La più Cara del Reame

Nicoletta Dentico

Il prezzo di Zolgensma (Novartis) è – in un’unica dose –  di oltre 2 milioni di dollari. Il problema non è (si fa per dire) il prezzo, ma il modo con cui questo è stato costruito: non per i costi di produzione, ma per il suo “valore intrinseco”. Una tendenza da arginare al più presto.

In un rapporto pubblicato lo scorso maggio, Access to Medicines Foundation tenta di rispondere a una domanda importante: le aziende farmaceutiche hanno fatto qualche progresso in materia di salute globale?[1] Lo studio, il primo del genere con una retrospettiva analitica di dieci anni, fissa lo sguardo su 20 aziende e valuta se, e come, sia cresciuto l’impegno di big pharma sul fronte dell’accesso ai farmaci essenziali. Vari sono i profili di misurazione della performance: la ricerca e sviluppo di nuovi farmaci, la partecipazione a partenariati pubblico-privati, la adesione a programmi di donazione dei farmaci, le licenze assegnate ai produttori di farmaci equivalenti, etc.

Qualcosa si muove sotto il sole dell’industria farmaceutica, pare dire il rapporto. Dopo decenni di controversie aspre su questo terreno della salute globale, simbolicamente potente per i tratti di ingiustizia strutturale che configura, le aziende oggi sembrano più disposte a considerare l’accesso ai farmaci un tema strategico. Certo, il loro impegno risente di fluttuazioni correlate a ragioni di mercato (acquisizioni e disinvestimenti), e la partita della proprietà intellettuale resta tutto sommato ancora molto critica: solo 4 aziende su 20 si sono adeguate all’attuazione delle flessibilità previste dall’accordo TRIPS dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc). [2]  Ma decisivi fattori di contesto facilitano oggi il loro impegno, più che in passato.  La comunità internazionale ha dedicato grande attenzione al tema e a partire dalle big three  (Aids, tubercolosi e malaria) sono nate iniziative per ideare soluzioni, sia per l’accesso ai farmaci già disponibili sul mercato che per la ricerca di nuovi trattamenti più adatti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha avuto un ruolo chiave nel coordinare l’azione internazionale. È aumentato il numero di partnership per l’innovazione e produzione di farmaci contro le (cosiddette) malattie della povertà – da 38 a 90 – e di conseguenza i progetti di ricerca sulle malattie dimenticate. Nuovi incentivi sono in campo per stimolare le aziende a rispondere celermente all’esplosione di focolai epidemici, come quelli di Ebola e Zika.

Il mancato accesso ai farmaci essenziali è una questione che riguarda 2 miliardi di persone e storicamente colpisce i paesi a basso reddito. Stiamo parlando di una battaglia per il diritto alla salute che compie venti anni, se vogliamo fissare per convenienza il suo debutto internazionale con la mobilitazione della società civile – inclusi medici e pazienti – alla prima conferenza interministeriale dell’Omc , a Seattle, nel novembre 1999.  Invece di trovare una soluzione di prospettiva, dopo venti anni di azioni diplomatiche, dimostrazioni nelle piazze, battaglie legali, e pronunciamenti di corti supreme, il problema è divenuto globale. Ironia della storia? Facile profezia, piuttosto. Già a Seattle era chiaro che, se non attaccata per quello che era, un’immensa omissione di soccorso, la morte dei pazienti poveri a causa di malattie per cui un farmaco salvavita esisteva, ma era troppo costoso, avrebbe anticipato una deriva destinata a colpire anche i pazienti del mondo industrializzato. Così è stato. Da qualche tempo, i paesi ricchi devono affrontare ostacoli sempre più insormontabili per garantire le cure essenziali alle loro popolazioni. A dispetto delle incoraggianti tendenze registrate dal rapporto di Access to Medicines Foundation, le questioni non risolte sul ruolo delle case farmaceutiche nella salute globale restano spinose. In alcuni casi si aggravano, vista la posizione dominante conferita loro dal patogeno regime di proprietà intellettuale. [3] Il rapporto ad esempio non affronta il tema della segretezza che avvolge il negoziato sul prezzo di un farmaco: viatico a una dispersione di fondi pubblici immensa.

Con coraggiosa determinazione, il direttore della Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha presentato alla assemblea dell’Oms, insieme ad altri dieci governi, una risoluzione sulla trasparenza nel settore farmaceutico[4] che ha cominciato a fare presa sul serio nel dialogo politico intergovernativo.[5] Vogliamo augurarci che riesca a mutare le dinamiche nel rapporto tra governi e industria farmaceutica, anche in seno alla recalcitrante Europa. [6] La mancanza di trasparenza nei negoziati fra agenzie del farmaco e aziende sul prezzo dei farmaci, le clausole di segretezza brandite dalle multinazionali come condizione per abbassare il prezzo dei loro prodotti, da bilanciare con le incertezze sui benefici di salute delle innovatività terapeutiche degli ultimi anni, mettono a dura prova la sostenibilità dei sistemi sanitari. Non solo sotto il profilo economico, ma anche della possibilità di nuove strategie a disposizione del servizio pubblico. Tanto per fare un esempio, nel 2018 la Norvegia ha deciso di rigettare il 51% dei nuovi farmaci e strumenti immessi sul mercato, per via dei loro prezzi eccessivi a fronte di dati clinici carenti. Oggi, solo Svizzera e Giappone hanno sistemi di trasparenza in vigore. Nel resto del mondo è giungla.

La spesa farmaceutica mondiale orbita alla cifra di 1,2 trilioni (1 trilione = 1000 miliardi) di dollari nel 2018. Si prevede che aumenterà di altri 1,5 trilioni entro il 2023.  Nei paesi OCSE, l’acquisto dei medicinali equivale a una fetta dei bilanci sanitari che va dal 7 al 41%.  Secondo l’analisi dell’agenzia americana Rx Saving Solutions, il costo di 3400 farmaci in America è aumentato del 17% nel 2019, anche per gli effetti della contrattazione fra assicurazioni e aziende farmaceutiche (altro capitolo di opacità strutturale, oggi sotto tiro da parte della amministrazione Trump, che merita attenzione, vista la quantità di adepti di cui gode il modello assicurativo anche in Europa). Nel 2018, è cresciuto a vista d’occhio (+42%) l’impatto sulla spesa farmaceutica globale delle terapie contro malattie croniche complesse. Intanto, la ricerca genetica ha conferito nuovo impulso all’innovazione: 46 nuovi prodotti sono stati lanciati negli ultimi cinque anni.  Ma se non cambiano le regole del gioco, che ce ne facciamo di nuove terapie, sempre più fuori controllo dal punto di vista del prezzo?

In un articolo di fine agosto, il New York Times[7] raccontava della storia di Dawn Patterson, affetta da una rara e dolorosissima patologia genetica alle ossa, ereditata fra l’altro dai suoi due figli. Il farmaco Strensiq, prodotto da Alexion Pharmaceuticals, ha finalmente salvato Patterson dalla ferocia del dolore e da una vita di reclusione, ma la botta è arrivata quando la International Brotherhood of Boilermakers, la  assicurazione sindacale che copre la terapia della signora, ha ricevuto dalla azienda una richiesta di rimborso di 6 milioni di dollari per un anno di somministrazione della terapia. La sbalorditiva storia dello Strensiq ha quasi superato la vicenda, altrettanto inquietante, del farmaco Zolgensma, prodotto dalla svizzera Novartis, e approvato negli Stati Uniti nel maggio 2019. Zolgensma è stato raccontato come il medicinale più costoso della storia.  Si tratta di una terapia genetica che si amministra con una sola dose, e serve per il trattamento pediatrico di bambini di età inferiore ai due anni affetti da atrofia muscolare spinale (SMA). È un trattamento salvavita, segna uno storico passo avanti nella cura della patologia, perché si somministra in un’unica dose. Il suo prezzo è 2,125 milioni di dollari. [8]

La Novartis ha dichiarato di aver costruito il prezzo del farmaco su un “modello basato sul valore” (value-based pricing model).  Detto in altre parole, il prezzo sarebbe direttamente proporzionale al valore terapeutico intrinseco del medicinale.  L’azienda assicurerebbe una riduzione del 50% sulle medie di spesa corrente per la cura della SMA, incluso il costo per una terapia decennale per la SMA cronica, che ruota intorno ai 4 milioni di dollari.  L’unico farmaco alternativo in uso, Spinraza di Biogen, costa 750 mila dollari per il primo anno,  e 375mila per gli anni successivi.

Alcuni analisti finanziari confermano: il prezzo fissato da Novartis potrebbe diventare un prezzo di riferimento per altre terapie genetiche in corso di sviluppo.  Ciò che Novartis non dice è che Zolgensma, dalla cui vendita prevede un profitto di 2,4 miliardi di dollari l’anno, è frutto della ricerca finanziata dalla maratona di Telethon in Francia. Nella fattispecie, da un laboratorio non profit creato ad hoc, Genethon, che per anni si è cimentato sulla atrofia muscolare spinale, con un investimento di 12 – 15 milioni degli euro raccolti con la maratona televisiva. Il team di scienziati aveva scoperto che l’iniezione di un certo “vettore virale” avrebbe potuto correggere il gene difettoso. A marzo 2018, Genethon ha venduto per 15 milioni di dollari il suo brevetto alla start up americana AveXis, che già aveva nel portafoglio di ricerca il farmaco Zolgensma. Il mese successivo,  AveXis è stata acquistata dal gigante Novartis per 8,7  miliardi di dollari. Questo significa che Novartis ha introdotto nel mercato americano, e a seguire in quello europeo e giapponese, una terapia che è frutto di ricerca finanziata dalle donazioni dei cittadini.

Nessuno mette in discussione il fatto che l’industria farmaceutica debba fare profitti per continuare a operare. Ma la filosofia di costruzione del prezzo dei farmaci che sta prendendo piede deve trovare un argine, rapidamente. Assomiglia sempre di più a quella applicata alle malattie rare, che non hanno concorrenza. Il nuovo modello di business è stato sperimentato con successo nel 2013 da Gilead Sciences nel caso del Sofosbuvir (scoperto dalla biotech Pharmasset, poi acquisita), un farmaco innovativo contro l’epatite C lanciato in USA al proibitivo costo di 84 mila dollari, in Italia circa 41 mila euro a trattamento in regime ospedaliero (74 mila euro per  acquisto privato in farmacia)[9], per una terapia di 12 settimane.  Una sorta di derivato finanziario[10] . Alla stessa stregua di Gilead Sciences, Novartis con Zolgensma ha separato completamente il prezzo del farmaco dal costo del suo sviluppo, e ha deciso di farne un prodotto speculativo.

Se i governi e le agenzie internazionali come l’Oms non rigettano con fermezza la filosofia di basare il prezzo dei farmaci sul loro valore intrinseco, questo vorrà dire che avremo un mondo alla rovescia, rispetto a quanto visto finora. I farmaci essenziali finiranno per costare più degli altri, proprio perché salvavita. Allora sì che i bilanci pubblici della sanità saranno in pericolo.

Nicoletta Dentico, Direttrice, Health innovation in Practice (HIP), Ginevra.

Bibliografia

  1. Are pharmaceutical companies making progress when it comes to global health? Access to Medicines Foundation,16.05.2019.
  2. L’Accordo sugli Aspetti della Proprietà Intellettuale legati al Commercio (Trade-Related Aspects  of Intellectual Property Rights, TRIPS) è entrato in vigore nel 1995,  e prevede clausole globali per incentivare l’innovazione in campo industriale, basate su una sostanziale condizione di esclusività ventennale nella gestione del brevetti. E’ pratica diffusa delle grandi imprese quella di rinnovare la posizione dominante con diversi dispositivi di “rinverdimento” del brevetto (ever-greening, frivolous patenting, patent fencing).   Il regime di monopolio che le clausole dell’accordo TRIPS prevedono è stato oggetto di dure critiche da parte della società civile internazionale e dei governi del sud del mondo, privi di capacità industriali. L’Accordo TRIPS è stato visto giustamente come una barriera insormontabile all’accesso alla conoscenza. Nella fattispecie, la equiparazione dei farmaci a qualunque altro prodotto industriale ha suscitato gravi problemi nella lotta alle malattie infettive in passato, e potrà consegnare molte barriere anche nella lotta alle malattie croniche, per la asimmetria di potere che il sistema TRIPS legittima. Infatti, le clausole di salvaguardia  previste dall’accordo – la licenza obbligatoria, la importazione parallela, le due principali –  sono riuscite a scalfire questa asimmetria solo in alcuni casi, e con molte difficoltà. Si tratta di meccanismi procedurali molto complessi, difficilmente utilizzabili nei paesi che non hanno capacità produttiva in campo farmaceutico; inoltre, risentono in larga misura dei rapporti di forza geopolitici.
  3. Sell S, Williams O. Health under capitalism: a global political economy of structural pathogenesis. Review of International Political Economy, 09.09.2019.
  4. Dentico N. Salute pubblica, accesso ai farmaci e trasparenza sul loro prezzo: il cambio di gioco dell’Italia. La Repubblica, 22.09.2019.
  5. Il 4 ottobre  2019, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) ha pubblicato una richiesta  del governo del Sudafrica rivolta al TRIPS Council sul tema “Costi di Ricerca e Sviluppo (R&S) e Prezzi di Medicinali e Tecnologie Sanitarie”  (IP/C/W/659). In questo documento, il Sudafrica chiede al TRIPS Council dell’Omc (che si riunisce il 17 e 18 ottobre 2019) di affrontare la questione sul costo della R&S e sui prezzi finali dei farmaci.  Nel solco della pista di lavoro tracciata dall’Italia all’Assemblea 2019 dell’Oms, i delegati dell’Omc che seguono le questioni sulla proprietà intellettuale dovranno quindi discutere sui temi della trasparenza, ai sensi del documento sudafricano. Per ulteriori informazioni, si veda Keionline.org.
  6. Fletcher ER. Malta Looks for European Action in Medicines Price Transparency. Health Policy Watch, 02.10.2019.
  7. Thomas K, Abelson R. The $6 million drug claim. The New York Times, 25.08.2019.
  8. Dentico N. Farmaci: la opacità dei colossi industriali sulla formazione dei prezzi. La Repubblica, 9.09.2019.
  9. Epatite C: il diritto alla cura. Salute Internazionale 20.07.2006
  10. Americans for Tax Fairness. Gilead Sciences Price Gouger, Tax Dodger [PDF: 1,25 Mb] July 2016.

6 commenti

  1. è una situazione allucinante, ma come uscire dal ricatto delle industrie farmaceutiche? potrebbe servire una legge, almeno a livello europeo, che riconsideri l’eticità del brevetto in campo sanitario ed in particolare su quello dei nuovi farmaci “supercostosi”? Andrea

    1. Grazie Andrea. La situazione ha raggiunto un tale livello di parossismo, che non potrà durare, in ogni caso. A che serve un’innovazione che produce farmaci anche efficaci evidentemente, ma con prezzi simili? Sono convinta che le nuove sfide – una per tutte, la resistenza agli antibiotici – dovranno imporre nuovi modelli industriali intorno alla creazione produzione e circolazione di nuovi farmaci. Io ad esempio mi chiedo per quale motivo non si mette in atto sul versante farmaceutico la strategia che i paesi adottano nei confronti dell’industrial bellica, che è perlopiù pubblica, e molto sostenuta dalle fiscalità generali. Francamente, preferisco sostenere con le mie tasse una produzione farmaceutica che sappia rispondere ai bisogni delle persone, piuttosto che la produzione armiera. Il ricatto esiste, ma va spezzato. Buon lavoro!

      1. Faccio presente, a scanso di equivoci, che il farmaco Zolgensma non è stato ancora approvato da EMA, quindi non è ancora registrato in Europa. In alcuni paesi UE ci sono stati casi di piccoli pazienti che hanno avuto accesso alla terapia sotto forma di “compassionate use”, e le famiglie hanno fatto fundraising per trovare i soldi necessari (in Belgio). Ma in generale EMA non si è ancora pronunciata. Mi sembrava utile specificarlo, e ribadire che il costo esorbitante della terapia si applica al contesto statunitense.

  2. Il problema è evidentemente molto complesso: Genethon “Créé en 1990 par l’Association Française contre les Myopathies” ha venduto un brevetto ad una startup che l’ha venduto ad una big-pharma. Questa è ricerca o lucro…?

    [ ps. mi risulta 1 trilione = 1000 bilioni, in italiano “miliardi” ]

    1. Grazie per il commento e per la segnalazione della svista.
      Abbiamo corretto da 1 trilione = 1000 milioni a 1 trilione = 1000 miliardi.
      La redazione

  3. Convinto sostenitore di tante iniziative di Slow Medicine, Salute Internazionale e Medicina Democratica, mi permetto di osservare che, in questa circostanza, Health innovation in Practice sta prendendo una vera e propria “cantonata” perché getta via il bambino assieme all’acqua sporca.

    Proporre il rifiuto del “value-based” pricing significa disconoscere la storia pluri-decennale di una scuola di pensiero “democratica” che propugna una metodologia che assegna un prezzo “sobrio, rispettoso e giusto” ai farmaci perseguendo di conseguenza: 1) l’universalità dell’accesso alle cure; 2) la necessità di un marcato ribasso della quasi totalità degli attuali prezzi dei farmaci; 3) una politica in cui quanto si è disposti a spendere (“willingness to pay threshold”) lo decide il sistema sanitario pubblico e non l’industria farmaceutica.

    Significa disconoscere il lavoro tenace e scientificamente rigoroso svolto per anni a favore dei pazienti, attraverso il value-based pricing, dal BMJ, dal NICE inglese, dal CADTH canadese, da larga parte della letteratura scientifica (accreditata, rigorosa, e indipendente) e da un numero per fortuna crescente di agenzie europee ed extra europee.

    Significa disconoscere il ruolo svolto internazionalmente dalla componente più seria e rigorosa del movimento di Health Technology Asssessment.

    Significa commettere l’autogol di mettere in dubbio la credibilità di tutti coloro che, in nome del value-based pricing, sono insorti negli ultimi anni contro i prezzi assurdi attribuiti ai farmaci oncologici che determinano un beneficio minuscolo per i pazienti. Etcetera, etcetera.

    Qui l’acqua sporca è costituita dal percorso oggettivamente “biased” con cui Novartis ha calcolato il prezzo del “suo” farmaco, rivestendolo di una presunta credibilità (grazie alla non disinteressata associazione con il criterio del valore intrinseco e del value-based pricing).
    Bastino due contro-argomentazioni: 1) c’è stato il dovuto rigore scientifico in questo calcolo di Novartis del prezzo di Zolgensma? poichè l’autore del calcolo è il produttore stesso del farmaco (e tra l’altro non c’è una referenza), tutto ciò conferisce una credibilità nulla all’asserzione di Novartis; 2) il prezzo value-based va certificato da un organismo pubblico e non dal produttore del farmaco che è portatore di un enorme conflitto di interessi.

    D’altro lato, il bambino è costituito dal metodo del value-based pricing. Gettarlo via assieme all’acqua sporca significa tornare indietro di 40 anni, abdicare al ruolo di garanti del paziente (secondo cui “riconosciamo al farmaco solo il beneficio che il farmaco apporta al paziente”), tornare ai tempi di Poggiolini (“industria, ti voglio tutelare: io sistema pubblico mi faccio carico del tuo rischio impresa e qualunque sia stato il tuo costo di produzione te lo riconosco, ancorché gonfiato/strumentale al profitto/illogico/etc etc). Allora, giust’appunto, si riconosceva al farmaco il costo di produzione e non il suo valore terapeutico. Ad esempio, allora si pagavano più di 50mila lire per ogni fiala di Cronassial perché si riconosceva al produttore il costo di aver estratto i gangliosidi –privi di qualsiasi efficacia- dal cervello dei bovini.

    Significa venir meno alla tutela del paziente (secondo cui si paga solo il beneficio, purchè documentato, ed in misura proporzionata alla sua entità e non certo il costo di produzione) e far propria la difesa degli interessi dell’industria laddove viene reclamato un prezzo alto non perchè il farmaco è efficace ma perché il costo di produzione è stato alto (a prescindere dal “dettaglio” per cui il farmaco sia efficace, poco efficace, o assolutamente privo di efficacia).

    Tra l’altro, le alternative al criterio del value-based pricing sono soltanto due, una peggiore dell’altra: 1) il criterio del costo di produzione in base al quale, come già sottolineato, l’industria può liberamente manipolare le informazioni che determineranno il prezzo che verrà riconosciuto al farmaco (ad es., il costo riguardante i farmaci il cui sviluppo è fallito e che non sono quindi entrati in commercio, il costo del personale dipendente, la ripartizione dei costi fissi degli stabilimenti industriali tra i differenti farmaci prodotti, etc). 2) Il criterio di non avere un criterio, che è un presupposto micidiale capace di generare conseguenze di iniquità decisionale, favoritismi vari e, come sappiamo, corruzione degli decisori pubblici.

    In definitiva, la battaglia che l’Italia sta conducendo a favore della trasparenza dei prezzi è sacrosanta. Ma va perseguita la trasparenza dei prezzi (a tutela dei pazienti) e non la trasparenza dei costi. Infatti, sarebbe già tanto riuscire a governare la trasparenza e l’equità dei prezzi (gestita attraverso il value-based pricing) senza necessariamente affrontare l’argomento non-sanitario e spinosissimo di quale sia il profitto massimo che può essere riconosciuto all’industria.

    Governare, su base mondiale, l’equità dei profitti di centinaia di aziende farmaceutiche dislocate in decine di paesi diversi (a loro volta dotati di diversissimi sistemi di tassazione) è un obiettivo politico così clamorosamente irrealistico, , anzi un miraggio, al punto che esso rischia di vanificare l’obiettivo sanitario (che è invece assolutamente fattibile) della trasparenza dei prezzi.

    Sono due obiettivi separati. E’ controproducente tenerli associati come se l’uno presupponga necessariamente il conseguimento dell’altro. Poiché è palese ai più che un’equa definizione del profitto industriale, da applicarsi su scala mondiale, è un obiettivo quanto meno irrealistico, associare l’obiettivo (irrealistico) del profitto equo con l’obiettivo (realistico) della trasparenza del prezzo e del value-based pricing (comprensivo di verifica pubblica) rischia di nuocere al secondo a causa del verosimile fallimento del primo. In definitiva, così facendo si mette a rischio il percorso virtuoso della trasparenza dei prezzi e dell’equità dei prezzi che è prioritario perchè rappresenterebbe una tutela forte a favore dei pazienti, dei decision-maker e di un governo razionale della spesa farmaceutica.

    Bibliografia
    E’ così abbondante, al punto che è legittimo non inserirla.

    Andrea Messori
    Firenze

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