La salute bene comune

Paolo Cacciari

Se desideriamo che l’accessibilità ai servizi sanitari torni ad essere riconosciuta e onorata come diritto fondamentale di ciascun essere umano, è necessario che le popolazioni concepiscano la salute come un bene comune.

 

Dalle cose ai beni

Nella realtà contemporanea, dominata da individualismo metodologico e liberismo economico, la salute viene trattata come  diritto privato, da ottenere ognuno per proprio conto, spesso secondo il proprio grado di solvibilità nel mercato. Tutt’al più – affermano economisti, giuristi e politici di stampo riformista keynesiano – sono i servizi socio-sanitari (le cose, i mezzi e gli strumenti concreti  utili alla cura della salute) a dover essere classificati come beni pubblici sociali, poiché costituiscono «utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona» – come recita anche lo schema di legge di modifica del Codice Civile che la Commissione presieduta da Stefano Rodotà propose dieci anni orsono.[1] Anche questa concezione pubblicistica, alla base del welfare universalistico, non è sufficiente a giustificare il paradigma della salute bene comune: nemmeno nel catalogo di esemplificazioni dei beni comuni contenuto nella proposta di legge Rodotà (comprendente acque, ambiente, patrimonio culturale e molto altro) compaiono  salute, istruzione, lavoro e altri beni considerati diritti costituzionali.

La differenza tra beni comuni e beni pubblici sociali non è speculazione del pensiero giuridico ma riflette una diversa impostazione di filosofia sociale che si proietta direttamente nelle pratiche attuative. La concezione dei beni comuni implica un coinvolgimento diretto, immediato e consapevole delle popolazioni nella preservazione e gestione dei beni, una responsabilità diffusa e una capacità di auto-normazione. Nel caso dei beni pubblici, invece, la gestione viene delegata e istituzionalizzata dentro strutture e apparati che tendono ad autonomizzarsi in forza delle proprie competenze specifiche con il risultato che la mutualità viene ricondotta alla sfera di competenza esclusiva dello Stato.

L’ecologia dei beni comuni

Per avvicinarci alla concezione di salute come bene comune, oggetto del sesto capitolo del libro “Un nuovo mo(n)do per fare salute” della Rete Sostenibilità e Salute https://www.saluteinternazionale.info/2019/12/fare-salute/, dobbiamo intenderla come risorsa collettiva, una res comune omnium, una res extra commercium e una dotazione patrimoniale di appartenenza collettiva. Un bene dipendente dalla salubrità, fisica e sociale, dell’ambiente in cui ogni individuo si trova immerso. Viviamo in un-mondo-di-tanti-mondi, tutti interrelati; esistiamo gli-uni-con-gli-altri, in reciproca connessione.[2] Per dirla con l’ecologia integrale di Bergoglio: “tutto è in relazione”, “tutto è collegato”, “tutto è connesso”.[3] Ognuno di noi dipende dall’organizzazione sociale in cui siamo immersi, dall’aria che respiriamo, dai cibi con cui ci nutriamo, dai materiali con cui sono edificate le nostre case, dai combustibili che usiamo per riscaldarci e muoverci… fin’anche dai sofisticati sistemi di telecomunicazione che usano in modo sempre più massivo le frequenze elettromagnetiche. Siamo parte dell’universo fisico, materiale ed energetico planetario.

Ma spesso ce ne dimentichiamo. Usiamo le cose che ci servono come fossero oggetti inerti, isolati dal contesto naturale, ma non è così: tra noi e le cose che ci circondano (naturali o  artificiali) c’è una relazione profonda e intima. Spostare l’accento dalle res (“merci e servizi”, come le intendono gli economisti) ai beni della vita (come intesi dalla filosofia morale) permette di entrare nella  dimensione della ecologia dei beni comuni. I beni comuni sono prima di tutto un sistema di pensiero, un’immagine mentale del mondo, un modo di vedere le cose e immaginare come poterle usare, trasformare, condividere.  Ha scritto magnificamente Stefano Rodotà: «I beni comuni tendono a configurarsi come l’opposto della sovranità, non solo della proprietà».[4] David Bollier, il più importate ricercatore sui commons (beni comuni) e attivista statunitense, sostiene che i beni comuni non sono «una nuova definizione [giuridica] per “l’interesse pubblico”, quanto piuttosto una sorta di filosofia politica dotata di specifici approcci operativi e con effetti a lungo termine, perché ci coinvolge pienamente in quanto esseri umani».[5]

Si intendono i beni comuni non come cose separate e indipendenti dalle relazioni sociali instaurate tra le persone e tra queste e la natura, ma come una particolare modalità di formazione delle communitas (cum-munus, ovvero con-dono) basata sulla cooperazione disinteressata, la condivisione e la responsabilità. I commons sono una modalità di auto-regolazione attraverso cui persone e cose si specificano e si integrano.[6] Ha scritto il giurista Ugo Mattei: «Noi non “abbiamo” un bene comune, ma in un certo senso “siamo” bene comune».[7] L’economista Raj Patel sottolinea che «è il nesso che si instaura tra gli individui che definisce il bene comune. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e creano una communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise […]. La pratica dei commons, la gestione collettiva delle risorse comuni, richiede una rete di relazioni sociali finalizzate a tenere a freno gli istinti più vili [egoismo proprietario, avidità, sopraffazione] e a promuovere un diverso modo di valutare il mondo e le cose».[8] In questa accezione ampia, sarebbe forse più giusto tradurre commons in comunalità o comunanza. I beni comuni, quindi, si configurano come repertorio di azioni (commoning),  pratiche di  cittadinanza attiva, esperienze e  istituzioni mutualistiche, istituti di self-governance, self-management che danno vita a comunità attive di persone che decidono di gestire per proprio conto l’uso delle risorse di cui dispongono in modo condiviso, partecipato e pienamente democratico.[9]

 

La salute è il bene della vita

La salute dovrebbe essere intesa come una risorsa naturale interdipendente con i cicli vitali della biosfera. Se così è, allora risulta evidente che la cura della salute va esercitata in un contesto di comune responsabilità, da esercitare con criteri e principi di equità, solidarietà, compassione, altruismo,  amorevolezza. Grazie alla gestione condivisa del bene-comune-salute si possono creare relazioni umane salutari e istituire servizi che creino rapporti sociali solidali profondi promotori di salute.

La dimensione sociale della salute-bene-comune non esime ogni persona dalla responsabilità di farsene carico, anzi, richiede che ognuna si attivi direttamente, consapevolmente ad incominciare dalla cura di sé. Volersi bene significa, prima di tutto, non equivocare il diritto alla salute con il diritto all’accesso a cure sanitarie, ma rivendicare il diritto, per tutte e tutti ad avere la possibilità di condurre una vita sana, non esposta a rischi evitabili e a pericoli nocivi. Prendersi cura di sé, dell’altro e dell’ambiente in cui si vive è un compito personale che però può essere svolto con successo solo attraverso un’azione collettiva con la messa in comune dei saperi medici, la condivisione di stili di vita sostenibili e la dazione delle risorse economiche (attraverso la mutualità fiscale) necessarie al mantenimento dei necessari presidi sanitari e politiche volte all’equità. La qualificazione della salute come bene comune chiama in causa, alla pari, le capacità individuali di tutta la popolazione e ogni persona di prendersi cura della propria salute e il funzionamento dell’intero sistema sociale che deve rispondere “in solido” (solidariamente) alle necessità delle popolazioni. Se ciò non avviene la delega della salute alle strutture sanitarie può portare inevitabilmente alla de-responsabilità  della società politica, da una parte, e alla disabilitazione delle competenze individuali  – per usare un’espressione illichiana – dall’altra. Scrisse Ivan Illich: «La salute è un compito personale […] il risultato della autocoscienza, dell’autodisciplina e delle risorse interiori con cui ogni singolo regola il proprio ritmo e le proprie azioni quotidiane, la propria alimentazione, la propria attività sessuale […] Queste attività personali sono plasmate e condizionate dalla cultura in cui l’individuo cresce […] dipendono dalla diffusa responsabilità per ciò che attiene le abitudini sane e l’ambiente sociobiologico».[10]

Immaginare la salute bene comune richiederebbe  un ripensamento della strutturazione sociosanitaria. Un esempio da seguire potrebbe essere quello sperimentato con le Case della salute.[11] Mossi dal desiderio di fornire agli abitanti un servizio sociosanitario integrato e ispirati dal Manifesto per una autentica casa della salute,[12] operatori del settore, amministratori dell’Unione dei tre comuni delle Colline Matildiche e del Distretto della Ausl di Reggio Emilia, istituti scolastici, associazioni di cittadini, imprese del Terzo settore, la locale Banca del tempo, ed altri ancora hanno dato vita ad un “Patto sociale di comunità” che ha portato alla realizzazione nel 2015 della Casa della Salute della Pedecollina a Puianello e alla correlata Casa del volontariato a Montecavallo. Non una semplice riorganizzazione dei servizi, ma una rivoluzione nel modo di intenderli. L’obiettivo era quello di creare un presidio capace di fare rete con tutti gli attori presenti sul territorio. In questo modo la creazione di una Casa dedicata alla salute è diventata lo strumento per “fare comunità”. Nei due piani della palazzina di Puianello vi sono medici di medicina generale, un centro prelievi e un coordinamento infermieristico domiciliare, ambulatori specialistici di neuropsichiatria infantile, medicina sportiva, un consultorio dedicato alle donne accanto a spazi dedicati alle diverse associazioni locali sia specifiche di “patologia” che di comunità.

In conclusione 

Se desideriamo che l’accessibilità ai servizi sanitari torni ad essere riconosciuta e onorata come diritto fondamentale di ciascun essere umano, è necessario che le popolazioni concepiscano la salute come un bene comune. Se vogliamo invertire la tendenza alla riduzione della salute a bene individuale (da realizzare acquisendo individualmente sul mercato ciò di cui si ha bisogno), allora è necessario che l’intera comunità riconosca la natura pubblica e generale del benessere psicofisico di ciascun individuo. Si tratta di avviarci fuori dal pensiero liberale per una riconcettualizzazione della salute e del benessere come bene comunitario, non frazionabile e condiviso tra tutti i membri della società.  Se una società riconosce che la salute è un bene comune primario allora saranno tutte le politiche pubbliche a doversi assumere l’obiettivo della sua tutela. La salute concepita come bene comune ristabilisce la gerarchia di valori a cui tutte le politiche economiche, gli assetti produttivi e infrastrutturali, i servizi pubblici, la ricerca scientifica, l’istruzione e quant’altro, dovranno essere finalizzati. Si tratta di un’idea di salute come progetto sociale integrale. Riconoscere la salute come un bene comune, accessibile a tutti, indisponibile e inalienabile comporta la massima assunzione di responsabilità sociale anche da parte dei singoli membri della comunità che si sentiranno chiamati a condurre stili di vita e comportamenti meno a rischio, più sobri, più attenti all’ambiente.

Bibliografia

  1. Ministero della Giustizia. Commissione Rodotà – per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007)
  2. Pulcini E. La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’era globale. Torino: Bollati Boringhieri, 2009.
  3. Papa Francesco. Laudoto si’. Roma 2015.
  4. Rodotà S. Il diritto di avere diritti. Roma-Bari: Laterza,  2012.
  5. Bollier D. La rinascita dei commons. Successi e potenzialità del movimento globale a tutela dei beni comuni. Viterbo: Stampa alternativa, 2015.
  6. De Angelis M. Omnia Sunt Communia. On the Commons and the Transformation to Postcapitalism. The University City of Chicago Press Books, 2017.
  7. Mattei U. Beni comuni. Un manifesto. Bari: Laterza, 2011.
  8. Patel R. Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo. Milano: Feltrinelli, 2007.
  9. Cacciari P. (a cura di). La società dei beni comuni. Roma: Carta Ediesse, 2010.
  10. Illich I. Nemesi medica. L‘espropriazione della salute. La paradossale nocività di un sistema medico che non conosce limiti [1976]. Como: Macro Edizioni Red, 1991.
  11. Iandra S, Ravazzini M, Prandi F. La salute cerca casa. Manifesto per una comunità protagonista del suo benessere.Roma:  Derive e Approdi, 2019.
  12. Fondazione Santa Clelia Barbieri e Fondazione Casa della Carità. Salute bene comune. Manifesto per una autentica casa della salute. Bologna, 2014.

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