Le scelte in tempi di Covid-19
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- 23 Marzo 2020
Dagmar Rinnenburger
La scarsità delle risorse non permette di assumere come criterio la volontà della persona in trattamento. Ma c’è modo e modo nel prendere decisioni sulla vita e sulla morte.
Il BMJ, al pari di altre importanti riviste internazionali, dedica da qualche giorno gran parte del suo sito web all’epidemia da coronavirus. Tra i numerosi contributi presenti è da segnalare una sorta di messaggio confidenziale lanciato da un medico rianimatore ai suoi potenziali pazienti, “anziani, fragili, vulnerabili o con gravi condizioni di salute”. Eccone la traduzione.
A coloro che sono anziani, fragili, vulnerabili o con gravi condizioni di salute,
Non ci siamo dimenticati di te.
Deve essere davvero duro ascoltare le continue notizie che terminano con “Non ti preoccupare, questa malattia colpisce principalmente gli anziani, i deboli, i vulnerabili o quelli con gravi condizioni di salute”. E se fossi tu?
La nostra missione come comunità di terapia intensiva è quella di risolvere problemi che possono essere risolti. Tuttavia incontriamo spesso pazienti come te che hanno problemi che non possono essere semplicemente risolti. Man mano che questo virus avanza, incontreremo molti di voi. Sebbene si disponga di macchine fantastiche, farmaci potenti e personale di talento, nessuna di queste cose cura ogni malattia. Tutto ciò che fanno è darci il tempo – il tempo di capire cosa c’è che non va, il tempo di sperare di curarlo e il tempo per le persone di migliorare. Ma a volte sappiamo già cosa c’è che non va, sappiamo già che non c’è un trattamento efficace. E così a volte le macchine danno poche risposte, la terapia intensiva non risolve. Ma la speranza non è persa. Non ci siamo dimenticati di te.
Per quanto sia difficile, saremo onesti. Continueremo a utilizzare tutti i trattamenti che potrebbero funzionare e riportarti a essere di nuovo te stesso. Useremo ossigeno, liquidi nelle vene, antibiotici, tutte le cose che potrebbero funzionare. Ma non useremo le cose che non funzioneranno. Non useremo macchine che possono causare danni. Non ti premeremo sul petto se il tuo cuore smettesse di battere. Perché queste cose non funzioneranno. Non ti riporteranno ad essere te.
E se queste cose non bastassero, ci siederemo con te e con la tua famiglia. Saremo onesti, ti terremo per mano, saremo lì. Sposteremo la nostra attenzione dalla cura al prenderci cura. Non ci siamo dimenticati di te.
L’unità di terapia intensiva
Il Post di Matt Morgan sul BMJ è una novità: non si rivolge ai colleghi per condividere i criteri con cui fare le scelte che in queste ore tragiche si impongono in medicina, ma parla direttamente al paziente. Inizia in un tono colloquiale, chiedendo alle persone fragili vulnerabili e con malattie sottostanti se sono spaventati quando sentono che il virus colpisce soprattutto queste categorie. “E se questa persona fosse Lei?”, è la domanda diretta.
A questo punto illustra quello che farebbe lui come medico con loro: somministrerebbe liquidi e ossigeno, nonché farmaci se servono; quello che può funzionare e che contribuisse a riportarli come prima, mentre rinuncerebbe a fare cose che non possono funzionare, cioè niente che non possa ricondurli a essere la persona che erano in precedenza. Quindi: liquidi, ossigeno, qualche antibiotico, cure palliative; ma niente tubi, niente ventilazione, niente rianimazione cardiopolmonare (”non andremo a premere sul suo torace”). A giustificazione adduce che proprio questo sarebbe il compito della medicina: “riparare” (in inglese: “to fix”) il malato. Quando questa riparazione non è possibile, il medico è chiamato a desistere.
Rimango sorpresa da un intervento che assomiglia a una sottile manipolazione. Mi sembra una forma di “nudging”, ovvero una “spinta gentile” verso un atteggiamento di rinuncia, perché comunque il malato deve rendersi conto che non può tornare come prima.
Metto a confronto l’atteggiamento evidenziato nell’ultimo documento della SIAARTI, rivolto ai colleghi anestesisti e rianimatori, che sono chiamati a decidere se avviare o no a trattamenti intensivi i malati che ne hanno comunque bisogno per sopravvivere:
“È uno scenario in cui potrebbero essere necessari criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione) non soltanto strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate. Uno scenario di questo genere è sostanzialmente assimilabile all’ambito della “medicina delle catastrofi”, per la quale la riflessione etica ha elaborato nel tempo molte concrete indicazioni per i medici e gli infermieri impegnati in scelte difficili. Come estensione del principio di proporzionalità delle cure, l’allocazione in un contesto di grave carenza (shortage) delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Il bisogno di cure intensive deve pertanto essere integrato con altri elementi di “idoneità clinica” alle cure intensive, comprendendo quindi: il tipo e la gravità della malattia, la presenza di comorbidità, la compromissione di altri organi e apparati e la loro reversibilità. Questo comporta di non dover necessariamente seguire un criterio di accesso alle cure intensive di tipo “first come, first served” .[1]
Anche se quello che afferma il rianimatore inglese alla fine risulta molto simile, la motivazione che porta a questo atteggiamento è diversa. Nell’uno come nell’altro caso si tratta di una decisione presa sul paziente, non con il paziente; e il motivo è che la scarsità delle risorse non permette di assumere come criterio la volontà della persona in trattamento. Tuttavia nel documento italiano siamo di fronte a una scelta presa collegialmente dai professionisti, perché in questi tempi di risorse insufficienti per tutti non ci può essere la “shared decision making”, cioè il piano condiviso delle cure. Senza tentare di indurre subdolamente il paziente a credere che sia la decisione migliore per lui.
È la medicina dell’emergenza, delle catastrofi; come previsto da Bill Gates nel suo visionario video del 2005, “non moriremo per una guerra ma per un virus”: era la sua profezia. Ci stiamo preparando in ritardo. Abbiamo sorriso un po’ dei cinesi capaci di creare ospedali in dieci giorni: adesso facciamo la stessa cosa. Possiamo solo imparare, per dare più possibilità a più persone e ridurre il più possibile le raccomandazioni da seguire in scenari di emergenza. Ma le raccomandazioni servono anche a sollevare gli operatori, aiutandoli a prendere le decisioni insieme e a comunicare con i familiari. Non mi sembra appropriato vestire di benevolenza queste decisioni drammatiche, come se si trattasse di scegliere la cosa migliore per il paziente, facendo solo quello che gli permette di tornare come prima. Né si tratta di indurre il malato a prendere decisioni di benevolenza sociale, come se dovesse cedere con gentilezza il tubo e il posto in rianimazione, dal momento che lui in ogni caso non tornerebbe come prima. È ora di ascoltare qualcosa di esplicito da parte dei politici, non lasciandolo dire ai rianimatori disperati: facciamo tutto il possibile, ma non c’è tutto per tutti e dobbiamo scegliere.
Dagmar Rinnenburger, pneumologa.
Bibliografia