Medica di famiglia in prima linea
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- 7 Aprile 2020
Elena Rubatto
Da una parte medici blindati nei loro ambulatori e dall’altra medici che continuano ad andare a mani nude a casa delle persone. L’esperienza di una giovane medica di famiglia della provincia di Torino.
Domenica 23 febbraio sento telefonicamente una delle colleghe della medicina di gruppo dove lavoro per avere un confronto e decidere una linea comune per affrontare quello che stava per accadere (anche se non potevamo certo immaginarlo…); eravamo un po’ disorientate e un po’ spaventate, ma abbiamo pensato che far entrare i pazienti uno alla volta potesse essere una buona idea, al resto avremmo pensato il giorno seguente.
Il giorno seguente siamo stati semplicemente travolti, il telefono incessante suonava, la segretaria era in ferie per il Carnevale e i pazienti si sono riversati a decine in ambulatorio. Noi siamo 6 medici a cui afferisce la popolazione di un paese di circa 8000 abitanti pertanto quando la sala d’attesa è piena possono esserci anche 30-40 persone. Verso le 17 di quel lunedì 24 febbraio, dopo aver stazionato 2 ore in sala d’attesa, entra in visita un ragazzo che scopro avere febbre alta e tosse da 3 giorni. Io ero ancora sprovvista di mascherine, come lui e tutte le persone anziane e meno anziane in sala d’attesa. In quel momento prendo coscienza che la nostra organizzazione doveva cambiare radicalmente. Mi dico “noi cominciamo ad agire di buon senso, poi arriveranno comunicazioni ufficiali e indicazioni chiare dall’ASL”. Quelle indicazioni e comunicazioni che ad oggi, domenica 4 aprile non sono ancora arrivate; le poche arrivate troppo vaghe e il loro aggiornamento troppo lento per la rapidità di evoluzione della situazione. Dopo aver ricevuto dall’ASL 2 mascherine ffp2, 6 mascherine chirurgiche e 1 camice monouso, ho capito che anche i DPI non sarebbero mai arrivati come non sarebbero mai arrivate raccomandazioni circa il livello di protezione da usare per i medici di famiglia nei diversi setting, in primis quello più a rischio: la visita domiciliare. In breve tempo questo vuoto di indicazioni e protocolli ha lasciato posto al caos e al “solismo”, atteggiamento che purtroppo caratterizza ancora molto la Medicina Generale italiana. Il risultato è che ogni medico ha agito secondo il suo buonsenso, ovvero ognuno diversamente dagli altri. Qualcuno è stato sopraffatto dalla paura e qualcuno dall’eroismo così ci siamo trovati con da una parte medici blindati nei loro ambulatori e dall’altra medici che continuavano ad andare a mani nude a casa delle persone.
Seguendo il buonsenso, le poche linee guida disponibili, i consigli di amici ospedalieri e le esperienze di colleghi di altre regioni d’Italia queste sono le azioni che ho intrapreso (alcune come singola, altre come gruppo) e che a posteriori provo a riordinare:
- Shiftare dall’accesso libero all’appuntamento previo triage telefonico: tramite cartellonistica, mail e whatsapp ho diffuso la raccomandazione a pazienti di contattarmi via mail o sul cellulare prima di accedere spontaneamente all’ambulatorio.
- Ridurre il rischio di contagio all’interno dell’ambulatorio: la sala d’attesa dal 25 febbraio è stata trasferita nel cortile esterno, i pazienti venivano chiamati uno alla volta dal proprio medico. La segretaria ha smesso di fare front-office, le ricette richieste solo via mail, telefono o buca delle lettere.
- Contenere i contagi all’interno della comunità e dei nuclei familiari: nonostante il Servizio di sanità pubblica (SISP) ancora oggi ci dica di non segnalare i pazienti che non hanno avuto contatti con casi accertati (!!!), ho cominciato fin da subito a considerare tutti i pazienti con sintomi compatibili come COVID fino a prova contraria, istruendoli al meglio sulla riduzione dei contatti con i famigliari e obbligandoli a stare in mutua più del tempo reale di inabilità al lavoro. Spiegavo loro che non avendo possibilità di fare i tamponi questo era l’unico modo per rallentare i contagi.
- Protezioni sempre: le misure preventive o si applicano in modo sistematico oppure non servono a nulla! Fin dal 25 febbraio, molto prima che il criterio epidemiologico saltasse, ho visitato sistematicamente ogni paziente almeno con ffp2/chirurgica (a seconda della disponibilità del momento) e guanti; questo sia per proteggere me stessa, ma anche e soprattutto per proteggere i pazienti da me come possibile veicolo di contagio.
Con il tempo ho affinato e standardizzato le modalità di protezione e gestione, come qui di seguito:
- Visite ambulatoriali con maglietta verde e camice, calzari, guanti, mascherina chirurgica o ffp2 se paziente sospetto; tra una visita e l’altra sanifico superfici e strumenti con alcool.
- Visita domiciliare di paziente Covid o sospetto con calzari, sottocamice, camice monouso NON idrorepellente (gli idrorepellenti costano troppo!), doppi guanti, ffp2 coperta da chirurgica (questo permette di non contaminare ffp2 e di poterla riutilizzare), maschera lavabile (gentilmente prestata da infermiera ospedaliera), cuffia. Mi vesto sul pianerottolo, mi mette a disagio, spero sempre che non mi veda nessuno.
- Visita domiciliare paziente non sospetto con calzari, camice monouso NON idrorepellente, doppi guanti, ffp2 coperta da chirurgica.
- La borsa degli strumenti è diventata una scatola di plastica: dentro sta il pulito, fuori sta lo sporco in sacchetti di plastica. Dopo la visita tutto viene sanificato da me con soluzione alcoolica.
- Assetto della macchina (personale ovviamente): tutti i sedili sono ricoperti di sacchi di plastica sanificabili, dietro sta il materiale pulito, su sedile del guidatore sanifico dopo ogni visita tutti gli strumenti che ho usato. Nel bagagliaio tengo i rifiuti in sacchetti di plastica che poi a casa metto in un altro sacco nero per smaltirli nell’indifferenziato.
- Per mettere in atto il punto di cui sopra ho sguinzagliato amici e parenti alla ricerca incessante di DPI, materiali e alcool in tutte le farmacie e ferramenta di Torino, o siti internet. Io non avevo tempo per farlo ma loro sì perché erano a casa! Spontaneamente anche alcuni pazienti hanno fatto delle donazioni.
- Aumentare la reperibilità telefonica: in un momento in cui tutti i servizi assistenziali sono sospesi e l’isolamento sociale la fa da padrone il medico di famiglia è rimasto l’unica possibile risposta ai problemi della popolazione, che siano essi fisici, psicologici, sociali, economici. Da Lunedì 25 febbraio il mio cellulare è sempre acceso e cerco di garantire in giornata una risposta, anche preliminare, a tutti; dedico tutte le mie energie emotive e oratorie ai colloqui con i pazienti. Per aiutarli a stare nell’incertezza senza sentirsi abbandonati.
- Monitoraggio dei pazienti COVID o sospetti: ho creato un file excel composto di anagrafica e rilevazioni ad ogni contatto. Purtroppo facendo tutto da sola faccio molta fatica a seguirlo come meriterebbe, mi viene da piangere a pensare quante informazioni stiamo perdendo… Al momento è composto da 4 COVID-19 accertati, di cui solo 1 ricoverata, e da almeno 20 sospetti. Fortunatamente nessun deceduto, nessun caso grave e nessun caso tra gli anziani per ora.
- Monitoraggio dei pazienti anziani e fragili: l’infermiera che collabora con noi purtroppo ha un contratto di 6 ore a settimana per cui non riesco a fare molto. Ciò che siamo riuscite a fare nelle poche ore in cui lei è presente è una chiamata attiva ad alcuni pazienti molto fragili e il monitoraggio dell’INR a domicilio con l’accucheck ad alcuni anziani che venivano il martedì a farlo in ambulatorio.
- Proposta di coordinamento tra pari e trasversale ai livelli del servizio sanitario: ho creato un gruppo whatsapp di giovani colleghi medici di famiglia e continuità assistenziale della mia ASL per confrontarci e coordinarci per richiedere l’attivazione di un tavolo di confronto tra Distretto sanitario, Pronto Soccorso, Servizio di Salute Pubblica e MMG che avesse come fine l’elaborazione di un protocollo di gestione territoriale dell’emergenza COVID-19 sull’esempio di quello proposto dalla Campagna Primary Health Care Now or Never, poi adottato almeno in parte da alcune regioni come la Lombardia. La richiesta è stata fatta tramite lettera aperta all’attenzione di Direttrice Sanitaria, Direttrice di Distretto, Primari di PS, Responsabili SISP. Ad oggi, a due settimane dall’invio della mail, non abbiamo ancora ricevuto risposta ufficiale da nessuno, eccetto per una telefonata informale ricevuta il giorno seguente.
A 6 settimane dall’inizio dell’emergenza COVID-19 il lavoro sul territorio prosegue nel totale caos e smarrimento. Un “caos calmo” come direbbe Moretti, il silenzio di dirigenti, coordinatori e decisori politici è assordante. Continuiamo a non avere indicazioni sulla gestione dei pazienti sospetti COVID-19 che rimangono a casa senza diagnosi, senza terapia precoce, senza un’assistenza domiciliare strutturata e con la paura costante di contagiare i familiari. Contemporaneamente si arranca per rispondere a tutto quello che COVID-19 NON È e che da un giorno all’altro è stato messo in disparte, ma continua ad esistere e a breve ci travolgerà. Il senso di frustrazione, solitudine e incertezza sta diventando molto pesante e lo condividiamo giorno per giorno con i nostri pazienti. Il lavoro di contenimento dell’ansia, sia personale, sia dei colleghi che dei pazienti è enorme; ci sono giorni in cui questo non è possibile e l’ansia ci travolge.
Sono testimone e rilevo dolorosamente ogni giorno come l’organizzazione attuale della Medicina Generale, delle Cure Primarie e dei Servizi territoriali sia tragicamente inadeguata e incapace di affrontare questa sfida e tutte le sfide che già negli ultimi decenni si erano poste, come quella delle malattie croniche e della fragilità psico-sociale.
Unica speranza è che questo disastro serva per ripensare e ricostruire in futuro un Servizio Sanitario nuovamente NAZIONALE e UNIVERSALE basato su un modello di Cure Primarie proattive, ad approccio comunitario, multidisciplinari e coordinate con gli altri settori e gli altri livelli di cure.
Elena Rubatto, Medica di famiglia della provincia di Torino
Articolo che trabocca di competenza, intelligenza e sensibilità, E mette in luce, ahimè, l’inadeguatezza dell’organizzazione generale. Davvero brava!