Le scelte tragiche di questi tempi
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- 30 Marzo 2020
Sandro Spinsanti
I sensi di colpa di queste scelte dovrebbero essere ben spalmati su tutta la società. Invece di cercare di rifilarli ai medici in prima linea.
La vita impone delle scelte. Alcune sono tragiche. Una delle più celebri è quella raccontata dal film La scelta di Sophie di Alan Pakula (1982). La protagonista in un campo di sterminio è forzata da un ufficiale nazista sadico a scegliere quale salvare e quale mandare a morte tra i suoi due figli. La sua vita ne sarà distrutta per sempre. Lo scenario di scelte tragiche si presenta anche in medicina. Proprio con questo titolo: Scelte tragiche ha fatto epoca una riflessione proposta dal giurista italo-americano Guido Calabresi. Apparso nell’edizione originale nel 1978, ha suscitato un vivacissimo dibattito. Il contesto era quello della bioetica delle origini, chiamata a dare indicazioni a una medicina clinica confrontata con risorse insufficienti per far fronte a tutte le domande. Non si trattava né di guerre, né di epidemie, ma di un numero eccessivo di cittadini che necessitavano di strumentazioni cliniche per sopravvivere. Qui si affacciava l’incubo delle scelte: a chi assicurare la dialisi, tra i tantissimi nefropatici? Con quale criterio riservare all’uno o all’altro cardiopatico il cuore da trapiantare? In questo contesto sociale erano sorti, come novità per aiutare nell’inusuale complessità delle scelte, i comitati etici per la clinica. Su di loro e sui loro criteri per arrivare alle decisioni si è riversata molta ostilità da parte di alcuni partecipanti al dibattito. Sono stati accusati di arrogarsi delle prerogative che non competevano loro; si è cercato di squalificarli con l’etichetta di “tribunali di Dio”, che decidevano al posto suo chi doveva vivere e chi morire…
La difficoltà di esplicitare i criteri con cui fare le “allocazioni” – questo il termine in uso – delle risorse scarse è rimasta. La medicina conosceva quel dramma da molto tempo nello scenario di guerra: innumerevoli soldati feriti e risorse terapeutiche limitate. Con quale criterio scegliere? Per quanto cinico possa apparire, i medici erano invitati a orientarsi in modo crudamente utilitaristico: dovevano dare la priorità ai soldati che erano in grado di tornare a combattere. Perché bisognava vincere la guerra. Non può essere questo il criterio in situazioni di scarsità creata da catastrofi, come a buon diritto può essere considerata un’epidemia. O l’attuale pandemia da Covid-19.
Il documento elaborato in questo contesto dagli anestesisti-rianimatori della società scientifica SIIARTI – Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione[1] – ha assunto come punto di partenza le “condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”. Facendo tesoro di riflessioni etiche elaborate nel contesto della medicina delle catastrofi, ha suggerito ai colleghi anestesisti-rianimatori di assumere come criterio delle scelte che sono obbligati a fare quello di “privilegiare la maggiore speranza di vita”. Le critiche sono state avanzate sia in nome del diritto – come se fosse messa in dubbio la rivendicazione di ogni persona ad avere le cure necessarie, indipendentemente dalle compromissioni dello stato di salute – sia in nome dell’etica. In sintesi, le raccomandazioni sono state contestate difendendo tanto il diritto alla salute, quanto la dignità della vita umana, in qualunque condizione. Le argomentazioni critiche si sono basate su una semplificazione delle raccomandazioni stesse, come se suggerissero di porre burocraticamente, senza un ragionamento clinico relativo all’appropriatezza, un limite di età all’ingresso in terapia intensiva, sulla base del principio di probabilità di sopravvivenza e di anni di vita salvata. E dunque di un implicito ragionamento utilitarista, che considera certe vite come degli scarti.
Interpretare le raccomandazioni in questo senso significa farne una caricatura, utile solo per la polemica e per enfatizzare in senso apologetico le proprie convinzioni etiche. È vero che una delle motivazioni addotte dagli estensori per giustificare il documento può essere discutibile. Lo scopo è individuato, infatti, nel “sollevare i clinici da una parte delle responsabilità nelle scelte”. Sarebbe un impoverimento della tensione etica che sottostà a queste drammatiche situazioni se le raccomandazioni venissero intese in chiave di medicina difensiva o, al più, come scarico di coscienza. I professionisti che si trovano a dover operare queste scelte hanno bisogno non di meno, ma di più coscienza. Ovvero di un accresciuto senso di responsabilità, in senso proattivo: non “Io non mi assumo la responsabilità” (o la responsabilità attribuita alla società scientifica che ha formulato le raccomandazioni), bensì una responsabilità accresciuta, come quella che si esercita nei confronti di persone fragili e incapaci di provvedere a sé stesse; come la responsabilità dei genitori nei confronti dei propri figli, o dei medici e infermieri nei confronti dei malati, appunto.
I professionisti che devono drammaticamente scegliere a chi riservare le risorse salvavita insufficienti per tutti vengono a trovarsi su un terreno su cui incombe un senso di colpa. Non possono salvare tutti; alcuni li devono inevitabilmente lasciare al loro destino. A ben vedere, questa è la situazione con cui è confrontata la medicina, dentro e fuori le catastrofi e le pandemie. Perché, prima o poi, anche le cure più efficienti falliscono e la morte bussa alla porta. Su tutti, anche sulle persone meglio curate. Anche quando il medico può dire: “Abbiamo fatto tutto il possibile”. Forse è per questo che la mitologia greca aveva creato l’immagine del “guaritore ferito”, identificato nel centauro Chirone. Ferito dalla sua inevitabile impotenza. Una frase inquietante nel film di Ingmar Bergman: Il posto delle fragole (1957) continua a inquietarci. Il vecchio professore di medicina sogna di dover subire un esame; non sa rispondere alla domanda quale sia il primo dovere del medico. L’esaminatore suggerisce lui la risposta: “Il primo dovere del medico è di chiedere perdono”. Perdono di che cosa? si sono chiesti in tanti. Forse del fatto che, prima o poi, la sua promessa di tenere lontana la morte fallisce. Per questo inevitabilmente la pratica della cura genera in profondità sensi di colpa in chi vi si dedica.
In questi giorni si è parlato molto delle ragioni della scarsità di risorse indispensabili che la pandemia ha portato alla luce. Dipende certo dalle scelte di politica sanitaria, che per troppi anni ha puntato al risparmio, con il budget come idolo. Ma anche dai cittadini che quelle politiche hanno avallato, sedotti dalla promessa di diminuzione delle tasse. Per non parlare dei tanti evasori, che hanno fatto mancare le risorse da investire in sanità. Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che le responsabilità sono numerose e differenziate: in modo diverso, ma ce le dobbiamo assumere tutti.
I sensi di colpa dovrebbero essere ben spalmati su tutta la società. Invece di cercare di rifilarli ai medici che devono inevitabilmente assumere quelle scelte tragiche, insinuando che non rispettano i diritti fondamentali delle persone o che sono moralmente insensibili. Attribuire a coloro che hanno formulato le raccomandazioni per i colleghi che si trovano nella prima linea dell’accesso alle rianimazioni per condividere i criteri con cui vengono prese delle decisioni inevitabili un’insensibilità giuridica o etica – “raccomandazioni dettate da uno stato di grave stress lavorativo”, è stato detto, come a giustificare con l’esaurimento una farneticazione – non è solo ingiusto; significa procurare un’ulteriore, gratuita ferita a guaritori feriti.
Bibliografia
Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili. SIAARTI 06.03.2020
Grazie per questa chiarissima chiave di lettura. Io andrei oltre interrogandomi se questo peso della responsabilità non possa o debba essere comunque alleggerito da una visione più ampia della beneficialità di alcune cure, che vada ad abbracciare il reale vantaggio per i pazienti più fragili non solo in termini di sopravvivenza e quindi di quantità di vita ma di qualità di vita. Perché se proviamo a rileggere il significato etimologico della responsabilità, nella sua chiara accezione spiegata da Emmanuel Levinas, filosofo ebreo del Novecento, sfuggito allo sterminio, allora forse la responsabilità si traduce nella capacità di rispondere all’altro come volto individuale, come persona. Lo dico da medico palliativista, in un contesto di emergenza nel quale le Cure Palliative, possono e devono avere un importante ruolo di supporto. Come medici palliatori siamo abituati a confrontarci con decisoni terapeutiche difficili e a prendere in carico la complessita dei bisogni, psicologici, sociali, spirituali che ne derivano per i malati e le loro famiglie. Occorre che malati già fragili abbiano accesso precocemente ad un percorso di tipo palliativo (e su questo, occorrerà lavorare quando l’emergenza sarà finita) che permetta una condivisa pianificazione anticipata di cura, per poter di alleggerire la responsabilità di scelta dei medici in prima linea ed offrire comunque una risposta. Perché una risposta si può dare, sempre. Dr.ssa Pozzi Federica
Concordo pienamente con Federica. Tra gli aspetti tragicamente e eticamente insopportabili (“i medici devono chiedere perdono”) di questa crisi è il destino delle persone che non potendo entrare in terapia intensiva vengono lasciati morire – a casa o in ospedale – soffocati e in piena coscienza. Il nostro generale senso di colpa sarebbe almeno alleviato dalle presenza di un servizio di cure palliative.