di una popolazione povera e poco istruita, che nelle zone rurali vive di agricoltura di sussistenza e nelle zone urbane è in gran parte priva di un impiego, l’attività degli agenti comunitari di salute (relais communautaires e Badjenu Gok) si propone come anello di congiunzione tra servizi sanitari e popolazione, l’appendice che garantisce la capillarità e vicinanza alle comunità. Queste figure si occupano delle attività di promozione della salute e di sensibilizzazione nelle comunità, di individuazione dei bisogni e di facilitazione nell’accesso alle cure. Tuttavia, non sono né pagate, né inserite formalmente nel sistema e svolgono sì un lavoro quotidiano, ma puramente volontario.
Abbiamo inoltre potuto osservare gli effetti della frammentata disponibilità di finanziamenti e risorse che non tiene conto delle peculiarità e dei fabbisogni locali specifici esitando in una disomogenea distribuzione di servizi, materiale e personale. In quel contesto – ma un parallelismo con il nostro Paese risulterebbe calzante– i bisogni prettamente sanitari si intrecciano con quelli sociali che risentono del contesto di vita e, con peso variabile, contribuiscono a produrre lo stato di salute della popolazione. Di conseguenza, l’attenzione alla qualità, accessibilità e disponibilità dei servizi sanitari erogati non può prescindere dall’attenzione alle condizioni di vita e ambientali che incidono sull’accesso: mezzi per pagare le cure, distanza dalle strutture, abitudini e credenze, significato dei concetti di salute e malattia. A questo proposito, i progetti specifici che insistono su singole malattie o progetti a termine gettano le basi per un indebolimento del sistema con il tradimento dei principi di universalità, di visione del sistema, ma anche di ruolo centrale in capo alle comunità locali.
“… la fregatura è che è sempre un altro che paga
e c’è qualcuno che indaga per estirpare la piaga
però chissà come mai qualsiasi cosa accada
nel palazzo lontano nessuno fa una piega.
Serve una testa che cada e poi chissenefrega… ”
Facendo un bilancio a posteriori di ciò che avevamo portato a casa dalla nostra esperienza, ci siamo accorti di come il nostro Paese del “Nord del mondo” possa apprendere da un paese a risorse limitate pratiche e modelli che esistono in quei contesti: il concetto di salute come inscindibile dall’appartenenza a una comunità, il ruolo degli agenti comunitari e delle donne nel promuovere la salute, il peso dei servizi territoriali nel rispondere ai bisogni, la coniugazione tra medicina “tradizionale” e “occidentale”. Reverse innovation (come spiega un recente post su questo sito[1]) è il termine che definisce questo concetto. Proprio durante il periodo del nostro soggiorno si è svolta ad Astana, in Kazakistan, la conferenza mondiale sulla Primary Health Care (PHC), organizzata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la cui dichiarazione conclusiva, riprendendo la Dichiarazione di Alma Ata [2], afferma: “Noi troviamo eticamente, politicamente, socialmente ed economicamente inaccettabile che persistano iniquità nella salute e nei risultati di salute (…). Non possiamo accettare la sottovalutazione dell’importanza della promozione della salute (…). Promuoveremo l’azione multisettoriale e la copertura sanitaria universale, impegnando tutti gli attori e le comunità locali a rafforzare la PHC”[3]. Ecco che in questo momento storico, appare quanto mai attuale apprendere e attualizzare queste pratiche nei nostri contesti.
Conclusioni
Lungi dal voler trarre conclusioni, quelle esposte in questo post sono solo le nostre riflessioni di specializzandi di sanità pubblica catapultati in un Paese in via di sviluppo e “improvvisati” cooperanti, con la possibilità di sperimentare, con modalità indubbiamente più forti dal punto di vista emotivo, dinamiche che ritroviamo anche quotidianamente in Italia in termini di disuguaglianze in salute, barriere d’accesso alle cure e ruolo delle condizioni di vita nel produrre sofferenza e malattia. Abbiamo anche potuto toccare con mano l’incapacità di leggere soluzioni altre rispetto agli usuali sistemi di riferimento, che ci forniscono le chiavi di lettura della nostra quotidianità: in Senegal ci siamo scontrati con la difficoltà che esprimevano gli operatori sanitari nel comprendere – o anche solo immaginare – un sistema sanitario meramente pubblico e finanziato dalla fiscalità generale, essendo cresciuti in un mondo che ha sempre presentato loro una realtà differente.
L’esperienza ci ha restituito meno certezze di quelle che avevamo in partenza, ma anche la consapevolezza che i fenomeni e le situazioni che osserviamo in qualsiasi parte di mondo sono inevitabilmente interconnessi e non separabili. Nel nostro mondo globalizzato le diverse situazioni possono essere inserite nello stesso puzzle, così che tanto in un progetto di cooperazione in un paese dell’Africa sub-sahariana, quanto lo stare in una realtà all’interno del servizio sanitario italiano come specializzandi non può prescindere dal leggere e approcciare la realtà con la lente della salute globale.
Jacopo Bianchi e Chiara Milani. Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina preventiva. Università di Firenze.
Bibliografia
- Stefanini A. Imparare dal Sud del mondo. Salute Internazionale, 23.04.2019
- Declaration of Astana [PDF: 3,7 Mb]. Global conference on primary health care. Astana, Kazakhstan 25-26 October 2018. WHO and UNICEF, 2018
- Dichiarazione di Alma-Ata sulla PrimaryHealth Care [PDF: 144 Kb]