Covid-19 in Etiopia

Michele D’Alessandro e Chiara Biffi

 

In Etiopia Covid-19 è al momento la quarta epidemia del Paese, assieme a colera, morbillo, e malaria.

L’emergenza globale innescata dal coronavirus SARS-CoV-2 non è solo un’emergenza sanitaria. Le misure restrittive necessarie per individuare, testare, isolare e tracciare i casi positivi coinvolgono uno spettro molto ampio di attività e incidono profondamente sulle dinamiche sociali ed economiche dei Paesi.[1] L’impatto del virus è quindi sistemico, e la risposta all’emergenza sanitaria coinvolge necessariamente anche una dimensione politica, economia, e sociale. Questa riflessione generale assume dei tratti particolarmente specifici qui in Etiopia, un Paese che si muove tra le maglie strette di una difficile fase di transizione, e che con questa si deve per forza misurare per poter prevenire e fronteggiare l’emergenza sanitaria.

In Etiopia, la diffusione della malattia Covid-19 rischia di colpire un sistema sanitario già molto debole, all’interno di un tessuto sociale, politico ed economico particolarmente fragile. Nell’aprile del 2018, l’elezione del Primo Ministro Abiy Ahmed ha rappresentato per molti la speranza che l’Etiopia stesse inaugurando un’epoca nuova: la pace siglata con l’Eritrea dopo vent’anni di conflitto, l’amnistia concessa agli oppositori politici, la riunificazione dei due Sinodi della Chiesa Ortodossa Etiope, e una serie di importanti riforme economiche, hanno effettivamente tracciato l’inizio di una nuova fase storica per il Paese, suggellata dal Premio Nobel per la Pace al Primo Ministro. Purtroppo, l’euforia generata da questa scia di riforme è stata subito sbiadita dal parallelo diffondersi di conflitti su base etnica, in tutto il Paese. Prima dello scoppio della pandemia, in Etiopia era quindi in atto una delicatissima fase di transizione. L’arrivo del coronavirus, e la conseguente decisione di posticipare a data da destinarsi le elezioni politiche previste per maggio, rischiano di innescare ulteriori tensioni sociali e politiche: da una parte la dichiarazione dello Stato di Emergenza e il rinvio indefinito delle elezioni, dall’altra le opposizioni che vedono in queste decisioni il desiderio da parte dell’attuale governo di stabilire e prolungare il proprio potere in modo anticostituzionale.

Da un punto di vista economico, nonostante l’impressionante crescita del Prodotto Interno Lordo dell’ultimo decennio, l’Etiopia si trova ancora a dover gestire un fragile sviluppo economico e sociale, in cui la forbice tra le fasce più ricche e quelle più povere della popolazione si è ulteriormente allargata, e il tasso di occupazione fatica a tenere il passo con una crescita demografica galoppante. Le graduali misure restrittive messe in campo dal governo rispecchiano in gran parte un’attenzione particolare per tutte queste delicate dinamiche sociali ed economiche: un lockdown molto mite attuato immediatamente dopo il primo caso confermato di Covid-19, con l’obiettivo di attenuare i possibili effetti devastanti della diffusione del virus sull’economia del Paese; la dichiarazione di uno Stato di emergenza più attento e bilanciato, che vuole avere un’impostazione diversa rispetto a quello dichiarato alla fine del 2016,  caratterizzato dall’istituzione di strutture militari preposte all’individuazione (a volte indiscriminata e violenta) degli oppositori alle regole; l’impegno massiccio nel reperire fondi dai donatori internazionali per poter preparare il Paese allo scenario peggiore, sia da un punto di vista sanitario che economico; il rafforzamento di una legge contro la violenza verbale e contro le fake news, al fine di impedire la diffusione di notizie errate o non fondate; la creazione di meccanismi di “previdenza sociale”, con l’invito ai commercianti a seguire scrupolosamente le normative igieniche, pur evitando allo stesso tempo il controllo eccessivo nei loro confronti, così come la raccolta di generi di prima necessità da destinare alle fasce più deboli della capitale.

Quando parliamo di misure restrittive graduali e relativamente leggere (soprattutto rispetto a quelle messe in campo dai Paesi più colpiti dal virus) ci riferiamo, per esempio, alle particolari ordinanze sui trasporti pubblici e sulle attività commerciali di Addis Abeba: il trasporto pubblico urbano è rimasto sempre attivo, ma il numero consentito di passeggeri per ogni minibus è stato dimezzato, in modo da mantenere la distanza di sicurezza tra i passeggeri, che sono tenuti ad indossare obbligatoriamente le mascherine protettive. La maggior parte dei ristoranti è ancora aperta, con orario ridotto, con il dovere di distanziare i tavoli, e con l’obbligo di non servire più di tre clienti per tavolo; sono stati disposti saponi liquidi e taniche d’acqua all’ingresso di uffici, negozi e centri commerciali, e sono state piazzate grandi cisterne d’acqua sui punti di passaggio più affollati della città, in modo da consentire ai passanti di lavarsi le mani frequentemente.

Al 25 Maggio, in Etiopia, sono ufficialmente segnalati 655 casi positivi e 5 decessi. Nonostante sia molto difficile ricavare da questi numeri un quadro complessivo della diffusione dell’epidemia in un Paese di 110 milioni di abitanti, si può dire che fino a questo momento la propagazione epidemica sia stata piuttosto lenta e graduale: a un mese di distanza da quando è stato confermato il primo caso positivo, il 13 marzo, nel Paese si registravano solo 74 casi, arrivando a 263 positivi due mesi dopo il primo caso ufficiale. Se guardiamo ai dati dei Paesi confinanti, tuttavia, nelle scorse settimane l’incremento dei casi positivi è stato molto più significativo: il Sudan ha superato i 2,700 casi, mentre Gibuti, Somalia e Kenya hanno confermato rispettivamente più di 1.800, 1.500, e 1.000 casi positivi, con Gibuti che registrava a fine aprile la prevalenza più alta di tutto il continente (98,6 casi positivi ogni 100.000 abitanti). Sud Sudan ed Eritrea al momento contano rispettivamente 290 e 39 casi. Con tutte le cautele necessarie rispetto all’attendibilità di questi dati, a livello regionale sembra si stia delineando l’incremento della curva epidemica.

È importante alzare lo sguardo sulla regione, perché la diffusione dell’epidemia in questi Paesi incide fortemente sulle dinamiche interne dell’Etiopia. Posizionata al centro del crocevia migratorio del Corno d’Africa, l’Etiopia rappresenta il punto di origine, transito e destinazione per i flussi migratori all’interno e al di là della regione: verso il Medio Oriente attraverso Gibuti e Yemen sulla rotta migratoria orientale; verso il Sudafrica attraverso il Kenya e i paesi dell’Africa orientale lungo la rotta meridionale; e verso l’Europa attraverso la Libia e il Sudan, lungo la rotta migratoria del nord. All’interno di questo quadro, e nel pieno dell’epidemia Covid-19, stanno confluendo in Etiopia migliaia di migranti etiopi rimpatriati forzatamente (assieme ad altri gruppi di migranti) da Gibuti, Somalia, Kenya, Sudan, Arabia Saudita, Mozambico, e altri Paesi, creando una seconda emergenza sanitaria[2]: sia nelle regioni di confine che nella capitale, il governo etiope sta convertendo scuole, università e altre strutture, in centri temporanei per la quarantena, in modo da poter contenere questi improvvisi rimpatri per almeno 14 giorni, effettuare i tamponi e – in caso – attivare il tracciamento dei contatti, prima di accompagnare i migranti nelle rispettive regioni di appartenenza.

L’epidemia di Covid-19 è al momento la quarta epidemia del Paese, assieme al colera, al morbillo, e alla malaria. Questi focolai epidemici sono ancora molto diffusi su tutto il territorio nazionale: il colera è particolarmente presente nella regione Somala e in quella dell’Oromia, ed è in aumento a sud del Paese, nella zona del South Omo. Nella seconda settimana di maggio sono stati confermati 20,118 casi di malaria, e 610 casi sospetti di morbillo, con due morti.[3] Rimane quindi necessario mantenere un livello alto di attenzione su tutto il fronte sanitario, continuando a supportare il sistema nazionale, mantenendo attivi i servizi sanitari di base sia all’interno delle strutture ospedaliere che nei centri periferici, a fianco delle comunità.

All’interno di questo scenario complesso, composto anche da una serie di difficoltà legate al coordinamento tra governo e organizzazioni internazionali, dalle prassi sociali e comunitarie che rendono molto difficile la condivisione di messaggi fondamentali quali “il distanziamento sociale”, Medici con l’Africa CUAMM sta cercando di supportare al meglio delle sue possibilità il sistema sanitario centrale e periferico. L’attenzione è quindi focalizzata su Addis Abeba, epicentro dell’epidemia Covid-19, ma anche su tutte le regioni dove il CUAMM opera in rafforzamento del sistema sanitario per promuovere e avvicinare i servizi alle comunità più vulnerabili: nella regione dell’Oromia, a Wolisso, dove il CUAMM lavora all’interno di un ospedale insieme alla Chiesa Cattolica Etiope e alle autorità locali; a Jinka, a sud del Paese, nella zona del South Omo al confine con il Kenya, dove svolge attività di supporto all’ospedale generale e anche alle comunità pastorali; a Gambella, una delle regioni più povere dell’Etiopia, al confine con il Sud Sudan, dove lavora anche all’interno dei campi per i rifugiati sud sudanesi, e nella regione Somala dove ha aperto da poco un nuovo progetto.

In risposta a Covid-19, CUAMM sta lavorando a stretto contatto con le autorità locali e gli Uffici Sanitari in Oromia, a Gambella, nella zona del South Omo e ad Addis Abeba, attraverso attività di supporto costituite da assistenza tecnica, allestimento di centri di isolamento e trattamento per soggetti sospetti e sintomatici, triage e screening a livello di unità sanitarie, distribuzione di materiale sanitario e dispositivi di protezione individuale, organizzazione di corsi di formazione e raccolta dati, e infine attività di sensibilizzazione comunitaria rispetto ai rischi sanitari. In collaborazione con UNICEF, CUAMM sta inoltre progettando una ricerca operativa sul Covid-19 a Gambella, all’interno del campo di Nguenyyiel che ospita al momento 82.722 rifugiati sud sudanesi di etnia Nuer al fine di migliorare l’efficacia della comunicazione rivolta alle misure di prevenzione adottate dalle comunità. L’impatto dell’epidemia a Gambella potrebbe essere più significativo rispetto ad altre regioni, sia a causa della possibile amplificazione della diffusione del virus all’interno dei campi profughi altamente congestionati, sia perché la regione collega l’Etiopia e il Sud Sudan facendo quindi da tramite per le diverse tratte commerciali e migratorie verso la capitale: le misure restrittive relative ai movimenti delle persone, al distanziamento e al lavaggio delle mani risultano particolarmente difficili da applicare in un contesto complesso come quello dei campi di rifugiati. Assieme all’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il CUAMM sta cercando di predisporre un intervento per contribuire al contenimento della diffusione dell’epidemia nella regione, rafforzando le attività di prevenzione e controllo nel corridoio occidentale dei trasporti che collegano Gambella ad Addis Abeba, passando per l’Oromia. Alcune attività all’interno di questo intervento prevedono la distribuzione di materiali protettivi, la riabilitazione di piccole strutture igienico-sanitarie, e il rafforzamento dei centri di isolamento e dei punti di accesso per lo screening dei migranti.

Tutto questo fa parte di una strategia generale per cercare di accompagnare l’azione del governo: risulta infatti fondamentale sostenere la politica governativa di creazione di strutture per la quarantena, l’isolamento e il trattamento dei casi positivi nei principali centri urbani e rurali, così come appare essenziale supportare il lavoro degli operatori comunitari per uno screening casa per casa. La chiave per il contenimento dell’epidemia potrebbe infatti passare per il supporto di risposte epidemiologiche già esistenti nel Paese.

Michele D’Alessandro – Ufficio Relazioni Internazionali CUAMM

Chiara Biffi – Responsabile dei progetti CUAMM in Etiopia

Bibliografia

  1. Una delle aree più interessate è l’Africa, continente in cui la Banca Mondiale prevede una recessione per la prima volta dopo 25 anni, fino al – 5%, nonché un aumento della povertà estrema nell’Africa Sub-Sahariana. Fonte: The impact of COVID-19 (Coronavirus) on global poverty: Why Sub-Saharan Africa might be the region hardest hit. Blogs.worldbank.org, 20.04.2020
  2. Ad oggi, da questi Paesi sono stati rimpatriati forzatamente 13,428 etiopi: 2,757 dall’Arabia Saudita, 3,451 da Gibuti, 3,889 dal Sudan, 2,791 dalla Somalia, 529 dal Kenya e 11 dal Mozambico (Fonte: Covid-19 National Emergency Coordination Center, Operation Updates, 20.05.2020.
  3. Ethiopian Public Health Institute (EPHI), Epidemiological Bulletin, Week 19, 2020.

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