Covid-19 in Africa. Ripensare la lezione di Ebola
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- 17 Aprile 2020
Giovanni Putoto
Un ampio commento al post di Rino Scuccato “Apocalisse a sud del Sahara?”
Caro Rino,
ho letto con grande interesse e sostanziale condivisione il tuo contributo pubblicato su Saluteinternazionale Apocalisse a sud del Sahara?, Un contributo che è certamente oggetto di riflessione e di discussione per i tanti lettori che ha raggiunto. Riflessione anche mia, articolata in alcuni punti, prendendo spunto da alcune tue affermazioni. Cominciamo con la prima.
- “È prudente assumere che per molto tempo ci sarà una forte distanza tra i dati ufficiali e la situazione reale della pandemia. Restano aperti, senza una chiara risposta, tutti gli scenari. Non è possibile fondare speranze su questi numeri, ma neppure enunciare catastrofi a cuor leggero”.
Il tema, non da oggi, è quello della governance dei pazienti, dei dati e delle informazioni in contesti emergenziali. L’impressione è che diversi governi africani esercitino un controllo politico molto stretto, delle volte una vera e propria censura, sui pazienti, sui dati e sulle informazioni pubbliche.
Pazienti.
Nei paesi dove operiamo, tutti i pazienti positivi e sintomatici, sono trattenuti e ricoverati presso ospedali o terapie Intensive, governativi o militari, del tutto inaccessibili. In Tanzania, il tampone naso-faringeo per la diagnosi di Covid-19 è applicato solo ai pazienti che soddisfino entrambi i requisiti: quello clinico (caso sospetto) e quello epidemiologico (soggetto proveniente da focolai epidemici). Questo, si dice, per non esporre il paziente a rischi sociali tipo stigma, ritorsioni, ostilità, isolamento, ecc. In realtà, mancando spesso il secondo criterio, si opera un “underuse” diagnostico voluto, intenzionale.
Dati.
Negato è anche l’accesso ai dati, alle statistiche che non siano quelle riportate nei bollettini. Per documentare eventuali cluster di pazienti affetti da patologie respiratorie – un indicatore proxy, indiretto, di sorveglianza epidemiologica – si deve ricorrere al si dice o alle strutture sanitarie private, con tutti i limiti del caso; oscuri sono anche i risultati dei tracciamenti e delle survey a livello comunitario. Insomma, quanto si chiedono dati ci si scontra contro un muro di gomma. Ma questa non è certo una novità per l’Africa. L’anno scorso l’OMS ha richiamato formalmente il governo della Tanzania per il suo rifiuto a passare informazioni su alcuni casi sospetti di Ebola presenti nel paese e sempre riottosamente negati.
Informazioni.
Quanto alle informazioni, in Tanzania e in Uganda non è infrequente che giornalisti siano oggetto di intimidazioni, violenze e arresti da parte delle autorità pubbliche per divulgazione di false informazioni riguardanti il Covid-19.
Esiste poi la propaganda dei governanti e dell’opposizione alimentata da non pochi giornalisti prezzolati che sfruttano in senso strumentale dati e informazioni a fini politici. Un campione della retorica populista è l’attuale Presidente della Tanzania, Magufuli che ha dichiarato pubblicamente che “La misericordia di Dio ha illuminato gli africani per la loro fede “, esortando il suo popolo ad ammassarsi nelle chiese e prendere la comunione perché “il coronavirus è oggetto del demonio e non può sopravvivere nel corpo di Cristo”.
Ancora, in diversi paesi c’è la tendenza a presentare i casi positivi di Covid solo come “imported”, legati solo o prevalentemente agli stranieri bianchi e allo stesso tempo si negano o si minimizzano i casi di “community transmission”, che invece sono presenti, specie nelle capitali, talvolta perfino negli uffici stessi dei ministeri della salute.
A ciò si affianca non di rado una retorica allarmistica che ha come oggetto la colpevolizzazione degli stranieri e che rischia di infiammare gli animi mettendo a repentaglio il personale cooperante e i servizi. È successo anche nei nostri confronti in due paesi dove operiamo… Siamo dovuti intervenire… Trattasi di un “giornalismo corrivo”, simmetrico e contrario a quello occidentale?
- “Al momento (fino a quando?), l’impatto dell’epidemia in Africa a Sud del Sahara non è dovuto a casi e decessi da Covid, ma alle misure restrittive introdotte al fine di controllare il contagio. Le classi dirigenti africane, anche per forte pressione delle élites urbane (di cui fanno parte), hanno assunto pienamente il modello del Nord del Mondo di gestione della crisi, basato su misure restrittive di graduale intensità fino al cosiddetto livello 4, lockdown (Sudafrica). Invece di imporre modelli è meglio lasciare alle popolazioni africane e a coloro che le rappresentano il modo di affrontare – con il pragmatismo, i compromessi, la creatività e la formidabile resilienza che hanno mostrato in altri momenti – questa sfida.”
What if… ?
Sono affermazioni che trovo po’ controverse, sulle quali nutro dei dubbi. Prendiamo l’impatto delle misure restrittive. Non è un po’ prematuro parlarne in questi termini? Cosa conosciamo delle misure stesse, della loro durata, della loro applicazione reale e dell’impatto atteso nei diversi paesi? Ci sono dati, evidenze, che documentano questi aspetti? Siamo poi sicuri che si tratti di un problema di adozione di “un modello del Nord del mondo?”. È indubitabile che alcuni aspetti come il distanziamento sociale, l’autoisolamento, la chiusura delle scuole ecc. non sono trasferibili tout court all’Africa e ai suoi contesti geografici e alle sue diversità culturali. OK!
Ma, epidemiologicamente parlando, esiste un modello alternativo, autoctono, africano doc, di documentata efficacia, per fermare o contenere un’epidemia come questa o altre simili che potranno seguire? È sufficiente, cioè, auspicare che la relativa “arretratezza” di molte società africane (maggior legame con la terra, minore dipendenza della tecnologia e dalla specializzazione etc.) può essere in questa circostanza un punto di forza? A che cosa esattamente si fa riferimento? Alla resilienza delle comunità africane nell’affrontare emergenze tipo epidemie, guerre, carestie e in più generale la povertà? Non ne sono sicuro. Per essere intervenuti, tardi e male, a contrastare l’epidemia di Ebola – certo, va fatta la tara con Covid – alla fine i costi sociali ed economici pagati dai tre piccoli paesi dell’Africa Occidentale sono stati salatissimi. Insomma, what if… ?
Forse, forse… al quadrato
Credo che uno dei dilemmi più complessi e drammatici dei decision makers sia quello di valutare (trade-off) i costi delle misure di contenimento con le loro inevitabili conseguenze sociali ed economiche in relazione ai benefici di salute e questo in un contesto contrassegnato da grande incertezza e da un’inquietante approssimazione. Di certo non volute. Alla fine, mutuando le parole di Donato Greco, mi pare di poter dire che “se è vero che le misure di contenimento hanno un’efficacia molto limitata, in assenza d’altro, sono l’unica cosa che i Governi potevano scegliere”. Non è stata del resto questa la raccomandazione rivolta dalla stessa WHO ai paesi africani? Un bene o un male?
D’altro canto i modelli epidemiologici e politici, alternativi alle politiche di contenimento o lockdown – penso alla herd immunity – proposti dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti, si sono rivelati disastrosi ed eticamente abominevoli; quelli, molto spinti tecnologicamente, applicati da paesi come sud Corea, Singapore, Taiwan risultano impraticabili.
Forse, potrebbe essere proprio grazie a queste restrizioni, prese così precocemente, se l’epidemia non sta dilagando in Africa. Anche questa è un’ipotesi da dimostrare o sconfessare, ex post, naturalmente. Forse, forse… al quadrato!
Le strategie per proteggere i poveri: a chi interessa?
Quello che rimane nella zona d’ombra, sfuggente allo scrutinio, sono gli interventi di protezione sociale (coping strategies) necessari a mitigare gli effetti delle restrizioni e la dilatazione delle disuguaglianze. Ad Addis, per esempio, il governo sta accumulando cibo nei magazzini per la distribuzione di beni di prima necessità ai gruppi vulnerabili della città. Intanto lo stesso governo etiope deve far fronte al rientro forzato di 100.000 etiopi fatti traslocare precipitosamente dall’Arabia Saudita. Chissà altrove cosa sta succedendo nei luoghi (slum, prigioni, campi profughi, ecc.) dove “sopravvivono” i soggetti più fragili.
Qui non c’è santo che tenga. Il ruolo dello Stato, delle agenzie finanziarie internazionali e della comunità internazionale in situazioni come queste è fuori discussione. E quanto ai mezzi, sono sacrosanti la cancellazione del debito, la riforma del commercio internazionale e il riorientamento dell’aiuto internazionale alla salute.
In tutto questo, chi monitora i giochi e i giocatori?
Non poche delle questioni che solleva l’epidemia di Covid-19 hanno un carattere squisitamente politico. Non farei però di ogni erba un fascio, ma distinguerei caso per caso. Non tutto è o sarà negativo o identico. Per capirlo sarebbe utile un approccio di policy analysis che analizzi gli attori, gli interessi (le agende) e i processi all’interno di un contesto preciso. Un esercizio che per scarsità di risorse (competenze in scienze sociali, tempo, ecc.) si fa fatica a seguire… aprirsi quindi ad altre discipline, altri soggetti, altri forum, soprattutto africani, diventa una prospettiva indispensabile se si vuole costruire un’opinione basata su analisi e valutazioni davvero informate.
- “Infine, proprio sulla base dell’esperienza italiana, non dimentichiamo la mortalità indiretta da Covid… Ne discende che ogni “aiuto” – se e quando potrà essere dato con i tempi duri che stanno davanti – deve andare alla tenuta del sistema nell’insieme e non principalmente al braccio di ferro col Covid.”
Questo è un punto chiave, tra i più apprezzati del manoscritto, per il quale nutro anche un po’ di speranze. L’assunto: nelle emergenze, specie in quelle epidemiche, uno dei rischi più frequenti è di trascurare, sospendere, rinviare, chiudere i servizi sanitari essenziali di prevenzione e cura. Alla fine, il carico della morbilità e mortalità (EVITABILI) di patologie comuni lascia sul campo più danni e più vittime della stessa epidemia.
Che fare concretamente? Il caso di Ebola nel distretto di Pujehun in Sierra Leone
Nel 2014 il distretto di Pujehun, dove stava operando il CUAMM (360.000 ab. 1 ospedale e 75 centri sanitari) fu il primo a essere dichiarato Ebola Free dalle autorità. 49 i casi positivi di Ebola che furono identificati e isolati. Tutta la rete sanitaria rimase aperta e continuò a erogare i servizi materno-infantili di routine e di emergenza (ricoveri, cesarei, ecc.). Nel distretto le visite pre-parto, i parti e le emergenze ostetriche risultarono costanti con alcuni servizi addirittura accresciuti in termini assoluti e di copertura rispetto alla situazione pre-Ebola, a fronte di una riduzione nazionale media del 23%.
Perché il sistema sanitario distrettuale resse, o detto con la terminologia in voga oggi, si mostrò “resiliente”?
Tra i fattori indagati legati ai servizi sanitari si evidenziò: la good governance delle autorità sanitarie che seppero fronteggiare rapidamente l’epidemia e coordinare efficacemente le attività. La gestione del personale locale. Si agì ad ampio raggio: dalla protezione alla formazione, alla supervisione, agli incentivi, ai turni di riposo, tutti fattori che nell’insieme contribuirono a stemperare la paura del contagio, a sminuire la rabbia per la morte di 3 colleghi, e a contenere gli scioperi e le proteste. L’applicazione delle misure di sanificazione e di protezione del personale a livello ospedaliero e di rete sanitaria periferica. Misure “tecnologicamente povere” come lavarsi le mani con ipoclorito di sodio, la gestione differenziata dei rifiuti ospedalieri, l’applicazione dei pochissimi dispositivi di protezione individuale e altre ancora furono applicate con sistematicità e aiutarono tutti a vederne i benefici oltre l’epidemia di Ebola. Il coinvolgimento della comunità. Da smarrita, impaurita e diffidente, la comunità, grazie ad una efficace campagna di coinvolgimento dei leader e dei capi locali, dei gruppi associativi indigeni e dei media, comprese il pericolo, si conformò ai nuovi comportamenti (il distanziamento “don’t touch me”, il lavaggio delle mani, la sospensione dei riti funebri tradizionali, la collaborazione nel tracciamento dei contatti, ecc.) e quindi alla fine mantenne la FIDUCIA nelle strutture sanitari e negli operatori.
La gestione dei dati e la ricerca operativa. Fondamentale fu mantenere sotto controllo l’andamento dei dati di utilizzazione dei servizi sanitari di routine: Materno-Infantile, TB, HIV, etc. Con l’aiuto della Fondazione Bruno Kessler di Trento riuscimmo a ricostruire la catena del contagio a partire dal caso indice, a misurare i tempi di trasmissione, l’indice di riproduzione R0 e a valutare l’efficacia delle misure di contenimento dell’epidemia (isolamento e tracciamento). La ricerca operativa (5 lavori pubblicati), realizzata con partner locali ed internazionali, ci permise di testare idee, verificare intuizioni, rispondere a interrogativi da prospettive diverse: epidemiologica, di organizzazione dei servizi sanitari e di policy.
Un pensiero rivolto al dopo. Divenne progressivamente chiaro che, dopo l’epidemia, era necessario rivedere la strategia di intervento e a puntare a favorire l’accesso dell’ospedale alle donne gravide affette da complicanze materne e dei bambini con casi complicati attraverso un sistema innovativo di chiamata e di utilizzo delle ambulanze e delle moto.
Fu una prova molto travagliata, ma ricca di spunti e di lezioni, umane e professionali. Una prova che, mutatis mutandi, ci potrebbe fornire un quadro di riferimento che va proprio nella direzione di quanto hai scritto, di rafforzare cioè il sistema, anche se l’entry-point può essere diverso es. il sistema di sorveglianza stesso, il materno infantile, la nutrizione, le malattie infettive, le malattie croniche ecc.
Questa volta, tuttavia, avverto tutta l’insufficienza e l’inadeguatezza del compito che come Medici con l’Africa-CUAMM abbiamo di fronte tante sono le variabili ignote o imprevedibili in gioco. Il nostro primo dovere è esserci. Non lasciare l’Africa ad affrontare da sola questa ennesima sfida.
Credo che ci vorrà molta umiltà e sano realismo, dal momento che mai come in questo frangente non tutto è chiaro e non tutto è possibile. Ma questo è il sale della nostra professione!
Ti ringrazio profondamente per il contributo che ci hai regalato
Giovanni
Addis Abeba, 16 aprile 2020
Giovanni Putoto, Medici con l’Africa-Cuamm